Basilicata excellente

Avevo già sbirciato questi dati qualche giorno fa ma dopo il rilancio della notizia da parte della TGR ho deciso di condividere lo sconforto per realizzare a mio modo un “mezzo gaudio”.

Si tratta dei dati statistici rilevati dall’ISTAT sulla lettura dei libri (dell’anno 2009) dai quali ne vien fuori che in Italia “soltanto”  il 45% della popolazione (dai sei anni in su)  dichiara di aver letto almeno un libro.

La percentuale dei lettori italiani è inversamente proporzionale all’età anagrafica: il 65% de i lettori hanno 14 anni mentre il 23% ne ha 75.  Di questi le donne leggono più degli uomini (il 51,6% rispetto al 38,2%) con una punta massima di giovani lettrici (tra i 20 e i 24 anni) al 66%.

Sorvolando sugli elementi che influiscono di più sulla scelta o l’abitudine di leggere un libro (titolo di studio, condizione professionale, ecc…) resta impressionante il divario tra tra nord e sud.

Indagine su 100 persone per regione che hanno letto almeno un libro nell'anno 2009

La nota di sconforto è vedere la nostra regione classificarsi quartultima con il 35,8%.

Ma se in generale noi italiani siamo un popolo di “lettori deboli” (leggiamo al massimo 3 libri in un anno), noi lucani lo siamo ancora di meno.

E se gli italiani divenissero lettori della domenica come i francesi a noi, al massimo,  ci resterebbe l’ombrellone.

Allora può essere utile interrogarsi sulla natura della formazione delle idee politiche e chiedersi su quale strato culturale si sostanziano le scelte collettive?

 

Le parole che si impigliano nella rete

Francesco Forlani in un post su Nazione Indiana di qualche tempo fa a proposito di Dublinesque, l’ultimo libro di Vila-Matas, parla della rete e delle parole che vi si impigliano (nella rete appunto).

Nel citare il personaggio del romanzo di Mila-Matas ( che  “entra in molti blog per informarsi su quanto si dice dei libri che ha pubblicato. E se trova qualcuno che dice qualcosa di minimamente fastidioso, manda un post anonimo tacciando di ignorante o imbecille la persona che lo ha scritto.”) giunge a alla conclusione, semplice, che quello che era roba da critici oggi lo si fa con un un semplice commento. Praticamente, dice Forlani, è quanto accade su Anobii, dove dominano i “lettori critici amatoriali” i quali instaurano una “dittatura terribile quella dei lettori critici“: “per intenderci, si possono trovare I fiori del male o Aspettando Godot, quotati con una sola stellina di gradimento.

E meno male che a Forliani non è nota l’evoluzione delle social-librerie; chissà cosa ne avrebbe pensato del “salto quantico” descritto da Giuseppe nel passaggio a Goodreads.

Ma giustamente, ci suggerisce Dublinesque, il funerale (se proprio di morte si deve parlare) al massimo potrebbe essere dei libri non certo della letteratura che è “qualcosa di più dei libri“. In fondo, il destino del libro è  “un oltre”…..

L'illuminismo dei mondi virtuali

Peter Ludlow, uno dei maggiori filosofi della tecnologia, sostiene che i “mondi virtuali” (tutte le nuove forme di cultura,  di comunicazione, di informazione e di incontro on-line) stanno diventando sempre più decisivi nell’orientamento dell’opinione pubblica.

Nel suo ultimo libro, “Il nostro futuro nei mondi virtuali” edito da 40k Books, sottolinea come questi mondi virtuali, con le loro leggi e la loro diffusa influenza culturale stanno velocemente cambiando il mondo reale.

Ma cosa accadrà quando gran parte del web si sarà tramutato in mondi virtuali ?

Ludlow, rispondendo alle domande di Francesco Longo su “L’Espresso” del 21 ottobre, sostiene che bisognerà fare i conti con la costituzione di questi social network i quali essendo amministrati in forma dittatoriale (è il gestore che decide il bello e il cattivo tempo, se bandire qualcuno dalla community, ecc..), conseguono il risultato di essere meno democratici delle società reali.
Dunque,  “possono essere manipolati per servire gli interessi di un individuo invece che del gruppo” e quindi esiste il concreto “rischio che i mondi virtuali ci rendano avvezzi a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti quei diritti frutto di secoli di lotte, progresso e conquiste civili. In altre parole, le dittature on line ci rendono più passivi nei confronti di un dittatore nel mondo reale”.

Ludlow suggerisce “una sorta d’illuminismo dei mondi virtuali, dove i gestori offrano nuovi strumenti per condurre esperimenti di democrazia”.  Insomma una governance dei social network che dovranno essere visti come vere e proprie “nazioni” più che come  aziende private.

L'università deformata

Marco Bascetta, su “Il Manifesto” del 24 luglio, introduceva il concetto di deformazione per parlare dei mali dell’Università italiana.  Secondo il giornalista gli unici colpevoli dell’involuzione universitaria sono “i cosiddetti liberisti di sinistra“; quelli che hanno inventato le lauree brevi (spesso con fantasiose intitolazioni) e moltiplicato a dismisura corsi di laurea, master e specializzazioni. Se non si è accecati dall’ideologia -dice Bascetta-  è chiaro che «l’Università italiana non è stata devastata da un’assenza di riforme, ma da una sovrabbondanza di cattive riforme».  Questa sovrabbondanza di cui parla Bascetta partirebbe, probabilmente, dalla riforma Ruberti, passando attraverso Zecchino-BerlinguerMoratti e in giù fino alla Gelmini. Più o meno tutto quanto è stato necessario per deformare e piegare i saperi al mercato produttivo in diverse forme, ma senza mai interrogarsi se fosse stato il caso di adeguare il mercato del lavoro all’università, alla ricerca e alla sperimentazione (ma queste son cose che oggi sembrerebbero del tutto aliene dalla realtà).

Questo stato di cose aderisce, come una pellicola trasparente, alle vicende dell’Università della Basilicata e in particolar modo a quanto è accaduto alla Facoltà di Lettere e Filosofia.  Dopo le proteste, le chiacchiere e i vari impegni viene fuori il fattibile, il possibile: al posto dei quattro corsi di laurea triennale (“Lettere”, “Lingue e culture moderne europee”, “Operatore dei beni culturali”, “Scienze della comunicazione”) se ne aprono due (“Studi letterari, linguistici e storico filosofici”  e “Operatore dei beni culturali” che viene confermato) e i tre corsi di laure specialistica (“Linguistica, filologia e letteratura”, “Nuove tecnologie per la storia e i beni culturali” e “Teoria e filosofia della comunicazione”) ne diventano quattro (“Archeologia e studi classici”,  “Scienze del turismo e dei patrimoni culturali”, “Scienze filosofiche e della comunicazione” e “Storia e civiltà europee”).

In sostanza gli studenti lucani non troveranno più uno dei corsi più antichi, quello  di Lingue e nemmeno il più frequentato in assoluto, Scienze della comunicazione. Mentre il secondo ritorna nel nome di una specialistica (Scienze filosofiche e della comunicazione) il primo sparisce completamente dall’Università di Basilicata.

Fin qui niente di nuovo, è stato annunciato, masticato e anche completamente digerito e nessune ne vuole più parlare, neanche adesso che sono aperte le iscrizione ai nuovi corsi.

La novità è nel disprezzo che l’Unibas dimostra per i propri laureati in Scienze della Comunicazione (confermando così quel nomignolo di “scienze delle merendine” tanto ingiusto quanto popolare). Fino allo scorso anno accademico questi laureati avevano un corso di laurea specialistica a cui iscriversi “senza debiti” oggi, invece, sono costretti a recuperare 35 CFU pur provenendo dalla stessa facoltà, con gli stessi professori e gli stessi insegnamenti.

A qualcuno sembrerà anche un’inezia ma se riflettiamo per un po’ non ci sembrerà proprio una cosa da poco che i professori che hanno laureato centinaia di studenti sono gli stessi che oggi ammettono di aver preparato poco e male.

Insomma è come se l’Unibas ammettesse ufficialmente le colpe di una “mala educazione” e riconoscendo, per parte dei suoi laureati, lo stato di “figli illegittimi” voglia cancellare il passato (il proprio) con un colpo di spugna, incentivando, anche, l’emigrazione verso altre università.

Questo è il grande ponte “deformato” che l’università di Basilicata ha saputo creare tra vecchio e nuovo. E questo è soltanto uno sfogo isolato perchè la cosa interessa veramente poche persone, pochi studenti, nessun politico e nessun giornalista.

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Buon compleanno "Il Manifesto"

Potete leggere la sua storia anche su Wikipedia e vedrete che l’esperienza politica de “Il Manifesto” nasce molto prima ma la sua data di compleanno è il 28 aprile 1972 quando viene trasformato in quotidiano.
Io me lo ricordo bene dal 1974 quando diviene “PdUP per il Comunismo” perchè ero delegato al congresso nazionale di unificazione.

Oggi compratelo, costa solo 40 centesimi.

Basilicata da costa a costa

Ecco riprodotto il percorso compiuto in 10 giorni da Papaleo nel suo film e che google maps sviluppa su circa 188 km (da percorrere a piedi in 1 giorno 14 ore ma che impostandolo “dritto per dritto” diventano 118 Km percorribili in un solo giorno).

Tutti i lucani si sono riversati nelle sale cinematografiche per vedere questo “evento” che parla della loro regione e che ha battutto in incassi, qualsiasi altro film girato in Basilicata, oltre che il campione Avatar.

Perché questo grande afflusso? Oltre al buon battage pubblicitario ho l’impressione che i lucani stessero aspettando di essere raccontati, più che rappresentati, in forma contemporanea e sincronica.  L’ultimo film che aveva fatto qualcosa del genere era stato i basilischi ed è proprio a questo lavoro della Wertmuller che bisogna necessariamente riferirsi.

Nel 1963 la Wertmuller sincronizzò l’immagine di un microcosmo lucano attraverso la storia di piccoli “vitelloni” di paese che raccontavano la propria giornata caratteristica e atipica. Caratteristica perché i giovani studenti di paese si riconobbero in quegli attori e risero del loro stesso dialetto e delle loro stesse battute; atipica perché la cultura accreditata del tempo amava raccontare e mettere in luce una Basilicata diversa, più amara, più drammatica.

Anche “Basilicata coast to coast”  vuol far parlare i lucani ma lo fa con troppa leggerezza, tanto da non riuscire a produrre più di una trama a bozzetti e una storia frivola quasi inconsistente.

Ma forse l’intenzione era quella di fare un un film leggero, turistico e promozionale e allora si, l’obiettivo è stato raggiunto: i personaggi, la storia e gli ambienti sono possibili addirittura probabili.

Ma non cercate di più.

I grandi numeri

I numeri hanno il loro perso soprattutto in luoghi vasti dove le unità sono composte da più cifre. Negli USA Obama si appresta ad assicurare l’assistenza sanitaria a 32 milioni di americani che attualmente non l’hanno. In sostanza la legge permettera’ che i giovani fino a 26 anni siano coperti dall’assicurazione dei genitori, che ai  malati cronici siano assicurate le medicine sempre  e impedira’ alle mutue di scaricarsi di chi si ammala. Vi risparmio i numeri di dettaglio di tutta questa casistica, ma vi segnalo dei piccoli numeri: Obama riceve circa 20mila lettere al giorno e risponde, di proprio pugno, soltanto a 10 (come sceglie questo campione assolutamente non significativo lo ignoro) se pensate al rapporto tra i due numeri se non rispondesse a nessuna delle 20mila lettere sarebbe la stessa cosa.

Altro piccolo numero in uno sterminato contenitore di cifre sono quei 152 minatori rimasti bloccati in una miniera di carbone nel nord della Cina. 152 in rapporto a 1.273.120.000 (in cifra tonda) abitanti sono un po’ come le 10 lettere di risposta di Obama. Ma in quella miniera di Wangjialing quei 152 lavoratori stanno in rapporto al suo complesso che è 261 e quindi anche quei 100 che si son salvati poi in fondo è ancora un piccolo numero.

La sostenibile leggerezza del nobel

Con buona pace del nobel Barack Obama rinforza la presenza americana in Afghanistan inviando altri 30mila soldati e chiedendo un rinforzo anche dagli altri paesi Nato.

Questo “nuovo” piano militare costerà agli americani 30 miliardi di dollari in più (in aggiunta ai 130 miliardi già stanziati e che il Congresso si appresta a votare) che farà salire il costo complessivo di questi nove anni di guerra vicino ai mille miliardi; più o meno la stessa cifra prevista per finanziare la tanto annunciata riforma sanitaria.

Il nuovo finanziamento che occorre adesso sarà, con molta probabilità, recuperato da una tassazione ad hoc così come era già stato annunciato da Nancy Pelosi.

Ma se Fidel Castro si è chiesto se Obama merita il Nobel con una misera riduzione di emissioni di CO2 e Michael Moore si impressiona soltanto al pensiero di   indossare i panni del presidente, per questi nuovi soldati che andranno a morire, Noam Chomsky invece ci aveva visto lontano. In un’intervista del 23 ottobre sul “Venerdì  di Repubblica”, il noto linguista e filosofo americano aveva detto che Obama meritava si il nobel ma soltanto “per la comunicazione”. Come a dire, tutto fumo e niente arrosto.

Chomsky aveva predetto le intenzioni  di Obama di inviare nuove truppe in Afghanistan deducendolo anche da quegli inspiegabili ampliamenti del personale diplomatico nelle regioni di guerra che proseguivano semplicemente un vecchio progetto di Bush.

Alla domanda di Emilia Ippolito di “Repubblica” se Obama in qualche modo ricordava JFK, Chomsky risponde: “ricordo che ai tempi di John Kennedy i miei colleghi di Harvard erano onoratissimi di andare a Washington per parlare con l’allora presidente. Oggi i miei colleghi del MIT considerano un onore stringere la mano all’attuale presidente.”

Sembra proprio che la storia debba ripetersi inesorabilmente e  se non sarà un nuovo Vietnam sicuramente somiglierà tantissimo alle vicende di Gorbaciov del 1985.

Se Brunetta sapesse

Sencondo Brunetta a fine anno tutte le scuole invieranno ai genitori un sms per informarli sulle assenze dei propri figli.
L’idea gli sarà venuta quando ha scoperto il T9?