A che punto è la questione Musk vs Twitter?

Per caso vi state chiedendo com’è finita la vicenda Musk/Twitter?
Eravamo rimasti all’acquisto per 44 miliardi di dollari, poi al dietrofront di Musk per una controversia sul numero di bot presenti (che, secondo Musk, sarebbero ben oltre il 5% dichiarato da Twitter) e infine alla citazione in giudizio di Musk, da parte di Twitter, per violazione contrattuale e danni all’immagine.
Poi c’è l’affaire Zatko (o Mudge com’è noto negli ambienti hacker), noto esperto di sicurezza informatica assunto nel 2020 alla guida il team della sicurezza di Twitter e licenziato a gennaio 2022.  Zatko (lo pubblica ad agosto il Washington Post e la CNN), dopo il licenziamento, denuncia Twitter all’autorità sulla vigilanza del mercato finanziario, al Dipartimento di Giustizia e alla Federal Trade Commission, per i grossi problemi di sicurezza esistenti all’interno dell’azienda, tali da creare un serio rischio per tutti gli utenti.
Se volete leggere la denuncia di Zatko è qui.
Zatko sostiene che Twitter avrebbe un altissimo numero di incidenti di sicurezza, circa uno alla settimana (il 70 per cento dei quali legati a problemi di access control) e che il governo americano avrebbe informato l’azienda sulla presenza di più dipendenti assoldati da un’agenzia di intelligence straniera.
Nella denuncia si parla anche della questione dei bot (intitolata proprio “Lying about Bots to Elon Musk”) e Zatko dice che Twitter ha una metrica sugli “utenti attivi giornalieri monetizzabili”,  che definisce l’importo dei premi economici dei dirigenti, i quali sono poco portati a individuare bot per escluderli da tale metrica.
Ovviamente Musk ha chiamato a testimoniare Zatko contro Twitter e sempre ovviamente il suo CEO ha dichiarato che la denuncia sarebbe priva di fondamento, piena di falsità e contraddizioni, e che Zatko sarebbe stato licenziato per “scarso rendimento”.
Ora più di come possa finire una diatriba legale e tra miliardari, potrebbero interessarci alcune cose.
Tipo che la sicurezza degli utenti in Twitter è una banderuola poiché vista come un impedimento al business dell’azienda e che i dati degli utenti vengono utilizzati per chissà quante cose “strane” e che ci sono intelligence di vari paesi infiltrati nell’azienda (ma già nel 2019 due dipendenti furono accusati di aver spiato determinati utenti passando poi le informazioni all’Arabia Saudita).

Cosa dire?  Che se non sei ancora fuori da Twitter sei sempre in tempo a farlo.

I 7 vengono tutti d’aprile

Un amico cattolico mi ha detto che, secondo il Vangelo di Giovanni, il 7 aprile è la data della morte di Gesù; io ne voglio ricordare una molto più recente.

Il 7 aprile 1979  il sostituto procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero ordina l’arresto di un gruppo di esponenti di Autonomia Operaia e dell’area che orbitava intorno ad essa. Vengono accusati di associazione sovversiva e insurrezione armata contro lo Stato: Toni Negri, Oreste Scalzone, Emilio Vesce, Luciano Ferrari Bravo, Franco Piperno, solo per citare i più noti.

Tutti incriminati per aver diretto “Potere Operaio” e «Autonomia Operaia” al fine “di sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti dello Stato sia mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica cosiddetta dell’illegalità di massa di varie forme di violenza e di lotta armata, espropri e perquisizioni proletarie, incendi e danneggiamenti ai beni pubblici e privati, rapimenti e sequestri di persona, pestaggi e ferimenti, attentati a carceri, caserme, sedi di partito, associazioni e cosiddetti ‘covi di lavoro nero’ sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi, ordigni incendiari e, infine, mediante il ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato...».   Per 12 di loro c’è anche l’accusa di aver  «organizzato e diretto un’associazione denominata “Brigate Rosse” (…) al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e mutare violentemente la Costituzione e le forme di governo sia mediante propaganda di azioni armate contro persone e cose, sia mediante la predisposizione e la messa in opera di rapimenti e sequestri di persona, omicidi e ferimenti e danneggiamenti, di attentati contro istituzioni pubbliche e private».

 

L’truttoria poi viene divisa in tre tronconi: a Padova, a Roma e a Milano. Quello fondamentale di Roma, del PM Achille Gallucci, vedrà imputati Negri, Nicotri, Scalzone, Zagato, Ferrari Bravo, Dalmaviva, Piperno, Ferrari, Marongiu, Pacino e Balestrini, per “banda armata” e quelli di Padova e Milano per “associazione sovversiva” per tutti gli altri che alla fine raggiungerà il numero consistente di 71 imputati.

Paradossalmente i reati contestati a Roma sono dati per presupposti mentre a Padova e Milano è data per presupposta l’organizzazione.

Al processo che seguirà, il 7 giugno 1982, il “teorema” del PM Calogero verrà estrinsecato e si scoprirà che tutto l’impianto accusatorio è fondato sulla produzione di articoli su riviste (le più note sono “Rosso” e “Controinformazione“), giornali, opuscoli, volantini e scritti vari con «evidente contenuto sovversivo».

Sembrerà una cosa poco ovvia ma tutto il materiale editoriale che darà sostanza all’impianto accusatorio non ha natura clandestina ma è del tutto pubblico.

Toni Negri oltre ad essere accusato di essere l’ideologo delle Brigate Rosse sarà anche imputato per aver materialmente parlato al telefono con la moglie di Moro nell’aprile del 1978  (che poi si sarebbe scoperto essere Mario Moretti).

Nemmeno il caro partigiano Pertini, allora presendete della Repubblica, avrà dubbi sulla vicenda e “confermerà” la piena solidarietà al procuratore Fais, che in quei giorni dichiara alla stampa di avere “saldamente in pugno” tutto quel movimento che aveva creato il più grande disagio sociale della storia italiana.

Piperno, dalla latitanza, in una lettera all’Espresso scrive che “a una logica politica si sostituisce una logica di guerra” e, denunciando il vero nodo del problema, ovvero l’alleanza politica DC-PCI., conclude con un appello: «Coloro che si battono contro il regime armonico DC-PCI devono venire allo scoperto… La nuova sinistra, il partito radicale, magistratura democratica, Terracini, Lombardi, Pannella, Rodotà, Rossanda, Pintor, Bocca vogliamo sapere da che parte state».

In sostanzal’applicazione del “teorema” Calogero sarà un’anticipazione di quella “legislatura d’emergenza” che per anni sospenderà i diritti della difesa.

Tutti gli imputati vengono sottoposti al regime delle carceri speciali che costerà la vita a diversi imputati come Ferrari Bravo, Vesce, Serafini.

Pian piano inizieranno a cadere i capi di imputazione ma verranno sostituiti da altri nuovi di zecca provenienti dalle “confessioni” di diversi pentiti (Carlo Fioroni e Marco Barbone).

Tutta la vicenda molto complessa e intricata durerà fino al 1987, con la sentenza di secondo grado dell’8 giugno che smonterà per intero l’impianto accusatorio di Calogero e assolverà gli imputati, già condannati in primo grado, da quasi tutte le accuse.

Intanto erano passati 10 anni da quel ’77 e da quello strano movimento di critica e sovversione dello stato di cose presenti.

A chi serviva il “teorema Calogero”?

Senz’altro a chi ha cercato di identificare un movimento nazionale come associazione criminale diretta da “cattivi maestri” (perchè non era possibile che un movimento fosse autonomo e spontaneo); a coloro che sostenevano che la lotta di classe e le manifestazione di antagonismo non potevano innescare in quel modo il conflitto sociale e che quindi era ovvio e necessario appiattire tutto sul sul tema del terrorismo.

Siamo negli anni in cui il PCI spinge la classe operaia fuori dalla logica delle lotte e del conflitto sociale perchè deve “farsi Stato”, pensando così rimediare alla crisi dello Stato-piano.

Riporto quasi integralmente il post pubblicato su Micciacorta.it che potete leggere integralmente qui.

Il conflitto sociale che, non solo in Italia, promanava dal ’68 metteva in crisi i fondamenti stessi della dottrina keynesiana dello Stato sociale che, operando una certa redistribuzione del reddito, manteneva entro confini accettabili l’antagonismo sociale, al prezzo di qualche buona riforma. La crisi economica globale aveva mostrato in tutta la sua nudità questo buon sovrano, e messo all’ordine del giorno il suo superamento. Il Pci, prigioniero delle politiche del compromesso storico e impegnato a dimostrare l’affidabilità nella gestione della crisi, rispondeva invece con la politica dei sacrifici sancita sul piano sindacale dalla “svolta dell’Eur”, la scelta della Cgil di accettare il taglio del salario per favorire la ripresa economica e su quello governativo dal piano Pandolfi del 1978 con cui il governo Andreotti varò un generale taglio alla spesa pubblica: i costi della crisi (in primo luogo gli alti tassi di disoccupazione) venivano scaricati sui lavoratori, ai quali si chiedeva di accettare le politiche di licenziamento, di mettere in secondo piano le proprie rivendicazioni (scaglionamento dei miglioramenti contrattuali, revisione «da cima a fondo» del meccanismo di Cassa integrazione), e di accettare l’idea che il salario dovesse essere considerato una «variabile dipendente». Pci e sindacato non riuscivano a comprendere che il declino della pianificazione statale si traduceva nell’uso politico della crisi; non coglievano il significato di quelle politiche di ristrutturazione capitalistica – allungamento delle linee di produzione, automazione, delocalizzazione – che già alludevano al capitalismo di fine secolo, ed anzi le assecondavano; e non comprendevano il mutamento profondo della composizione sociale dei movimenti cui alludeva il dislocamento del conflitto dalla fabbrica all’intero territorio metropolitano – e dunque dalla giornata lavorativa alla qualità dell’intera vita.

Che fosse concepibile una vita liberata dal dominio del lavoro salariato e dalle determinazioni economiche; che ci fosse vita, oltre l’orizzonte della fabbrica; che questa vita venisse non solo teorizzata, ma praticata in stili di condotta collettivi e comunitari; che nuovi soggetti sociali producessero forme di lotta innovative e trasversali; che a tutto questo si accompagnasse una riflessione teorica all’altezza della sfida: questo, il partito di Berlinguer, il sindacato di Lama e la procura di Calogero non potevano accettarlo, e neanche concepirlo. Emblematica era la riduzione a scena indiziaria di un futuro crimine la cena nella quale era presente, assieme a Bevere (fondatore e direttore della rivista Critica del diritto), Toni Negri (che con Critica del diritto collaborava) e sua moglie Paola, e il giudice Alessandrini. Ai giornalisti de l’Unità, non passò per la mente che attorno a una rivista che praticava la critica del diritto magistrati e militanti che avevano a cuore le lotte in fabbrica e i conflitti sociali potessero incontrarsi e discuterne, socializzando conoscenze e punti di vista – magari a partire dalla comune lettura di Boris Pasukanis, il giurista sovietico che ha analizzato l’interazione tra diritto e capitalismo. Interpretare quelle discussioni conviviali come paralipomena dei Demoni di Dostoevskij è una chiave di lettura più comoda e ammiccante, efficace se si vuol credere che ogni manifestazione di conflitto radicale – condivisibili o meno che fossero – sia causata da alieni e non sia riconosciuta come originata da una storia comune: persino quando, come nel caso di una delle componenti del brigatismo, i marziani provenivano dallo stesso album di famiglia del Pci e ne conservavano le peggiori tare terzinternazionaliste, senza neanche far la fatica di tagliarsi i baffoni.

D’altro canto, la messa in relazione, in comune, delle pratiche era un tratto costitutivo di quel movimento: con buona pace di Nadia Urbinati, che si è figurata «una visione liberale e individualista», peraltro contraddetta dalle sue stesse citazioni dei giornali di movimento. Che la dimensione orizzontale di quel movimento fosse reticolare e comunicativa, informativa e territorializzante, lo avevano purtroppo ben presente le procure e le forze della repressione, che nei mesi seguenti, anche grazie alle diversamente spontanee e veritiere “confessioni” dei pentiti, riuscirono a disarticolare quelle reti: basti ricordare la distruzione del circuito delle librerie Punti Rossi, delle quali furono imprigionati – individuati con chirurgica precisione – i responsabili locali, ma gli stessi lettori (la sola Libreria Calusca di Milano nel giro di un anno si trovò ad avere in rubrica, 681 arrestati), la chiusura della Cooperativa Ar&a di Primo Moroni e Nanni Balestrini, una struttura editoriale che riuniva tante realtà editrici autogestite in grado di contrapporsi alla grande distribuzione editoriale, la fine del circuito musicale che ruotava attorno alla Cramps Records.

Negli anni di carcere preventivo, prima ancora che il processo fosse non solo celebrato ma istruito e che i capi d’accusa venissero formulati con precisione, i detenuti del 7 aprile costituivano in carcere quell’esperienza di messa in comune dei saperi che fu la “Università di Rebibbia”, tesa fra L’anomalia selvaggia di Negri e Convenzione e materialismo di Paolo Virno, due fra i testi più importanti (certamente i due più inattuali) degli anni Ottanta, attraverso i quali l’esperienza dell’autonomia e del (post-)operaismo si è prolungata fino ad oggi. Ha un valore non solo simbolico che nel quarantennale di quella persecuzione sia tradotto in Italia Assemblea di Negri e Hardt – a riprova che il tentativo di impedire a quel cervello collettivo di pensare è fallito.

Se un’immagine deve suggellare l’interezza di questa oscena storia di inquisizioni e “colonne infami”, valga allora ricordare, attraverso uno dei suoi attori, cosa significava la libertà per quei militanti: il 12 giugno 1984 Luciano Ferrari Bravo, «mentre attendeva, dopo cinque anni e mezzo di galera preventiva, una sentenza che avrebbe potuto condannarlo a decine di anni di reclusione, invece di farsi tradurre in catene al tribunale, restò a Rebibbia, sereno di una serenità filosofica, a giocare una serissima partita a tennis» (Sandro Chignola, Foucault oltre Foucault, DeriveApprodi, 2014, p. 189). Testimone socratico della verità, Ferrari Bravo non poteva allora sapere che proprio in quella primavera Foucault aveva concluso i suoi corsi, mentre la morte si approssimava, parlando del coraggio della verità e della filosofia cinico-stoica come militanza filosofica «nel mondo e contro il mondo […]: la vita vera come vita altra, come una vita di lotta, per un mondo cambiato».

Datacrazia. Politica, cultura algoritmica e conflitti al tempo dei big data.

Anticamente per individuare una casa o un qualsiasi altro edificio, per scopi demografici e fiscali, si faceva riferimento all’isolato, alla parrocchia di appartenenza, al quartiere o alla vicinanza di un incrocio. Il sistema era abbastanza incerto e i grandi proprietari immobiliari iniziarono ad apporre sugli edifici un numero che veniva poi riportato nei propri inventari.  Quest’idea, estesa poi alle principali città, divenne il sistema stabile e convenzionale di numerazione degli edifici urbani utilizzato, soprattutto, per scopi fiscali e militari.

Sicuramente non sarà stata questa la prima raccolta seriale di dati ma certamente rappresenta un primo approccio politico alla sistemazione di una certa quantità di dati, quelli che poi diventeranno big data. Ovviamente non ancora in senso quantitativo e automatizzato ma un’idea del controllo massivo attraverso i dati c’era già tutto.

Questa tendenza non solo all’ordinamento e catalogazione, come per le reti di biblioteche, ma soprattutto al controllo, come quello più eclatante della città-stato di Singapore (dove il primo ministro Lee Hsien Loong, con la scusa di rincorrere una città “super smart”, ha imposto una trasparenza totale a tutti i cittadini in modo da conoscere tutto il possibile di tutti),  è stata chiamata “datacrazia” da Derrick de Kerckhove e proprio di Datacrazia si occupa, ed è intitolato, il libro curato da Daniele Gambetta, in libreria per i tipi di “D Editore”.

Datacrazia non è un solito libro che parla di big data ma un’antologia di saggi che indagano, in modalità interdisciplinare, tutto l’universo che ruota intorno alla raccolta e analisi dei dati in rete.  Perché è importante parlare a 360° dei dati e del loro utilizzo?  Semplice, perché sono loro a parlare di noi, comunque. I nostri dati ci definiscono, ci catalogano, ci illustrano, ci identificano, ci precedono e raccontano tutto di noi, sintetizzandosi in un “profilo” che, se ben corredato e schematizzato, viene utilizzato per gli scopi più impensabili. Da chi e per cosa e che potere di controllo resta a noi e quello che capiremo solo se iniziamo a interessarcene e se smettiamo di credere che la cosa non ci riguardi (o che “tanto non abbiamo nulla da nascondere”).

Un errore molto comune e quella tendenza ad associare il concetto di “dato” all’aggettivo “neutrale” che poi traina con se quello di “impersonale”. In verità dopo la comparsa degli algoritmi e dell’uso della machine learning, i dati sono tutto tranne che impersonali. Ma forse, come dice Alberto Ventura nella prefazione del libro, “in fin dei conti non c’è nulla di più rassicurante di sapere che qualcuno ti controlla, ti coccola, ti da attenzione”.

Questa frase mi ha fatto subito riaffiorare alla mente quando da bambini ci parlavano dell’angelo custode e di un dio che ci guardava con l’occhio della provvidenza (una specie di occhio di Sauron), ma su questo ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, a partire da “Sorvegliare e Punire” di Foucalult.

Possiamo intanto partire dalla base, ovvero dall’algoritmo: quella semplice successione di istruzioni che, definendo una sequenza di operazioni da eseguire, raggiunge un obiettivo prefissato. E’ un concetto semplice e antico, se ne trovano tracce in documenti risalenti al XVII secolo (nei papiri di Ahmes) e forse il primo che ne parlò in modo specifico fu il matematico persiano al-Khwarizmi. Sostanzialmente è come quando seguite una ricetta per realizzare il vostro piatto preferito: avete gli ingredienti e un procedimento preciso a cui attenersi. L’enorme diffusione di PC e di device mobili ha massificato i processi di digitalizzazione (e datafication) e quei semplici algoritmi, integrati in motori di ricerca, in siti di news, in piattaforme di e-commerce e social networking, ecc…, si trasformano e diventano “decisori”.  Un fenomeno talmente ingigantito da essere definito “big data”. Poi più è vasta la quantità di dati più c’è la necessità di nuovi e più efficienti meccanismi di analisi.  Per farci un’idea di questa quantità di dati Daniele Gambetta, nell’introduzione al libro, cita uno studio di Martin Hilbert e Priscila López, secondo il quale nel 2013 le informazioni registrate sono state per il 98% in formato digitale (stimate intorno a 1200 Exabyte) e solo per il 2% in formato analogico; si pensi che nel 2000 le informazioni registrate in formato digitale erano state soltanto il 25%  mentre il resto era ancora tutto in analogico.

Il problema ancor più rilevante, e insieme preoccupante, è che questa grande quantità di dati è sotto il controllo di poche persone, come Zuckerberg che con Facebook (e Instagram e WhatsApp) raccoglieil più vasto insieme di dati mai assemblato sul comportamento sociale umano”.  Poi Amazon, Google, Reddit, Netflix, Twitter, ecc…, estraggono una infinità di dati dai miliardi di utenti che si connettono alle loro piattaforme; ne modellano la loro esperienza digitale, per offrire l’informazione più pertinente e il consiglio commerciale più giusto o, potremmo dire meglio, quello che probabilmente l’utente si aspetta di vedere.   Così, per esempio, il “recommender algorithm” di Amazon suggerisce cosa comprare insieme all’oggetto che si sta acquistando o Netflix consiglia il film o la serie in funzione di ciò che si è guardato in precedenza (David Carr ha raccontato che Netflix, attraverso l’analisi dei dati degli utenti, decide anche quali serie produrre). L’algoritmo ormai sa cosa piace alle persone in base all’età, alla provenienza; sa quando tempo si passa sul social, cosa si guarda, su cosa si mette il like, cosa e con chi si condividono i contenuti. E’ ovvio che alla fine ci darà solo quello che ci piace (e come si fa a non appassionarsi a questo?).

E’ la banalità dell’algoritmo, secondo Massimo Airoldi (autore in Datacrazia de “L’output non calcolabile”), cioè quella di creare una cultura incoraggiata da miliardi di stimoli automatizzati che pian piano deformano le lenti attraverso cui guardiamo o immaginiamo la realtà. Per cui su Facebook non vedremo più i post dei contatti con i quali interagiamo raramente; su Google troveremo soltanto link a pagine con ranking molto alto e su Amazon solo libri comprati in coppia. Insomma tutto ciò che “algoritmicamente è poco rilevante viene escluso dal nostro vissuto digitale”.  Siccome ormai le macchine che gestiscono i nostri dati, ci conoscono molto meglio di noi stessi, secondo Floridi è una rivoluzione che ha completamente trasfigurato la realtà.

Ma la sostanza è che i dati sono merce ed hanno un grande valore nella misura in cui si possiede un’elevata capacità di estrazione e di analisi. Il dato è caratterizzato da valore d’uso (come la forza lavoro) che si trasforma in valore di scambio all’interno di sistemi produttivi che utilizzano la tecnologia algoritmica.  La business intelligence di queste aziende è quella di estrarre valore dai dati attraverso un ciclo di vita che parte dalla “cattura”, o meglio dall’espropriazione (come la definisce Andrea Fumagalli nel saggio “Per una teoria del valore rete” in Datacrazia), poi li organizza e li integra (aspetto produttivo del valore di scambio), successivamente li analizza e li commercializza.

Questo è il processo di valorizzazione dei big-data ed è la strutturazione del capitalismo delle piattaforme, cioè “quella capacità delle imprese di definire una nuova composizione del capitale in grado di gestire in modo automatizzato il processo di divisione dei dati in funzione dell’utilizzo commerciale che ne può derivare”.  Gli utenti delle piattaforme forniscono la materia prima che viene sussunta nell’organizzazione capitalistica produttiva. Il capitale sussume e cattura le istanze di vita degli essere umani, le loro relazioni umane, le forme di cooperazione sociale e la produzione di intelligenza collettiva, portandole a un comune modo di produzione.

Gli algoritmi delle piattaforme sono le moderne catene di montaggio che fanno da intermediari tra i dati e il consumatore, concentrando al loro interno il potere e il controllo di tutto il processo.

Ma ovviamente i dati devono essere buoni e puliti, perché “se inserisci spazzatura esce spazzatura”, com’è accaduto al Chat-Bot Tay di Microsoft  che, vittima dei troll su Twitter, nel giro di 24 ore è diventato uno sfegatato nazista (il suo ultimo twit è stato: “Hitler was right I hate the jews”).

A differenza dei vecchi software il cui codice scritto spiega loro cosa fare passo per passo, con il Machine Learning la macchina scopre da sola come portare a termine l’obiettivo assegnato. Federico Najerotti (autore in Datacrazia del saggio “Hapax Legomenon”) spiega che non si tratta di pensiero o di intelligenza ma solo di capacità di analizzare, elaborare, velocemente una grande quantità di dati.  Se un software impara a riconoscere un gatto in milioni di foto, non significa che sappia cos’è un gatto. La stessa cosa vale per quei computer che battono gli umani a scacchi: in realtà non sanno assolutamente nulla di quello che stanno facendo.

Si tenga comunque in conto che gli algoritmi non sono neutrali: prendono decisioni e danno priorità alle cose e, come dice Robert Epstein, basterebbe “cambiare i risultati delle risposte sul motore di ricerca Google, per spostare milioni di voti” senza che nessuno ne sappia niente.

Anche il “Deep Learning” (recente evoluzione del Machine Learning, che lavora su un’enorme massa di strati interni alle reti neurali) che simula il funzionamento del cervello, fa più o meno la stessa cosa.  L’esplosione, anzi, l’accelerazione di questi processi, stanno riportando alla luce, in qualche modo, una sorta di nuovo positivismo: la potenza di calcolo viene assunta come essenziale valore di verità a discapito della capacità critica dell’uomo.

Un caso esemplare è rappresentato dalle “auto autonome” e il vecchio “dilemma del carrello”: ovvero come fa un’auto senza conducente a decidere se investire una persona o investirne altre sterzando improvvisamente?  Luciano Floridi dice che il problema è stato già risolto nel XIII secolo da Tommaso D’Aquino e che la cosa di cui dovremmo preoccuparci è capire come evitare di trovarci in una condizione del genere. Ovviamente la risposta è una soltanto: il controllo ultimo dev’essere sempre nelle mani dell’uomo!

Ma “cedere i propri dati significa cedere alcuni diritti e dovrebbe essere una scelta consapevole” (Daniele Salvini, “Son grossi dati, servono grossi diritti” in Datacrazia) oltre che essere remunerata. Purtroppo l’individuo si trova in un rapporto asimmetrico all’interno del quale  non può neanche quantificare il valore dei propri dati, poiché questi sono commerciabili solo in grosse quantità. Quando Facebook ha acquistato WhatsApp per 19 miliardi di dollari ha acquistato i dati di 400 milioni di utenti, cioè $ 40 a utente, solo che questi non ha preso un soldo da quella vendita.

Non solo non si guadagna e ci si rimette in diritti ma anche le libertà individuali subiscono una certa contrazione. Queste nuove tecnologie hanno anche ampliato e potenziato le politiche pervasive di controllo. Predpol è un software in uso da diverse polizie degli Stati Uniti che, grazie all’analisi di dati online, dice di riuscire a prevenire una generalità di crimini. Uno studio dell’Università della California ha mostrato come nelle città in cui PredPol viene utilizzato (Los Angeles, Atlanta, Seattle) i crimini si siano ridotti mediamente del 7,4%; il problema è che del gruppo di studio facevano parte anche due fondatori del software PredPol (infatti  i risultati sono stati messi in dubbio da uno studio dell’Università di Grenoble).  Ma il problema non è solo l’efficienza dell’algoritmo quanto il rischio che la polizia prenda di mira determinati quartieri (quelli abitati da minoranze etniche e immigrati) con una classica profilazione razziale.

In conclusione, ho cercato di dare proprio un modestissimo assaggio della grande quantità di argomenti e analisi che troverete nel libro che, come dicevo, è un’antologia divisa in sezioni: una prima di introduzione , una dedicata alla ricerca, un’altra all’intelligenza artificiale, poi all’analisi della pervasività delle nuove tecnologie e l’ultima che riguarda le strategie tecnopolitiche ispirate ai progetti sperimentati a Barcellona durante il 15M.  Non troverete soluzioni dirette o indicazioni precise come rimedio ma in compenso avrete ampie analisi che potrebbero indicare una strada. Certo, come ci ricorda Daniele Gambetta,  “elaborare piattaforme collaborative e non estrattive, creare strumenti di indagine e inchiesta che svelino i meccanismi, spesso proprietari e oscuri, degli algoritmi che determinano le nostre vite, far emergere contraddizioni utili nel rivendicare il proprio ruolo di sfruttati diffusi rimettendo al centro la questione del reddito, sono strade senz’altro percorribili”.

 

Datacrazia, a cura di Daniele Gambetta, D Editore, Roma, 2018, 364 pagine, € 15,90.

 

Non accettate taralli da blogger sconosciuti

tarallo aviglianese
tarallo aviglianese

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Avete mai rinnovato la patente?

patenteVi sarà capitato di rinnovare la patente ultimamente?  A me si e in un paese che sterza verso il digitale  ho avuto la netta sensazione di fare un bel balzo all’indietro.

Sono al terzo rinnovo e con quella “vecchia” la cosa si risolveva in pochi giorni: dopo versamenti, certificati e visita, ti arrivava a casa un piccolo traghettino autoadesivo rosa da appiccicare  sulla patente e finiva li. Adesso, invece, deve arrivarti la “nuova” patente direttamente a casa.

Dopo 3 versamenti su CC postale (macché volevate pagare col bancomat?), un certificato dall’ottico (perché porto gli occhiali), un certificato dal medico curante, una foto formato tessera (40 x33) e la visita medica presso l’ASP competente, ho atteso il recapito della nuova patente.  Il postino arriva un martedì mattina, dopo 5 giorni, e mi lascia un avviso perché  ovviamente lavoro e non sono a casa.

1° avviso di mancata consegna” è intitolato il biglietto, poco male, andrò a ritirarla io. Poi leggo meglio e non c’è scritto da nessuna parte che posso ritirare in posta la patente. E’ un avviso di Poste Italiane della tipologia “PostaPatente”  che mi invita a telefonare al Contact Center (e per semplificarmi la vita mi suggerisce anche la sequenza delle scelte: opzione 1, scelta 3).  Chiamo e chiedo dove posso ritirare la mia patente e il contact center mi dice che non è possibile che posso soltanto concordare con loro un giorno per la consegna. Ok va bene qualsiasi giorno, l’importante che mi diate un orario. Si, mi risponde, dalle 8 alle 18. Ma non posso mettermi in ferie per apettare il postino…. Allora, mi dice ancora il contact center, non devo far altro che aspettare che il postino faccia il secondo tentativo di recapito (cosa che avverrà nel giro di 10 giorni) e se non la trova le lascerà un nuovo avviso con il quale potrà recarsi direttamente in posta a ritirare la patente.

Va bene, farò così… del resto non ho scelta. L’iter è strano e non riesco a capire perché devo per forza aspettare un secondo tentativo ma tant’é.

Dopo 10 giorni esatti il postino suona nuovamente alla porta e questa volta ci sono io ad aprire.

– Oh finalmente mi consegna sta benedetta patente.

– Deve darmi 6 euro e  86 centesimi, dice lui.

– Ecco (e gli porgo 10 euri) .

– Non ho il resto.

– E io non ho 6 euro e  86 centesimi.

Allora, senza molti preamboli, mi lascia il 2° avviso  di mancata consegna, dicendomi che con quello potrò andare direttamente alle Poste a ritirarla.

Chissà per quale strano motivo il Ministero dell Infrastrutture e Trasporti abbia messo su, insieme a Poste Italiane, questo stranissimo meccanismo di consegna…. Se era solo per farmi pagare € 6,86 poteva chiedermeli prima facendomi effettuare il 4° versamento.

 

The best and worst times

fb-vitoDice Samantha Murphy  che, secondo i dati raccolti da bit.ly, per postare qualcosa che possa raggiungere il maggior numero di persone sui social network, bisogna rispettare i seguenti orari: tra le 13 e le 15 per Twitter e tra le 13 e le 16 per Facebook.
In ogni caso “mai postare prima delle 8 e dopo le 20“.

Esattamente l’opposto di quello che faccio normalmente io che pur ritenendomi un “vecchio” e “navigato” blogger, rimbalzo le selezioni dei feed reader rigorosamente prima delle 8 di mattina.

Voi che siete “giovani” tenetelo a mente, mentre io cercherò di adeguarmi… ma soprattutto: concentratevi sui contenuti!

 

Età

Da cosa ti accorgi della tua età?

Io di solito la noto a partire da alcuni particolari, per molti insignificanti, come usare i due indici per scrivere sullo smartphone o sul tablet.

🙂

Coming soon

Non sono VitoCola e questo non è un post.

Sono una newbie che vuole iniziare a postare e che ha chiesto di poter collaborare a questo blog; queste sono soltanto due righe di anticipazione della mia presenza su vitocola.it.

Come pensavo fosse naturale e normale avevo chiesto a Vito di presentarmi ma mi ha risposto “lapidariamente” fai tu, anzi mi ha detto “fai quello che vuoi”.

E allora eccomi qui. Non so ancora bene se sarò all’altezza del compito, e di qualsiasi compito mi assegnerò, ma “mi ci proverò”… prometto di impegnarmi.

Per il momento non ho argomenti specifici e probabilmente scriverò in modo confuso di tutto e di nulla e tale autorità mi è stata concessa dall’amministratore il quale mi ha “dato carta bianca”. 🙂

Vito mi ha consigliato di presentarmi ma io preferisco che lo facciano i miei post al mio posto (che brutta cacofonia) e dunque di me non c’è nulla da scrivere, non sarò io come persona l’argomento di interesse ma, spero lo diventino le mie idee, o almeno la loro trasposizione scritta.

Arrivo, arrivo… tra un po’ ci sarò, giusto il tempo di ambientarmi.

Ciao a presto.

Tonya

Come scrivere un post?

Perché c’è sempre qualcuno che ti dice come scrivere un post?

Ci pensavo mentre leggevo questo che ne elenca 20 di consigli e ho ricordato che nei blog ci si occupa della “questione” da tanti anni.

Se, per esempio, provate a fare questa richiesta a Google, riceverete una grandissima quantità di risultati (nel mio caso circa 157 mila in 0,28 secondi) con un’alta percentuale di pertinenza alla richiesta.

Troverete decaloghi (ma anche cose svelte in tre punti) e consigli che spaziano dalle pratiche ammiccanti alle tecniche stilistiche e di marketing che pretendono anche un rigore scientifico.

L’efficacia è il risultato atteso più pubblicizzato: ovviamente si consiglia di badare all’effetto che il post deve cercare. Anche se è lapalissiano (a cos’altro può badare chi scrive in pubblico?) è quello che consigliano tutti. Massì, la voglia d’esser visitati e di attirare navigatori verso le proprie pagine deve necessariamente essere nella natura stessa del blogger… anche al punto da trascurare i contenuti.  Si, non scandalizziamoci adesso, i contenuti nel web sono aerei, o li acchiappi al volo o niente, o sei sull’onda o sei sommerso: come diceva un vecchio “guru” poi mettere lì la tua più bella idea ma se non te la legge nessuno è ancora così bella?

E’ vero di cattivi consiglieri ce ne sono ma fa parte del gioco.

L’unica cosa antipatica in tutti questi maestri che spiegano ai “dummies” è la ferma certezza binaria: fai così perché accadrà questo e poi questo se vuoi quest’altro.

E’ un linguaggio binario (due stati, due numeri) che si è esteso al comportamento.

Anche i bar camp si sono trasformati da luoghi di discussione autorganizzanti a luoghi di veloce esposizione, dove devi scartare o accettare di primo acchito ciò che vuoi (forse) approfondire.

Tale comportamento non è ovviamente pensiero, non c’è un pensiero umano binario in questi termini, ma è struttura o sovrastruttura. Potrebbe essere l’esasperazione della semplicità, della ricerca delle risposte facili, più probabili, più possibili o più immaginabili. Anche l’esplorazione del web è divenuta banale in cambio di una ricerca efficace e veloce. Ci importa se il nostro motore di ricerca conosce già le nostre domande? Certo che no.

Allora, per ritornare alla domanda iniziale, voglio dare un consiglio anch’io dopo anni da blogger, più o meno effettivi, e voglio farlo in un solo punto, con una piccola domanda e una breve risposta.

Domanda: se sei solo su una barchetta in mezzo all’oceano e non hai nient’altro che le braccia per i remi e la mente per le decisioni che fai?

Consiglio: fai un po’ come cazzo di pare.

Scrivere e rileggere

Inizio di anno e impegni per il futuro: più che fare un report del cos’é stato vorrei tentare un’arrampicata sul cosa sarà il mio impegno futuro su questo blog, anche perché il dominio l’ho già rinnovato e quindi qualcosa dovrò pure inventarmi.

Scrivo da un bel po’ di anni ma sempre con il difetto dell’incostanza (tendo ad annoiarmi in assenza di nuovi stimoli) e i post su questo blog ne sono una testimonianza lampante.

Perché è un difetto l’incostanza? Perché se si vogliono raggiungere obiettivi sicuri bisogna perseverare in costanza di argomenti. Ad esempio tra i blogger che conosco hanno avuto un qualche successo quelli che tenacemente hanno seguito una linea dritta, ovvero: si sono specializzati in qualcosa (mettendo a frutto una qualsiasi esperienza o formazione pregressa) e ne hanno fatto il loro argomento (macro o micro a seconda della materia) principale. Ne hanno parlato in continuazione e dappertutto, alcuni al limite dello spamming, ma fondamentalmente con un numero abbastanza alto di post. Hanno saputo pazientare fino ad essere riconosciuti come “esperti di” (da chi, adesso non è importante).

Anche il non amare le correzioni è un difetto non da poco.  Io, per esempio, fino a qualche anno fa non sopportavo quasi nessun tipo di revisione, soprattutto quelle di sostanza; anzi pensavo che addirittura sottraessero valore ai contenuti. Ovviamente mi sbagliavo e ho imparato,  col tempo, ad accettare le correzioni, eppure continuo a non autocorreggermi.

Qualche tempo fa incontrai un mio vecchio amico che lavorava come curatore editoriale per una casa editrice.  In breve tempo, davanti a un caffé, mi raccontò il suo mestiere con esempi esplicativi che mi fornissero un’idea del significato di “correzione”.  Anche se il senso fu molto ampio, poiché abbracciava tutto lo scrivibile: dallo stile, all’ordine, al taglio, allo snellimento, alla riscrittura, capii quanto fosse essenziale non solo saper scrivere ma soprattutto sapersi rileggere accuratamente.  Allora, quasi per scherzo, gli chiedi di guardare il mio blog (che ovviamente non conosceva), per averne un giudizio esperto sulla mia scrittura. Mi rispose via e-mail qualche tempo dopo con una “sintetica e fredda valutazione”, che diceva, più o meno, così: ” i post sono ben scritti, non manca la fantasia e sono spesso conditi con un certo sense of  humor;  sintatticamente si tende alla ridondanza con un uso eccessivo di avverbi”.  Poi concludeva dicendo che non avrei dovuto preoccuparmi eccessivamente anche se sarebbe stato opportuno uno sforzo maggiore nella rilettura, ma che, in ogni caso, stavo ben al di sopra della maggior parte degli autori che lui correggeva.

Non so ancora bene quanto quel giudizio fosse positivo o negativo ma, come diceva Stephen King, “l’editor ha sempre ragione” e quindi mi son promesso di far tesoro di quei consigli nel prossimo futuro.

Siccome ogni tanto mi capita di interrogarmi sul “che fare” di questo mio spazio non posso far altro che riconfermare il senso del mio blog come un luogo dove continuo a scrivere, più o meno,  improvvisatamente (“a ruota libera”) e con poca correzione.  Manca un argomento portante che possa caratterizzarlo e farlo emergere in forma matura dal modello di diario personale.  Ecco, questo potrebbe essere un buon proposito per il 2012, ma forse anche per il 2013…  chissà.

 

 

 

[bloggo uno] Pellegrini e il suo blog

C’era un tempo in cui esistevano i blogroll, essì perché tra tutti quelli che si dimenavano nella scrittura di un diario in digitale non ci voleva molto a tenerli insieme in una lista. Oggi chi se lo sognerebbe?
Nell’indecisione se continuare a tenere aperto questo spazio (e questo dominio) mi chiedo cosa siano diventati oggi i blog.
Ma le domande potrebbero essere più di una (servono ancora? Hanno un senso e un ruolo?) e siccome risposte non ne ho cercherò di trovare ispirazione da qualche altra parte lasciando qui e la qualche appunto.
Nella mia esplorazione random trovo il blog di Federica Pellegrini dove la nuotatrice mondiale annuncia il divorzio dal suo allenatore con la pacifica constatazione che “non e’ semplice lavorare tranquillamente convivendo cn tutto il circo mediatico che mi gira attorno…“.

Che altro dire del suo blog? Beh, che l’italiano non vive nell’acqua.  🙂