Razza europea un tanto al chilo

euroSyriza decide di capire cosa ne pensa il popolo greco della proposta europea e i commentatori, i critici, gli specialisti e puritani si sprecano in ragionamenti di carattere tecnico.
La questione è invece assai semplice ed è più che etica: capire se la linea di opposizione alla decisione europea, che Tsipras definisce come “ricatto della Troika”,  è condivisa dal popolo greco.  In parlamento la decisione è stata votata con una discreta maggioranza (179 voti a favore e 120 contro) così come nel paese c’è una timida conferma se si prende per buono il sondaggio di Kapa Research che da al “SI” un 47%.

Ecco il perché di un referendum. Perché quando un fardello diventa insostenibile, prima di appesantirlo ulteriormente, bisogna chiedere a chi lo porta se ha ancora voglia di caricarsi.

La Grecia ha un rapporto debito/PIL  del 175%, l’Italia del 132,6%, mentre la media europea è del 87,4% e dunque chiaro il contesto entro cui ragionare: accettare di annegare una società e di affamare un popolo fin troppo umiliato dall’Europa. Del perché si sia arrivati a questo i greci lo sanno fin troppo bene e la sola risposta è PASOK e Nea Demokratia.

Non si tratta di una “finta democrazia”, come dice Ernesto; qui il problema non può esser visto con un’ottica open (se i documenti si reperiscano o meno facilmente) dal momento che da mesi non si parla d’altro: dalla TV alla stampa, per finire ai bar e ai barbieri della penisola ellenica. La stragrande maggioranza dei greci sa benissimo che questo è lo sforzo di un governo che cerca di salvare la dignità di un popolo e l’etica di quel progetto  contenuto nel Manifesto di Ventotene.  Anzi, come sostenuto da Krugman, l’eventuale vittoria al referendum conferirebbe ancora più legittimità democratica al governo Tsipras.

L’idea di Syriza è quella di rimanere in Europa nella piena autonomia di scelte politiche che non facciano decadere i livelli sociali al di sotto delle realistiche possibilità di vita. Ma non sembra essere questo l’interesse di Bruxelles. Se amate i numeri è bene sapere che la Grecia ha una spesa pubblica che è quasi il 43% del PIL e quella tedesca supera tale percentuale, con la differenza che in tutti questi anni critici la Germania è l’unico paese dove il PIL è comunque continuato a crescere. Allora, forse, ha ragione Adriano Manna quando insinua su quella strana somiglianza tra lo statuto della BCE e quello della Banca Centrale tedesca.

 

L’universalità dell’esistenza attraverso un reddito incondizionato

C’è un tema che riguarda l’uomo e le teorie (e le pratiche) intorno alla sua esistenza che, mai come in questo periodo, sembra più impellente che in passato. La sussistenza degli individui, in un modo o nell’altro, è al centro delle preoccupazioni politiche di soggetti diversamente impegnati nel sociale. Lo fa, per esempio, il governo italiano con quei concetti surrettizi che hanno ispirato sia il Jobs act che l’Expo 2015 e che Guido Viale, su Il Manifesto, rubrica sotto la logica del trickle-down. Sono impegnati, ovviamente, anche movimenti, sindacati e partiti che con una grande disparità di argomenti pensano a forme di reddito generalizzate, di inserimento o assistenziali. In qualche modo quasi tutti i ragionamenti messi in campo, ruotano intorno al lavoro e al reddito come conseguenza, ma anche viceversa.
Insomma, il dubbio sembra essere costituito proprio dal nucleo della questione esistenza: puntare sul lavoro per tutti, in ogni modo e ad ogni costo, o sul reddito al di là del lavoro?
In Italia ci sono solo due proposte parlamentari in campo: quella del M5S che prevede un reddito di € 780 per circa 9 milioni di persone e quella di SEL di € 600 a chi ne guadagna meno di 8.000 l’anno.
Qualcosa che in qualche maniera ricorda, più o meno, quel “Reddito minimo di inserimento” già sperimentato in 300 comuni italiani nel 1998 (dal primo Governo Prodi e Livia Turco come ministro delle Politiche Sociali).
Poi ci sono proposte che, superando l’idea dell’ammortizzazione sociale, inseriscono concetti più ampi come la liberazione dal ricatto del lavoro e l’autonomia della propria esistenza.

libroLe ragioni del reddito di esistenza universale“, edito da Ombre Corte nel 2014,  è un libro nel quale l’idea di reddito di esistenza è vista come capacità di eliminare la tendenza al controllo della vita degli individui. Una vita sempre più legata al mondo della produttività sociale e a concetti di cittadinanza fondati sul diritto di proprietà.

Di questo, e di qualcos’altro, abbiamo parlato con Giacomo Pisani, autore del volume.

Giacomo, Tito Boeri evidenzia una differenza sostanziale tra “reddito di cittadinanza” e  “reddito minimo garantito”. Il primo ha costi altissimi e quindi improbabile, l’altro, con costi più contenuti è più praticabile. E,  sempre secondo Tito Boeri e Roberto Perotti, un reddito di tipo universalistico, e non selettivo, ha almeno due fattori di sconvenienza: il primo è che nessuno lavorerebbe per meno o poco più del reddito garantito e il secondo che non sarebbe comunque realizzabile “economicamente”, perché anche solo un reddito minimo di  € 500 porterebbe a una spesa di circa il 20% del Pil. 

Innanzitutto grazie per la possibilità offertami di discutere di reddito e di altre cose che mi stanno particolarmente a cuore. Non sono contrario, in generale, a forme di reddito “ridotte” (redditi di formazione, redditi regionali, ecc…), a condizione che sia mantenuta l’incondizionatezza come principio cardine del dispositivo. Anche in forme di reddito più limitate l’universalità deve costituire un limite ideale fondamentale. Condizionare l’elargizione del reddito al merito, alle capacità ecc può renderlo un fattore di ricatto tremendo. Il reddito universale, invece, è un fattore di emancipazione completamente diverso da qualsiasi reddito finalizzato all’inclusione sociale: esso, liberando gli individui dal ricatto della povertà e del lavoro gratuito e sottopagato, costituisce il presupposto indispensabile per mettere in discussione un mercato del lavoro che fa della precarizzazione dei progetti, del ricatto e dello sfruttamento cognitivo e affettivo i propri dispositivi di assoggettamento privilegiati.

Considerando che il Movimento 5 stelle ha una buona presenza in parlamento, la loro proposta di “reddito di cittadinanza”, unita anche a quella di SEL e di una parte del PD, potrebbe essere un buon inizio?

Sicuramente può essere un buon inizio, ma credo sia importante in questo momento non considerare il reddito di esistenza come un dispositivo isolato, elargito dal governo di turno, ma come uno strumento fondamentale per innescare un processo costituente che ponga la centralità – anche a livello istituzionale – della cooperazione e della produzione cognitiva al di fuori dei dispositivi di privatizzazione e assoggettamento tipici della governance neoliberale. Esiste oggi, soprattutto presso le nuove generazioni, un grande potenziale cognitivo e creativo, continuamente messo a valore in un mercato che spesso non ha neanche la necessità di riconoscere da un punto di vista contrattuale il contributo di ciascuno in termini di produzione. L’esistenza stessa, nella sua dimensione sociale, è messa a valore e neutralizzata nel suo potenziale di conflitto. Per questo c’è oggi la necessità di politicizzare il sociale, costruendo un modo diverso di produrre e cooperare, ponendo al centro la condivisione e le pratiche mutualistiche e rompendo, al tempo stesso, in questa stessa dimensione sociale in cui gioca il capitale, la valorizzazione neoliberale.
La “coalizione sociale”, nata in questi giorni, mi sembra stia costruendo da questo punto di vista un terreno  importante da cui partire.

Nietzsche diceva che il lavoro metteva in discussione il senso stesso della vita (“Il lavoro logora una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare”); Marx, nei Grundrisse, ipotizzava un superamento sia del capitalismo che del lavoro; Marcuse e Russell parlavano semplicemente di “non-lavoro” e il gruppo Krisis di “tempo liberato” nel loro “Manifesto contro il lavoro“.
Oggi, quali analisi ti sembrano ancora valide in un mondo che decentra e isola ancor di più?

Continuo a pensare che il lavoro sia il fattore peculiare di differenziazione che trasforma l’uomo da parte integrante della natura a parte specifica di essa. Il lavoro è il momento in cui l’uomo, assumendo la sua esposizione alla storia e ai rapporti sociali, da forma al mondo e si lega ad esso in un rapporto dialettico. Quando parliamo di lavoro, però, parliamo sempre di lavoro storicamente determinato. Il lavoro è un rapporto sociale, non esiste lavoro in astratto. Oggi il rapporto dialettico in cui il lavoro consiste è rotto da dispositivi di ricatto e assoggettamento che fanno dell’individuo un ingranaggio costretto a rincorrere la propria esistenza fra contrattini (spesso senza alcuna attinenza con il proprio percorso di studi e di formazione), stage gratuiti e lunghi periodi di disoccupazione, senza la possibilità di progettare il proprio futuro a lungo termine. Il reddito di esistenza è un fattore di decostruzione che riapre per il soggetto la partita con la realtà e col proprio futuro.

Come si innesta il reddito universale in un modello di società costruita sul “contratto sociale”, con il lavoro tra i suoi principi fondamentali?

Esiste una importante scuola di matrice neo-contrattualista che sostiene il reddito di base, che in parte ho ripreso all’interno del mio libro. Si tratta di una prospettiva molto interessante e con cui è importante dialogare, ma credo sia necessario non perdere di vista i rapporti materiali al di sotto della legge e rispetto a cui il diritto diviene funzionale. Il reddito non è importante perché fa capo ad un qualche diritto fondamentale inscritto nella natura umana, ma perché costituisce un bisogno urgente per una molteplicità di soggetti eccedenti (precari, disoccupati, autonomi a partita iva, freelance, migranti, operai, lavoratori della conoscenza ecc…).  Strumento di tutela sindacale, oltre l’insufficienza di un welfare lavorista frutto del compromesso fordista, ma anche dispositivo di rottura e autodeterminazione.

Ma il reddito universale è un punto di arrivo? Basta a fondare di fatto un nuovo modello sociale o, come dice Toni Negri, può essere un mezzo per “inventare il comune”. 

Il reddito è tutt’altro che un punto di arrivo. E’ certamente uno strumento per costruire una società fondata sulla cooperazione e sui beni comuni, e quindi di innesco di un processo che è però ancora tutto da costruire. E’ vero, infatti, che la socializzazione dei processi di produzione rende oggi l’astrazione totale, ed ogni processo di autodeterminazione a livello sociale è già un colpo inferto al capitale. Quest’ultimo, però, è ancora vivo e vegeto nella determinazione di rapporti, forme di vita e processi di produzione. C’è quindi l’urgenza di pensare un welfare dal basso che sperimenti pratiche del comune oltre le forme canoniche della rappresentanza istituzionale, e che includa una coalizione ampia di soggetti sociali entro la costruzione di orizzonti di senso che non si sottraggano all’astrazione del mercato per ricercare un’isola di autenticità da cui guardare le brutture del mondo. E’ necessario invece un processo di riappropriazione che, attraverso la condivisione, faccia di quel bagaglio di capacità immateriali di cui si nutre il capitalismo cognitivo la posta in gioco per la creazione di una società nuova.

Cosa non va nella risoluzione del Parlamento europeo del 2010, sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà (2010/2039)?

Quella risoluzione demanda ai singoli stati nazionali l’attuazione del reddito. Oggi che i processi di produzione hanno una dimensione trans-nazionale e la sovranità statale è in forte crisi, mi sembra un’idea di difficile attuazione. Inoltre, non penso che si incida sui rapporti di produzione con un ritorno alla forma-stato, ma portando il conflitto sul piano europeo. Questo è un punto centrale, che non solo il percorso dello “sciopero sociale” ha avuto bene e a mente e sta portando all’interno della coalizione sociale, ma è determinante anche nella prospettiva politica di Syriza e Podemos. E’ necessario costruire un’Europa dei diritti contro l’Europa dei mercati, strappando alla lex mercatoria spazi di progettazione politica che pongano al centro la gestione comune dei beni e dei servizi indispensabile al soddisfacimento dei bisogni fondamentali della molteplicità di soggetti eccedenti che abbiamo citato.

Nel libro concludi citando Martha Nussbaum la quale, tra l’altro, sostiene che i cittadini vanno formati e la strada non è così immediata (in “Non per profitto“).

Credo che la Nussbaum ponga una questione centrale: la capacità è un concetto esigente. E’ necessario che siano disposte le condizioni sostanziali perché possa “funzionare”. La retorica del merito e delle capacità è vuota e astratta, se non si connette con una critica delle condizioni sociali e dei bisogni fondamentali che in esse maturano. Reddito e beni comuni per me vanno in questa direzione: sottrarre al mercato spazi di progettazione della realtà, con il riconoscimento sostanziale dei diritti fondamentali connessi con i bisogni, più che con un qualche modello sociale ideale, costruito a priori. Per questo la battaglia è politica, e ci coinvolge tutti.

Tu sostieni che il postmodernismo (e la sua “fiducia acritica dei media e dei nuovi spazi di comunicazione”) abbia legittimato il riassorbimento delle differenze entro un terreno neutrale, relegando il tutto nella “chiacchiera totalizzante”. Sembra una concezione anni ’80… pre-internet, o sbaglio?

Giacomo Pisani
Giacomo Pisani

La società dei media e della comunicazione generalizzata, più che favorire la messa in comunicazione degli orizzonti storici locali e la messa in discussione di qualsiasi principio di realtà e di potere, ha immesso i soggetti in un’arena neutra. Qui, deprivati degli strumenti ermeneutici indispensabili per la comprensione e la critica della società, sono stati messi a valore anche attraverso un investimento sempre più ampio sulle forme di vita e di relazione. In questo mondo, che è anche un mondo di affetti e di vita, non c’è però solo neutralità e incapacità di progettarsi. C’è anche un altissimo potenziale eversivo, quello di una generazione in grado di creare continuamente i propri linguaggi e le proprie forme di sopravvivenza. E’ una generazione che vuole riprendere a dire il mondo, e che oggi deve riprendersi tutto.

 

Giacomo Pisani, classe 1989, laureato in Filosofia, dottorando di ricerca in Diritti e Istituzioni presso l’Università degli Studi di Torino e collaboratore con la cattedra di Sociologia del Diritto del prof. Luigi Pannarale, presso l’Università degli Studi di Bari. Giornalista pubblicista, direttore della rivista “Generazione zero” oltre che collaboratore di numerose riviste, tra cui “Critica liberale”, “filosofia.it” e “Alfabeta2”.
Tra le sue pubblicazioni troviamo: “La scienza nell’età della tecnica”, in M. Centrone, V. Copertino, R. de Gennaro, M. di Modugno e G. Pisani; “La conoscenza in una società libera” (Levante editori, 2011); “Il gergo della postmodernità” (Unicopli, 2012); “Tecnica ed esistenza nella postmodernità”, in A. Nizza e A. Mallamo (a cura di), Polisofia (Nuova cultura, 2012), “Work between fordism and post-fordism”, in “Why human capital is imporant for organizations” (Palgrave, 2014).
Unico relatore italiano alla Conferenza internazionale sul Basic Income che si terra a Firenze il 26 e 27 giugno prossimi.

#NoExpo

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Ma chi l’ha detto che a nutrire il paese debbano essere le multinazionali che sponsorizzano stermini governativi e mercificano la sofferenza?

Invece è proprio così e le ragioni di Expo2015 passano con regole antiche: mistificazione e  imbroglio. In sostanza solo tecnica della comunicazione che mette a valore esclusivamente il marketing.

Si parla di cibo e di fame nel pianeta ma nella sostanza (mal celata) si apre la strada agli affari della grande distribuzione (McDonald, Coca Cola, Nestlè, Eataly). Pensato che poi serva all’Italia per rilanciare i propri prodotti? E quali? Nella migliore delle ipotesi, si spreca un po’ di denaro pubblico (10, 15 miliardi), si creano pochi posti di lavoro sottopagati e precari e il malaffare avanza.  Per non parlare poi del ricorso al volontariato, con annessa celebrazione come se si trattasse di un’opera dall’alto valore morale, civico o religioso.

Tutto continua a giocarsi a livello di marketing e basta: si contano i biglietti  prenotati dai tour operator contandoli come venduti (anche quelli che il Pd e la Cgil di Milano danno insieme alle tessere), mentre si annunciano milioni di visitatori all’insaputa degli albergatori.

Nel frattempo tutte le città diminuiscono, o annullano, i servizi essenziali e le regioni liberano risorse (anche quelle non disponibili) per partecipare alla kermesse e tenere alto il tenore del marketing.

La Basilicata, per esempio, impegna la cifra considerevole di 3.100.000,00 (tre milioni e centomila) euri con un programma che definirlo da repubblica delle banane è riduttivo.

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Come nell’antica logica democristiana (poi socialista e ora PD) grande l’evento, grande la spesa e grande la “fetta” da far spartire agli amici.  Per il resto solo corsa alla standardizzazione alimentare, all’omologazione culturale con le aziende globali che trainano tutto sul terreno della mercificazione anche del lavoro; d’altronde  il Jobs Act è stato fatto apposta.

Come dice Perotti: “per un politico e un amministratore è molto più appariscente ed appagante fare l’ Expo che costruire delle piscine, togliere le buche dalle strade, ecc…..”.

A noi cosa resta?  Semplice: dire di NO.

Un chiaro e deciso No a EXPO 2015 che potete esprimere come meglio credete, anche solo con un semplice hashtag sui social network: #NoExpo.

Benedetta ingenuità aristotelica

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La teoria dell’impetus di Buridano

Come fa una freccia a proseguire la sua corsa dopo che l’arco l’ha scoccata?

Aristotele immagina che dipenda dalla densità dell’aria e dal tempo che la freccia impiega a perforarla.
L’alessandrino Filopono ritiene, invece, che non ci sia una così diretta proporzionalità tra densità e mezzo, poiché lo stesso movimento si verifica anche nel vuoto. A parte l’attrito, l’aria non influisce più di tanto, perché l’oggetto cade a causa del suo peso. Questa nuova idea apre la strada, 800 anni dopo, all’Impetus di Buridano.
Quasi 1600 anni per passare da un’idea “ingenua” a una più scientifica?  Si ma, attenzione, senza che l’una abbia annullato l’altra. Come ci racconta Dan Sperberg,  entrambe le teorie (ingenua e scientifica) si fondono e si sovrappongono in un turbinio indistinguibile del comune sentire quotidiano.

Le teorie ingenue sono concettualizzazioni personali che, mettendo a valore le esperienze dirette, passano da interpretazioni singole a concetti generali.
La psicologia ingenua, per esempio, ci permette di fare previsioni inferendo uno stato mentale dall’osservazione di un comportamento; la fisica ingenua ci fa comprende facilmente la caduta di una mela dall’albero e ci fa stupire per le volute di una foglia.
A partire da Bion e per finire alla Teoria della mente, si ritiene (più o meno) che questi saperi derivino da capacità cognitive, altamente specializzate, deputate proprio all’elaborazione di specifiche informazioni.

Giusto per mettere le mani avanti (e anche perché il post non è un approfondimento scientifico) debbo evidenziare il fatto che, per esempio, uno dei punti di forza della teoria modulare fodoriana è la natura sintattica dei dati, mentre il modulo della psicologia ingenua acquisisce dati in forma semantica senza chiarire in che modo trasforma questa informazione sensoriale... E non me ne voglia la mia amica Carmela appassionata di "metarappresentazioni".

Paolo Bozzi sostiene che tali teorie valorizzano il mondo delle esperienze per formare concetti primordiali che poi si evolvono in concettualizzazioni di grado superiore e,  spesso,  in nuove modalità di realizzazione di tali concetti.
Come la fisica e l’economia anche la politica ha una sua teoria ingenua sviluppatasi, probabilmente,  a partire dalla polis ateniese che, non a caso,  Alcibiade  definisce come inevitabile follia (“al di fuori di essa possono vivere solo le bestie o gli dei“).
Susan Carey ha stabilito che nei primi anni di vita del bambino è già presente una psicologia ingenua e una fisica ingenua, mentre una economia ingenua e una politica ingenua iniziano a svilupparsi solo qualche anno più tardi.
I bambini di 4 anni, per esempio, sanno già cosa è proibito, cosa è possibile e cosa è impossibile; poi, pian piano, iniziano a sviluppare una nozione di autorità, di regola e di obbedienza che faranno da fulcro a elaborazioni più complesse.
Grossolanamente possiamo dire che all’età di dieci anni iniziamo a formarci i primi concetti politici.

Ora il problema è che questa politica ingenua si arricchisce velocemente (con tecniche retoriche e tattiche militari) ma non va oltre il suo stato primordiale; resta, per così dire, fissata nel suo brodo ingenuo, non potendo approdare in niente di scientifico (con buona pace degli studiosi di “Scienze Politiche”). E’ come se fossimo ancora immersi in quell’intermezzo di “crescita” che separò Aristotele da Buridano.  Per dirla con una metafora semplice, siamo ancora convinti che il sole ruoti intorno alla terra e ci raccontiamo, soddisfatti, di come si alzi e si abbassi all’orizzonte.

Le leggi della politica codificano l’incertezza e l’irregolarità del presente per compiere semplici e fantasiose previsioni sul futuro. Mischiamo storia, economia e religione per confortarci con le “dottrine”  e per conferma continuiamo a osservare ingenuamente la realtà credendo quasi esclusivamente ai nostri occhi.  In definitiva, sguazziamo nel regno delle “qualità terziarie”; quelle in cui  si attribuisce un carattere soggettivo a quasi tutto. Quel soggettivo che resta il nostro mondo possibile. Chissà quando una rivoluzione concettuale interesserà anche la politica, separando le credenze del senso comune da qualcos’altro che somigli a qualcosa di scientifico. Questo è un mondo che si è dotato di leggi vere e proprie che nessuno si sognerebbe di sminuire (anzi la loro violazione ci è impedita con forza) e sono leggi utili a sfuggire dall’ipotetico errore umano.  Sono leggi che servono a farci correre nella grande ruota del sistema senza essere attirati dal dubbio.

Aristotele, per esempio, era convinto che l’errore interessasse solo i fatti periferici e mai il sistema in generale; poi però arrivò Galileo che mise in discussione proprio quel sistema.  Ciò che separò i loro mondi possibili fu semplicemente un diverso senso dell’errore.

Ecco, in politica, noi siamo ancora fermi a una concezione aristotelica del mondo.

 

#4D e il texas lucano

notriv1Molti sono convinti che trivellare l’Italia serve a soddisfare il nostro fabbisogno energetico ed economico e che questo viene fatto in modo “sostenibile”.  Maria Rita D’Orsogna che ha girato l’Italia “petrolizzata e petrolizzanda ” dice di no, che questa non è una soluzione.

Renzi, invece, è convinto che questa sia l’unica soluzione e a luglio,  ha detto: “non estraiamo petrolio in Basilicata per paura di quattro comitatini”.

Eccoli  i comitatini: 62 sindaci e 10 mila cittadini tra studenti, agricoltori della Val d’Agri (la zona dove su 15 ettari si passerà da  80 mila barili a 154 mila al giorno), comitati “No Triv” di diversi paesi e tanti cittadini comuni tutti  a chiedere un impegno della Regione Basilicata nel ricorrere contro lo “Sblocca Italia” dinanzi alla Corte costituzionale.  Ed erano tutti lì, il 4 dicembre, sotto la sede del consiglio regionale di Basilicata fino alla sera.

Il Consiglio del renziano Marcello Pittella (figlio del senatore socialista di Lauria e fratello di Gianni, il capogruppo del PSE a Strasburgo) invece approva questa mezza misura: “impugnare l’articolo 38 qualora non vengano ripristinate le prerogative delle Regioni”; che tradotto vuol dire “vedi Renzi che non ti siamo contro, per favore vienici incontro….  almeno un pochino”.

Mentre i lucani, fuori dai cancelli della Regione, gridano un no secco alle trivellazioni, il presidente Pittella parla di soldi, della quota di Ires (un 30% in più) che le compagnie petrolifere dovranno versare nelle casse pubbliche.  Il presidente texano, che è un medico, invece che preoccuparsi della salute e dell’inquinamento del territorio,  parla di incremento della card  (quell’elemosina partorita qualche ano fa) e di interventi strutturali importanti per la regione.  I maligni pensano anche che l’ottenimento del titolo di capitale europea della cultura 2019 per Matera, sia già stato il pre-accordo Pittella-Renzi proprio sulla questione  petrolio.  Il movimento, e i molti sindaci di centro sinistra,  continuano a ricordare, invece, i danni che il petrolio ha già prodotto sul territorio lucano in tutti questi anni (idrocarburi nei laghi e acque radioattive).

Insomma l’art.38 aggiunge il paradosso di non poter amministrare in casa propria.  Più o meno come se all’ora di pranzo arrivi in casa un operaio e, senza alcun permesso e senza neanche suonare il campanello, inizi a perforare il pavimento del salotto in cerca di giacimenti.  Questo è quanto impone Renzi alle regioni e ai comuni.  Poi di salute (aumento significativo del numero di malattie croniche e oncologiche nell’area delle perforazioni) neanche a parlarne.

I consiglieri regionali invece sorridono e mentre qualcuno ricorda che, in fondo, la vitalità media è aumentata, qualcun altro afferma che la cacca delle mucche  inquina più del petrolio.

In tutto questo, il più grande partito lucano, il PD (che qui più che altrove è la continuazione storica di quella DC che ha dominato fin dall’inizio),  è chiuso in se stesso e  pensa soltanto ai propri equilibri interni; e forse ha ragione Angela Mauro su L’Uffington Post quando dice che le ragioni di queste scelte devono essere ricercate proprio nello “scollamento tra politica e cittadini, tra il Pd di Matteo Renzi e la base“.

All’inizio c’era una fievole speranza in vista della forte linea critica proveniente da una parte del centro sinistra: era contrario all’art.38  il deputato PD Vincenzo Folino, autosospesosi tempo fa dal partito, come lo era il presidente del consiglio regionale Piero Lacorazza che sbandierava ai quattro venti la sua contrarietà per poi optare per la soluzione morbida.  Così come pensa bene di votare a favore della soluzione Pittella anche il consigliere di SEL Giannino Romaniello, mentre tutto il suo partito è sotto le regione con le bandiere  e gli striscioni (subito dopo il voto esce o viene espulso dal partito).

Votano contro, con ovvie e decise differenze, il Movimento 5 stelle che da anni si batte per lo stop alle trivellazioni e Forza Italia e Fratelli d’Italia che sembrano aver dimenticato le scelte lungimiranti del passato have a peek at these guys.

Mancano all’appello i sindacati che sospendono il loro giudizio dimostrando  di non poter divergere troppo dal partito-regione  altrimenti gli viene preclusa quella caratteristica, tutta sindacale, di essere il trampolino privilegiato di quei segretari che si lanciano in politica. Ma, come ha dimostrato lo sciopero sociale del 14 novembre, anche le vertenze sono sempre meno strumento sindacale e la giornata del 4 dicembre, con i suoi 10 mila giovani in piazza, ce ne da ampia conferma.

Netstrike (HowTo e sciopero sociale)

pugno-redAccade in questi anni, in questi giorni, che un complesso mondo costituito da quasi 4 milioni di lavoratori “senza volto” (atipici o astabili che neanche i sindacati riescono a rappresentare o anche solo ad averne una visione d’insieme), rivendichi il proprio diritto di esistenza.
E capita che in tempi di crisi si faccia spazio quell’incapacità, tutta istituzionale, nel non saper rispondere alle richieste emergenti dalla società.  Anzi, solitamente, questa incapacità viene accompagnata da una “reazione” violenta, spesso di tipo preventivo, tendente a disarticolare le forme di associazionismo derivanti.
Questo mondo-altro, a un certo punto, decide di auto-riprodurre la propria identità attraverso la rappresentazione, anonima e dissenziente, del  malessere e del disagio.
La domanda che questi si rivolgono è:  chi l’ha detto che lo sciopero è una macchina di esclusivo appannaggio sindacale?
Ed ecco proclamato lo sciopero sociale del 14 novembre, con l’obiettivo di esprimere un secco, ma forte, no al Jobs Act di Poletti-Renzi e alla loro fabbrica della precarietà.
L’evento fa esultare Bascetta, su Il Manifesto,  intorno a una “coalizione di intel­li­genza” che, liberandosi dai modelli categoriali del neo­li­be­ri­smo, può riunire il lavoro dipen­dente alle “atti­vità senza nome e senza reddito“.
La cosa ancor più interessante, per chi come me ha sempre un occhio attento al digitale e ai social media, sono i podromi dello sciopero sociale: l’intenzione di occupare anche gli spazi della comunicazione impersonale che si sono moltiplicati nella società post moderna.
Anzi, per dirla con le parole di Eigen-Lab, “rovesciare il tavolo dello spazio di dibattito offerto e creato dai social networks per prenderlo dall’interno, per trasformarlo in spazio politico“.2014-10-10_165730
Con l’idea che  “batte il tempo dello sciopero sociale” ci sono già stati dei primi avvicinamenti ai social con prove tecniche di Tweetstorm.  Prove  che hanno portato il 10 ottobre, in preparazione e diffusione dello sciopero sociale, a lanciare  una “guerrilla tag”  con l’hashtag  #socialstrike  che ha scalato la classifica dei trending topic  e in soli 12 minuti ha raggiunto il secondo posto, per assestarsi al terzo per circa tre ore  (il primo posto sarà giustamente tenuto dall’hashtag sull’alluvione a Genova).
L’evento viene ripetuto nuovamente  il giorno prima dello sciopero sociale del 14 novembre con l’hashtag #incrociamolebraccia  e  anche questa volta si scala la classifica e si raggiunge la quinta posizione.
Insomma è importante che si stiano studiando i meccanismi che rendono più visibili gli argomenti in discussione attraverso la riappropriazione degli algoritmi che sono alla base dei social network.  L’operazione è immane e importante perché tende ad 10734005_1546081938965218_3448433219448854954_n-e1417027657349intaccare il potere di chi decide il valore dei contenuti che riempiono il web.  Occupare gli spazi e condizionare i contenuti vuol dire ribaltare i rapporti di forza all’interno dei social che per definizione dovrebbero avere un alto valore in basso.  Dunque, immaginare delle pratiche collettive di sciopero che attraversino la rete è la dimostrazione che un modo, per certi versi autoestraneizzatosi dai social,  può e vuole riappropriarsi di tutto quanto riversato, giorno per giorno, istante per istante, in questi colossi digitali di vita sociale .

E’ ovvio che tutto dovrà essere  migliorato, affinato, digerito e certamente nel prossimo futuro si riuscirà a mettere in piedi anche un vero e proprio NetStrike.
Di sicuro la strada è tracciata e le basi di un nuovo linguaggio comune sono state gettate.
Non resta che riempire di idee e contenuti quell’ipotesi di  “coalizione di intelligenza” di cui parlava Bascetta, anche attraverso la riunificazione dei movimenti che in tal senso già operano da anni, come lo storico Hacktivism, poi tutto il resto è il presente.

 

Quei futuristi antagonisti

Perché invitare tutti a leggere l’editoriale di Paolo Macry come ha fatto Lucia Serino, direttrice del Quotidiano di Basilicata?
Per reiterare un errore di lettura della società (forse anche dal punto di vista storico)?
Dico anche dal punto di vista storico perché Macry è un docente di Storia Contemporanea all’Università di Napoli, il quale ama ricordare che l’ultimo vero governatore di Napoli è stato Gava.
Si sta parlando proprio di quel Gava il cui ricordo, a molti, fa ancora accapponare la pelle, figuriamoci  a portarlo ad esempio per il governo di un territorio. Se c’è qualcuno, più giovane, che non sa di cosa si parla può leggersi questa cronistoria scritta nell’anno della sua morte.
E questo era il prologo, ora veniamo al sodo.
Partiamo dalle definizioni: Macry definisce “reazionari” e “antimoderni” questi movimenti “antagonisti” che “mischiano presunti interessi locali con parole d’ordine anticapitalistiche, antitecnologiche, antimoderne“.  Infatti Macry vede la storia del conflitto sociale italiano (quello “controverso…otto-novecentesco“) come un movimento “ambiguo nei confronti dei processi di trasformazione“, un’ambiguità resa nota nel rapporto tra sviluppo e uguaglianza, tra Stato e mercato. È dunque un movimento “conservatore” perché è incapace di stare al passo coi tempi.
La modernità di Macry significa “stare al passo con i tempi” e questi tempi sono quelli dettati dal ritmo del capitale. Stiamo parlando dei tempi che il liberismo ha imposto come scansione della modernità e tutto ciò che vi si è frapposto (o vi si frappone ancora) dev’essere definito come atto di conservazione.
Un po’ come quel vecchio esempio che amava fare un mio professore all’università quando, per semplificare la differenza tra sillogismo vero e falso, ci faceva l’esempio della forchetta (siccome tutte le forchette hanno tre denti e mio nonno ha tre denti, allora mio nonno è una forchetta). Più o meno è questo il sillogismo storico di Macry.
Pensateci e poi ditemi se potreste definire come atti conservativi tutte le prospettive che hanno cercato di intravedere una società diversa da quella naturale che, superando anche la vecchia idea di contratto sociale, avrebbe potuto realizzare una stratificazione sociale egualitaria? Ditemi se è stato conservativo aspirare alla organizzazione collettiva del lavoro? O, se più semplicemente, lo è stato pensare a una società di eguali?
Invece la modernità del capitale è quella incollata allo stato di natura dove le differenze biologiche devono essere, necessariamente, anche morali e sociali.
Ecco chi sono (e chi erano) gli antagonisti: coloro che lottano per un futuro. Sono quelli che si antepongono al protagonismo autopoietico dei padroni; sono quelli che cercano di strappare dal conservatorismo l’intera società; sono coloro che disvelano i truffatori storici che spacciano l’ammodernamento dei “mezzi “, della tecnologia, come metafore di modernità.
La modernità che cercano di venderci per buona è quella del tempo della vita scambiato con il tempo del lavoro; quella che sgancia la figura del lavoratore dalla propria individualità (personalità); quella che fa sopravanzare il diritto privato su quello pubblico (anzi, che autoregola il diritto pubblico in funzione di quello privato)…
Potrei continuare ancora ma mi basta citare i ragionamenti, spesi in mille metafore, che Renzi spaccia per modernità.
Ora io non so bene se è più grave che uno studente lucano non conosca bene alcuni fatti in contestazione (anche se forse bastava misurare il sentimento di disapprovazione o più semplicemente lo stato generalizzato di inadeguatezza per fare un buon racconto di quella giornata) oppure che chi dispone e decide per tutti e contro tutti, crede di essere miracolato da  un’investitura della divina maggioranza, ; o, forse, peggio ancora chi fa della propria intelligenza un tappetino di appoggio dei poteri sempre più forti.
Mentre scrivo, leggo che a Napoli è stato duramente contestato dagli studenti il professor Macry circa la sua “modernissima” difesa della città della scienza….   ecco ogni tanto mi rallegro del fatto che ci sono altri che ci arrivano molto prima di me.

Precarius Job

Il primo maggio del 2001 Berlusconi, in un pubblico comizio a Napoli, promise un milione di posti di lavoro in più entro il 2006 (300 mila posti all’anno).

La ricetta era molto semplice: dei 5 milioni di imprenditori italiani sarebbe bastato che soltanto 1 milione di loro avesse assunto un lavoratore.
L’unico problema fu che gli imprenditori italiani, nella realtà, erano 400 mila e non 5 milioni (l’Istat ne rilevava 400 mila nel 2004 con tendenza in diminuzione) e quindi se anche un quinto di loro avesse assunto un lavoratore i posti in più sarebbero stati solo 80 mila.
E’ inutile ricordare che la promessa di Berlusconi non si avverò.

Pochi giorni fa il ministro del lavoro Padoan ritorna sul tema e ne promette 800.000 in tre anni (160 mila all’anno).

A differenza di Berlusconi Padoan è ancora più subdolo o, se volete, fa il famoso gioco “delle tre carte”.   Da un lato si promettono non dei veri e propri posti di lavoro ma la stabilizzazione dei contratti precari e dall’altro la si rende  solo apparente con gli effetti della legge Poletti, approvata a maggio, con la quale si liberalizzano i contratti a termine ponendo il limite massimo di 5 anni per il loro rinnovo; peccato che i rinnovi si applicano soltanto alla mansione e non al lavoratore, quindi basta modificare la mansione per far restare quel lavoratore precario a piacimento.

Se poi aggiungete a tutto questo il nuovo “contratto a tutele crescenti“, con il quale il datore di lavoro può licenziare senza motivazione, nei primi tre anni (niente articolo 18), il gioco è completo: il lavoratore si ritroverà con un 3 anni di prova e un lungo futuro da precario e da ricattato.

Diteglielo a quelli di sinistra che questa non è sinistra…. è sinistro!

Batte il tempo della rete

C’è un paradosso che da sempre imbriglia una certa sinistra, quella più a sinistra e/o più “purista”, quella che una volta si chiamava “extraparlamentare”,  ed è lo stare sempre fuori dai contesti più popolari.

Per esempio, ricordo che anni fa non si stava nelle istituzioni (parlamento), non si frequentavano gli sport più popolari (il calcio e i suoi stadi) e non si prestava attenzione ad alcun fenomeno etichettato come “populista”; si forse era più salutare ma ti teneva lontano da “tutto il resto”.  Insomma c’era una sorta di “guida zen” per la vita sociale.

Va da se che, poi, anche in rete  si è scelto secondo lo stesso orientamento: solo alcune liste, niente chat e soprattutto niente Twitter, niente Facebook e degli altri altri social neanche a parlarne.

Bisogna dare atto al partito pirata svedese e poi in Italia al Movimento 5 stelle  che per primi hanno tentano la strada della democrazia liquida  attraverso strumenti Open (a parte i Meetup) come LiquidFeedback, Airesis (ed altri) che però essendo carenti in socialità e anche  poco user friendly,  hanno fatto migrare molti movimenti verso i gruppi “chiusi” di Facebook.

Ora anche l’attivismo si sta riversando all’interno di Facebook e Twitter a iniziare dalla mobilitazione  lanciata dallo Strike Meeting di un primo esperimento di sciopero in rete attraverso un recupero, o riappropriazione, dei like e dei tweet verso percorsi alternativi.

E’ vero, i social network sono spazi altamente gerarchizzati (come del resto tutto il web) ma la riflessione  di EigenLab di non restarne fuori e, anzi, di acquisire maggior spazio e  visibilità  proprio per costruire percorsi alternativi a quelli del mercato, del marketing e di tutto l’uso capitalistico della socialità, mi sembra una buona prospettiva.

Si partirà da Twitter il 10 ottobre  con una scalata al “Trend Topic”  e  verrà utilizzato un hashtag  (e argomenti) che riguarderanno lo sciopero del 14 novembre.

Se vuoi partecipare scrivi, prima del 10 ottobre, a netstrike.now (at) gmail.com  e  riceverai delle indicazioni  più dettagliate.

Potenza felix [2]

felità collettivaNe riparla Angela Arbitrio su “Basilicata Post.it”, facendo da megafono a PotenzaSmart che se ne occupa da un po’ di tempo e allora pure io riprendo il ragionamento laddove l’avevo lasciato.
Quello che non mi convince dei ragionamenti, pur validi, dei due blog appena citati, è la prospettiva dalla quale guardano le cose. Il senso della felicità che ne viene fuori è quasi esclusivamente calato all’interno di una dimensione personale, di singole “sensazioni” che sommate tra loro ne danno una tendenza.
Per sgombrare il campo da incomprensioni dico subito che questi ragionamenti sono validi (e anche ovvi) come tanti altri. Così come è’ ovvio finire nella spirale del senso e delle definizioni; giusto per capirsi: che cosa è felicità? cos’è essere felici? come si misura la felicità?
Allora, per non interrogarci sul senso e sui sistemi di misura [la felicità è qualcosa? qualcosa grazie alla quale viviamo in uno stato (di tempo x) euforico? Misuriamo il tempo di durata (x) di questo stato o l’intensità di quello stato?] interessiamocene soltanto nella sua relazione con il mondo (ma tralasciando anche la definizione di mondo altrimenti non ne usciamo più).
Abbandoniamo il senso solo per facilità di ragionamento altrimenti potremmo tranquillamente sostenere, come faceva Leopardi, che in fondo la felicità non esiste affatto ed il problema è risolto.
Dunque per costruire una visione di felicità in rapporto con il mondo bisognerà sorvolare sulle sensazioni personali come il sentirsi liberi, il sentire la potenzialità dei propri sogni, ecc… e guardare il tutto da un’altra prospettiva, quella della comunità, della società, della cooperazione.
Invece di guardare all’individuo che deve “sentirsi a casa e nel mondo allo stesso tempo” pensiamo a un mondo che diventa casa.
Chi può creare le condizioni sotto le quali il mondo può diventare casa? Chi questo mondo lo influenza più di altri?
Per esempio in una città, chi può predisporre le condizioni affinché quella città diventi casa?
L’amministrazione comunale certamente è il soggetto che più di altri ha il potere di creare queste condizioni.
A me vengono in mente concetti come “partecipazione” e “inclusione” ma poi mi accorgo che sono già presenti nella Costituzione.
Dunque le difficoltà, più che teoretiche, sono pratiche ed hanno a che fare con la “volontà” di realizzare processi concreti di inclusione, di “amministrazione condivisa”.
Anche esempi come quello di Labsus, avviato anche a Matera nel 2011, sono qualcosa e/o sono meglio di niente; l’importante è  fuggire da eventi alti-sonanti e prediligere quelli basso-coinvolgenti.
L’idea è quella di creare i presupposti di una felicità più diffusa (sul proprio territorio) attraverso un nuovo rapporto tra amministrazione e cittadini; un rapporto che non può non passare attraverso il diretto coinvolgimento di quest’ultimi nell’amministrare i beni comuni. E’  tutto qui; tutto sta nell’avere la “volontà effettiva” di farlo.
La “volontà effettiva” di pensare il contrario di ciò che normalmente pensano i politici e i partiti oggi i quali tendono a riempire il vuoto con il vuoto; a prediligere il profilo dell’apparire; a privilegiare sempre e soltanto il marketing politico e a pensare al cittadino come soggetto passivo e non come attore propositivo.
Potrà sembrare un teorema da  nichilismo politico spicciolo ma è l’unica cosa da cui partire per stare nella direzione della felicità collettiva.
Provare a far funzionare le consulte pubbliche, ad affidare direttamente ai cittadini la gestione di beni pubblici (territorio, acqua, nettezza urbana, ecc…) rende diversi favori al territorio: per prima cosa avvicina il servizio ai diretti consumatori rendendolo, di conseguenza, migliore; poi riduce tutti quei costi derivanti dalle gestioni più o meno private e instaura, automaticamente, meccanismi di controllo diretto sull’intero processo.
Quello che deve funzionare è il rapporto di mutua collaborazione tra i diversi attori della società civile (famiglie, scuole, associazionismo, imprenditori e commercianti) e la politica amministrativa, tutti all’interno dello stesso rapporto cooperativo di gestione dei beni “pubblici” (o beni “comuni”).
Lo so che parlare di pubblica felicità  significa fare pura astrazione, ma se i cittadini, le persone, partecipano concretamente alla lettura del proprio territorio e alla conseguente sistemazione e riassemblaggio della propria casa-mondo,  qualche in quella direzione si può dire di averlo fatto.

Potenza felix

Potenza è infelice ma almeno Matera ride, questa potrebbe essere la sintesi lucana di quell’indice di felicità calcolato dalla “Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato”; un indice calcolato sui valori espressi dagli stessi cittadini  intervistati (per inciso voglio ricordare che tra i docenti di quell’Istituto c’è anche Andrea Galgano, potentino oltre che collaboratore dell’Ufficio Cultura del Comune di Potenza… ma giusto per inciso).
Sono contento per l’altra città lucana e mi fa piacere sapere che almeno i materani sanno auto-valutarsi. Ma perché i potentini, invece, sono scontenti? Perché i loro giudizi sono auto-denigranti?
E’ probabile che nella valutazione abbia inciso una generale difficoltà economico-sociale ma siccome è un disvalore comune a tutto il sud sento che qualcosa non funziona oppure c’è qualcos’altro.
Giuseppe Granieri sul Quotidiano ha scritto che bisognerebbe iniziare a cambiare mentalità e che ciò che probabilmente incide sui giudizi è il “racconto” che se ne fa: in definitiva “non abitiamo la città ma abitiamo il racconto della città”.
Poi su “Potenza Smart” Giambersio ne fa un decalogo a mo’ di breviario morale ad uso dei potentini.
L’unica cosa certa è che questi valori di felicità non sono da prendere sottogamba, tant’é che l’associazione “Alliance for Sustainability and Prosperity” pone questi indici “oltre il Prodotto interno lordo”, cioè come i nuovi valori di valutazione dell’economia globale.
Fa bene, dunque, il quasi-ex-sindaco Santarsiero a preoccuparsene su “Controsenso” solo che a leggere la sua intervista si comprende subito che il politico brancola nel buio perché per difendere la città, oltre a qualche numero, rilancia la palla ai suoi “denigratori” (associazioni di commercianti e di cittadini) accusandoli di semplice disfattismo.
E’ probabile, però, che i potentini che hanno risposto negativamente all’intervista, abbiano mal valutato “i fiori all’occhiello” del sindaco semplicemente perché da quel “suo” racconto sono stati tenuti fuori fin dall’inizio.
Una città che vuole mettere a valore le proprie caratteristiche per prima cosa mette su meccanismi di partecipazione e condivisione “reali” e non fittizi. Ne avevo, un po’, parlato anche qui e credo che non ci siano grandissimi alternative alla questione; d’altronde coloro che si occupano di fidelizzazione sanno benissimo che l’individuo per essere fidelizzato deve sentirsi attore del meccanismo decisionale e non spettatore.