Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo?

Se vi chiedete, come fanno i bambini curiosi, quanto è lungo l’universo rimarrete sorpresi nel sapere che non si sa.

Ignoriamo quasi completamente cosa sia in realtà e facciamo soltanto delle buone ipotesi su quanto sia esteso quello  “osservabile“.

Sappiamo, dice Amedeo Balbi, di poter guardare al massimo fino all’orizzonte e  che, siccome la luce viaggia con una velocità finita, quel limite sta a 13,7 miliardi di anni-luce (che è l’età dell’universo) moltiplicata per la sua velocità di espansione. Dunque  approssimativamente il suo raggio potrebbe essere di 50 miliardi di anni luce.

Se vi va di trastullarvi in altre teorie intorno all’universo c’è quella interessante sulla sua  forma  e  quella sulla sua fine; ma ciò che mi ha colpito (per cui la ragione del post) è il fatto che al momento non disponiamo delle conoscenze adatte per approssimare un ragionamento oltre l’osservabile e mi chiedo il perché.  Forse che la tecnologia non ci supporti ancora abbastanza?

Oppure è probabile che non possiamo farcela noi ma un “altro-uomo”, come immagina Vernor Vingederivante da nuove interfacce con il  computer e con un’intelligenza di molto superiore a quella umana attuale.

Arrivati a quel punto saremmo in grado anche di creare energia pulita e curare malattie secolari.

Io ci ho fantasticato su che ero ancora un ragazzino mentre leggevo “L’ultima domanda” di Asimov  e poi quando, per studi accademici, mi sono occupato (anche) di “transumanesimo“.

Jason Pontin sbotta dicendo che:

«Il meraviglioso potere della tecnologia doveva essere impiegato per risolvere i nostri grandi problemi. Ma guardando il presente, che cosa è accaduto? Le app per telefoni cellulari è tutto quel abbiamo raggiunto?»

Chissà….  “forse si e forse no”, ma io concordo poco con questi ragionamenti sostanzialmente heideggeriani.  C’è una cosa, però, che mi sento di sottolineare ed è quella  “necessità di un presa di coscienza” di cui parla Nicola Palmarini : il fatto che non v’è alcuna ragione per non capire che siamo noi oggi e non qualcun altro domani a dover agire per migliorare il mondo.

Potenza felix

Potenza è infelice ma almeno Matera ride, questa potrebbe essere la sintesi lucana di quell’indice di felicità calcolato dalla “Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato”; un indice calcolato sui valori espressi dagli stessi cittadini  intervistati (per inciso voglio ricordare che tra i docenti di quell’Istituto c’è anche Andrea Galgano, potentino oltre che collaboratore dell’Ufficio Cultura del Comune di Potenza… ma giusto per inciso).
Sono contento per l’altra città lucana e mi fa piacere sapere che almeno i materani sanno auto-valutarsi. Ma perché i potentini, invece, sono scontenti? Perché i loro giudizi sono auto-denigranti?
E’ probabile che nella valutazione abbia inciso una generale difficoltà economico-sociale ma siccome è un disvalore comune a tutto il sud sento che qualcosa non funziona oppure c’è qualcos’altro.
Giuseppe Granieri sul Quotidiano ha scritto che bisognerebbe iniziare a cambiare mentalità e che ciò che probabilmente incide sui giudizi è il “racconto” che se ne fa: in definitiva “non abitiamo la città ma abitiamo il racconto della città”.
Poi su “Potenza Smart” Giambersio ne fa un decalogo a mo’ di breviario morale ad uso dei potentini.
L’unica cosa certa è che questi valori di felicità non sono da prendere sottogamba, tant’é che l’associazione “Alliance for Sustainability and Prosperity” pone questi indici “oltre il Prodotto interno lordo”, cioè come i nuovi valori di valutazione dell’economia globale.
Fa bene, dunque, il quasi-ex-sindaco Santarsiero a preoccuparsene su “Controsenso” solo che a leggere la sua intervista si comprende subito che il politico brancola nel buio perché per difendere la città, oltre a qualche numero, rilancia la palla ai suoi “denigratori” (associazioni di commercianti e di cittadini) accusandoli di semplice disfattismo.
E’ probabile, però, che i potentini che hanno risposto negativamente all’intervista, abbiano mal valutato “i fiori all’occhiello” del sindaco semplicemente perché da quel “suo” racconto sono stati tenuti fuori fin dall’inizio.
Una città che vuole mettere a valore le proprie caratteristiche per prima cosa mette su meccanismi di partecipazione e condivisione “reali” e non fittizi. Ne avevo, un po’, parlato anche qui e credo che non ci siano grandissimi alternative alla questione; d’altronde coloro che si occupano di fidelizzazione sanno benissimo che l’individuo per essere fidelizzato deve sentirsi attore del meccanismo decisionale e non spettatore.

Cultura hacker ed ecosistema delle conoscenze

Si è appena concluso l’Internet Festival 2013 e tra i tanti resoconti voglio lasciare il mio, ma minimo, da partecipante parziale.
Sono arrivato a Pisa venerdì 11 e dopo aver corso per non perdermi la presentazione de “L’amore è strano”, ma non per Sterling quanto per salutare un’amica, grazie a mio figlio che studia in questa città, seguo un evento fuori dalla manifestazione in un’aula universitaria di fronte al dipartimento di matematica. Qui il gruppo Exploit ha organizzato la presentazione del libro “Biohaker” con l’autore, Alessandro Delfanti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico,.
Delfanti racconta una nuova visione della ricerca scientifica, dove “nuovo” sta per hacker; una cultura che oggi sta influenzando fortemente l’etica scientifica e in particolare la biomedicina, attraverso l’inclusione dei fondamenti culturali dell’etica hacker e del software free.
Nella società dell’informazione dove la lotta per (l’accesso) l’utilizzo del sapere è fondamentale, la cultura hacker si dimostra fondamentale nel processare una pratica “aperta”.
Basta poco per rendersi conto che senza dati pienamente accessibili non c’è ricerca. Ne sono un esempio il progetto di Craig Venter sul genoma, la messa in rete della sequenza del virus dell’aviaria di Ilaria Capua e la cura open source di Salvatore Iaconesi.
Delfanti e Iaconesi sono certi che l’Open, grazie alla rete  e alle sue capacità di produzione della conoscenza, sia di fatto la più grossa opportunità per realizzare un sapere alternativo.
Si tratta di superare le organizzazioni burocratiche, (università, sistemi sanitari, grandi organizzazioni internazionali) ancora incapaci di comprendere le potenzialità della rete, per valorizzare quell’ecosistema fatto da avanguardie (come ad esempio i biohacker) che praticano la cultura della libera circolazione digitale di dati e di ricerche.
Il ragionamento è continuato (anche se più superficialmente) con un respiro internazionale sabato mattina  alla Scuola Normale in un panel con Delfanti, Ravi Sundaram, Alex Giordano, Jaromil, Adam Arvidsson, Maitrayee Deka, e Carlo Saverio Iorio.
Il concetto fondamentale che qui doveva passare era quello di “societing”: un’idea d’impresa completamente aperta, un vero e proprio network che instauri nuovi e forti legami con il sociale quale unico valore a cui attingere; come, per esempio, il progetto Rural Hub raccontato da Giordano.

Una primitiva forma di oppressione

217168_580706871959704_1165358364_nFousiya Musthafa, una presentatrice televisiva di Kerala, nell’India meridionale, è finita sotto la gogna morale per aver definito la purdah, la pratica di indossare il velo da parte delle donne musulmane, “una primitiva forma di oppressione”.
Il direttore del canale televisivo India Vision invece di difendere Fousiya ha affermato che si è trattato di un equivoco derivante da una disattenzione nella correzione del copione.
Dopo le dichiarazioni di Fousia anche il suo profilo Facebook è stato inondato da commenti violenti, insulti e diffamazioni  ed è stato condiviso da quasi duemila utenti.

[via Global Voice]

La città intelligente è la tua città

Se penso alla mia città nel futuro vedo una piccola città con prestazioni urbane altamente sviluppate, dove l’infrastruttura “forte” cede il passo a una più leggera e più ramificata.

Vedo una città non privatamente astratta, ma socialmente partecipata, con una rete fitta di relazioni che elevano la sommatoria delle proprie conoscenze.

In una sola parola vedo una città “intelligente”.

Quest’immagine, evidentemente, è così generalmente condivisa che l’Unione Europea  ha messo a punto una particolare strategia per favorire la crescita urbana delle città “in senso intelligente”.

Nemmeno l’intelligenza di cui parla la UE è un concetto astratto, ma una precisa direzione di sviluppo per misurare il “quoziente urbano”.  Il futuro smart va su binari precisi e la tecnologia è vitale, perché “permette a tutti i cittadini di interagire in modo trasversale e di auto-organizzarsi”.

In fondo, come ci ricorda Alberto Cottica, “le città sono il nostro futuro come specie”.

Del “perché l’innovazione e il digitale sono una grande occasionesi parlerà a Potenza, dal 14 al 16 febbraio, nel Teatro Stabile della città.

Il programma vedrà la partecipazione, a diversi livelli, di

Giuseppe Granieri,
Carlo Ratti,
Luca De Biase,
Stefano Maruzzi,
Giovanni Boccia Artieri,
Tullio De Mauro ,
Gianni Biondillo
Derrick De Kerckhove.

A che ora è la fine del mondo?

Sappiamo tutti bene che la fine del mondo era una frottola, ma se proprio non ci fidiamo del tutto John Carlson, direttore della NASA,  ce lo spiega in questo video.

E’ stato tutto un equivoco, addirittura, neanche c’erano le profezie che parlavano della fine del mondo, almeno non in senso catastrofico. I Maya, semplicemente, prevedevano il ritorno di una divinità (K’uh Bolon Yokte) che avrebbe rimesso in ordine il cosmo e probabilmente il loro calendario.

E siccome le persone sono più curiose del gatto si affollano a prenotare viaggi verso la valle di Chichén Itzá perché il poter dire “c’ero” è un’emozione più forte della fine del mondo.

Ma ci sono pure quelli che si recheranno a Bugarach o a Cisternino dove, non ho ancora ben capito se per un calcolo astrale o mero marketing turistico, già è iniziato il pellegrinaggio.

Qual è la differenza tra il paesino francese e quello pugliese? Presto detto: a Cisternino son felici e contenti di sventolare in tutte le trasmissioni televisive le proprietà anti-sciagura del tempio indiano di Babaji, invece a Bugarach, seriamente preoccupati degli stupidi avventori, hanno vietato l’accesso al paese da mercoledì a domenica.

La carta nella testa

E’ noto a tutti che le “scritture” sono in continuo aumento è meno noto, però, l’incremento delle “letture”.  Del primo ne siamo coscienti perché abbiamo visto come il digitale abbia incrementato la comunicazione scritta, del secondo non riusciamo ad afferrarne la portata poiché restiamo legati a un’idea di lettura concettualmente analogica. Tutto il peso del concetto ricade sulla “quantità compattata” di righe scritte.

Se date uno sguardo alle statistiche ISTAT gli indici sono fatti per libri di carta, audiolibri, ebook e giornali. Sappiamo, per esempio, che nel  2010  gli italiani avevano letto mediamente  3 libri a testa (con un incremento di un punto percentuale rispetto al 2009) e che coloro che possiamo definire “lettori voraci” erano soltanto il 15,1%  con una dozzina di libri letti nell’anno. A questa “quantità” di righe scritte e dichiarate come lette, si affiancano i dati sulla vendita (sia di libri che di giornali) che abbassano ancora di più la media.

Il problema è che sono gli analisti a considerare la scrittura come letta solo se appartenente a unità concettualmente “analogiche” di testo: libri, giornali, e-book, ecc….  e non si capisce il perché non si consideri letto ciò che invece è stato considerato come scritto: sms, chat, e-mail, social network, giochi, ecc….  Si è disposti a considerare il web o l’html come scrittura ma non come lettura.

Un esempio semplice di questa stortura mi è balzata agli occhi quando ho ragionato sul fatto che mio figlio, che sta affrontando gli esami di stato, legge e trova sul web tutto ciò che gli serve e contemporaneamente invia e/o riceve link interessanti dai suoi compagni. Quante righe avrà letto mio figlio? Boh e chi lo sa… intanto, statisticamente non è neanche un lettore accanito, anzi è addirittura sotto la media perché al rilevatore che gli chiederà “quanti libri hai letto quest’anno” (a parte quelli scolastici) sicuramente risponderà poco o nulla. Forse nemmeno lui considererà come lette le migliaia di righe su Wikipedia e sui vari siti specializzati. Io alla sua età ero considerato un lettore accanito soltanto perché leggevo un quotidiano e correvo in biblioteca per ogni piccola ricerca scolastica, eppure il mio camp0 di riferimento era ristretto alle capacità di una piccola biblioteca UNLA e a quelle di qualche enciclopedia  più o meno esaustiva.

Probabilmente guardiamo/usiamo il digitale e pensiamo/vediamo l’analogico. Una metafora immediata di questo paradosso è ben rappresentato da tanti ebook reader (l’iPad ad esempio) che simulano lo sfogliare della pagina di carta.

Anche quando ci liberiamo le mani dalla carta la cellulosa ci rimane in testa.

La rete che ci imbriglia le idee

E’ inutile prenderla troppo alla lontana, con McLuhan che negli anni sessanta diceva che i media influiscono sul nostro processo cognitivo, e partiamo dal 2008 con la domanda: come internet sta cambiando il nostro cervello?
La domanda non è stupida dal momento che ci siamo accorti che il cervello è un sistema in continua trasformazione. Pensiamo anche solo semplicemente a come le informazioni, oltre che più ricche, siano divenute istantanee e a come è cambiato il nostro rapporto con la lettura (da sequenziale a “reticolare”).
Una consapevolezza c’è: il cervello cambia!, ma a questo cambiamento bisogna opporre una reazione o assecondarlo e non preoccuparsene?
Per molti le potenzialità multitasking dei sistemi al silicio son un affare diabolico per un cervello umano. Se un uomo, normalmente, riesce in modo simultaneo a  fumare una sigaretta, scrivere una mail e rispondere al telefono mentre ascolta l’ultimo brano musicale appena scaricato, per Etienne Koechlin non è naturale. “Il multitasking non è nella natura dell’uomo”: il cervello umano può fare correttamente  e contemporaneamente al massimo un paio di cose e se ne fa di più (“per colpa delle nuove tecnologie”), solitamente prende decisioni anormali e innaturali. Insomma per la Koechlin dobbiamo “difenderci” dalla rete e dalle nuove tecnologie.
Anche Nicholas Carr nel suo il libro “Internet ci rende stupidi?” (anche se il suo titolo inglese era “I superficiali”) sostiene che ormai viviamo in “uno stato di distrazione continua” e che il nostro cervello sta cambiando in peggio.
In sostanza qui si sostiene che nell’abbandonare il cavallo per il motore a scoppio abbiamo fatto una cavolata madornale, che la scoperta del fuoco abbia bruciato inutilmente i nostri cibi, e che se Gutenberg si fosse fatto i cazzi suoi a quest’ora saremmo tutti felici e analfabeti (e che forse anche tutti gli omicidi derivano inevitabilmente dall’esistenza delle armi, coltello da cucina compreso).
Alla fin fine, il tema di fondo resta quello di un “pensiero reattivo” (in senso nietzscheano) che deve difendere il certo per l’incerto, il vecchio per il nuovo, la propria “cattiva coscienza” dalla storia e dalla scienza.
Ci rassicura Granieri-Stafford che «non corriamo nessun rischio magico o imprevedibile utilizzando la rete» e anche se la strada sarà lunga e tortuosa, il fatto positivo è che tutto ciò è inevitabile.

Vuoto a rendere a sinistra

Conosco Biagio De Giovanni perché agli inizi degli anni ‘80, quando frequentavo l’Istituto Orientale di Napoli, fu mio professore di Storia delle dottrine politiche e me ne innamorai quasi subito per la bellezza dei suoi ragionamenti e la lucidezza delle analisi. Confesso che, in qualche modo, non ho smesso di seguirlo e ricordo ancora con una discreta freschezza la sua analisi sullo “svuotamento del sistema egemonico della sinistra” dopo le elezioni del 2008.
In un’intervista pubblicata su L’Espresso nel maggio 2009, in occasione della presentazione del suo libro “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra“ (qui un’interessante presentazione), De Giovanni affermava che la destra italiana aveva ormai piantato le radici di un sistema che sarebbe durato almeno vent’anni, perché aveva ”saputo imporre una nuova interpretazione della storia d’Italia” (demitizzazione della Resistenza e della Costituzione; rovesciamento della questione meridionale e della spesa pubblica -elementi strategici dei comunisti e dei democristiani- nella “questione settentrionale” posta dalla Lega e “nazionalizzate” da Forza Italia).
Nel un suo ultimo libro (ma neanche tanto recentissimo), “Sentieri interrotti, lettere sul Novecento”,  De Giovanni continua in quella sua analisi precisa dello “svuotamento” della sinistra, confrontandosi con Marcello Montanari (suo ex allievo oggi docente di filosofia all’università di Bari) parlando di Stato, di comunismo e di Gramsci (che Montanari esalta e invece De Giovanni de-valorizza).
Ne parlo perché stamattina questa notizia è appuntata sia sul “Corriere del Mezzogiorno” che su “Italia Oggi”. Non so quanta eco potrà suscitare la riflessione del professor De Giovanni nei sinistrorsi italiani ma certamente farà bene parlarne: la sinistra non è più uguale a quella del passato e non lo sarà certamente a quella del futuro.
Cosa c’è in mezzo? (domanda kantiana). Sicuramente povertà ideale e progettuale da cui ne discende una mancanza ancora più grave: qualcosa che somigli a una struttura.
In una società sempre più accelerata, “questi” son come viaggiatori finiti nel carro-bestiame che pur sapendo che più avanti ci sono le “carrozze” di prima e seconda classe e più avanti ancora la motrice, non sanno proprio cosa inventarsi per venirne a capo… figurarsi a mandare in soffitta Gramsci?!

La morte normale

Nei primi anni ottanta studiavo  Horacio Quiroga per un seminario di letteratura iberoamericana.  Ricordo che alla fine di quel seminario ciascuno di noi studenti elaborò un breve saggio sull’autore e sui suoi racconti.   Io scrissi lungamente (con la mia piccola Olivetti) analizzando il personaggio della morte in tutti i racconti contenuti in “Cuentos de amor, de locura y de muerte“.  Sostenni che la morte, pur apparentemente in antitesi, altra ed estranea era, ossimoricamente, vitale nei suoi racconti: un po’ per fatti biografici (il padre morto in un incidente di caccia, il patrigno suicida,  due fratelli morti per la febbre tifoidea,  un amico ucciso per errore dallo stesso Quiroga e poi la moglie, lui stesso e due figli tutti  suicidi) e un po’ per genere letterario (era nota la sua ispirazione a Poe) la morte era probabilmente la vera protagonista dei suoi  racconti; ma era una morte normale che si accompagnava alla natura delle cose e degli uomini e come tale era accettata e mai rifuggita.

Queste cose mi son tornate alla mente alla notizia della morte di Lucio Magri e ho pensato (come Valentino Parlato) che certo «avevamo bisogno di lui della sua intelligenza e del suo impegno» ma che era giusto così.  Quella morte voluta e cercata  proprio come si cerca qualsiasi altra cosa.  Diceva un amico l’altro giorno: “ma cosa gli mancava? Non stava bene?”…  Ma perché bisogna essere disperati per desiderare di morire? Perché non si può voler morire semplicemente perché non si vuol più vivere? Perché siamo un “Paese di bigotti”, come dice Puxeddu: uno può impiccarsi o gettarsi giù da un ponte ma sempre con un gesto disperato. Noi riusciamo a digerire soltanto l’anormalità che rientra nella norma; la morte razionale, la morte voluta e cercata con normalità, senza disperazione facciamo fatica a comprenderla.

Certo tutto questo ragionamento diventa duro e difficile da assimilare quando chi sceglie la morte è una persona vicina, cara, amata. Ti resta la rabbia: una rabbia assurda che non riesci a spiegarti e che forse…. non è normale.