533K di dati Facebook in pasto a chiunque

E’ molto probabile che il tuo account di Facebook sia stato violato.

Lo rivela Alon Gal su Twitter, annunciando che i dati di 533 milioni di utenti di Facebook, (telefono, facebook ID, nome e cognome, località, luoghi visitati, data di nascita, indirizzo e-mail, data di creazione dell’account, situazione sentimentale, ecc…) sono stati trafugati e ceduti “gratuitamente” su Telegram.

Facebook, come al solito, non chiarisce granchè ma sottolinea soltanto che si tratta di uno “scraping” risalente al 2019, facendo riferimento a un vecchio articolo apparso su CNET (anche se, per inciso, Wired, sostiene che Facebook si riferisca a un’altra storia), attraverso una funzione di importazione dei contatti che ora non più utilizzabile ma che faceva parte delle opportunità concesse agli utenti.
Come dire: è colpa vostra!

Si è vero. E’ colpa vostra.

Non per aver sottovalutato la funzione incriminata (per la quale non avete nessuna resonsabilità ma di chi ha permesso l’accesso a quelle informazioni non visibili) ma per avere un account sul social più merdoso del mondo che non protegge gli account e neanche li avvisa di eventuali vulnerabilità.

E’ quello che si chiede anche il Garante per la privacy italiano nell’istruttoria che interessa la violazione di 36 milioni gli utenti italiani (oltre il 90% degli utenti iscritti).

La criptomoneta di Facebook

La nuova moneta che un gruppo capitanato da Facebook si appresta a lanciare si chiamerà Libra ma le diffidenze stanno già crescendo giorno dopo giorno e negli USA ne chiedono già lo stop.

E’ progettata sulla blockchain ed è realizzata in partnership con Mastercard, Visa, Vodafone, Uber, eBay, Booking.com, Spotify, PayPal e altri, in un consorzio che al momento raggruppa 28 aziende del neo anarco-capitalismo americano.

Libra, secondo i supporters, non dovrebbe oscillare come i bitcoin poichè sarà agganciata a titoli e obbligazioni che ne dovrebbero ridurre la sua fluttuazione e per questo motivo molti la associano più ai JPM Coin di J.P. Morgan che ai bitcoin.
Il sistema dovrebbe avere una platea di utenti che supera i 5 miliardi di utenti di Facebook (Messenger), Instagram e WhatsApp, oltre a quelli di eBay, Spotify e Booking.com, ecc…. e che quindi, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe diventare la moneta esclusiva degli scambi in digitale.

L’idea non è proprio nuovissima, non solo per la presenza oggi dei bitcoin e altri valori di scambio similari, ma perchè, almeno in linea generale, a me ricorda tanto il tentativo che fece Second Life con la sua moneta, i Linden Dollar (lanciati nel 2006 – erano necessari 260 Linden Dollar per avere un dollaro), che doveva alimentare l’economia di quell’ecosistema globale. Me lo ricorda perchè l’idea di avere tra le mani tante persone chiuse in uno stesso recinto (allora era un metaverso) alla fine incrementa strani appetiti. Credo che lo stesso sia stato per WeChat in Cina (ma anche in questo caso il legame con la valuta resta iprescindibile).

Probabilmente quello che pensò di fare Linden Lab potrebbe riuscire meglio a Zuckeberg e Co. per via di una maggiore apertura e facilità d’uso della sua piattaforma, oltre che per la numerorità degli utenti.
Certamente è un passo in più verso quell’immaginario anarco-capitalista che dall’inizio degli anni ’90 rappresenta la meta ambita di questi nuovi imprenditori in digitale e che risponderebbe alle domande e alle speranze che quell’anarco-economista von Hayek chiama “libertà di scegliere la moneta più consona” (“Denationalisation of Money”, 1990).

L’ignavia nel web

Come nasce lo slogan “se è gratis allora il prodotto sei tu” lanciato da Time nel 2010?

Inizialmente dalla consapevolezza che se un’azienda regalava (quella che sembrava) la propria “merce/servizio” voleva dire, ovviamente, che il guadagno stava da un’altra parte.

All’inizio tutti abbiamo pensato che sorbirci la pubblicità, più o meno invadente, per usufruire di un servizio gratis, era il giusto prezzo o il male minore. Eravamo già abituati a quel modello imprenditoriale anni ‘90 proveniente dalle radio e TV private che affollavano i propri programmi di pubblicità e che su internet si traduceva in siti pieni zeppi di banner.  Poi un’idea un po’ più precisa ce la siamo fatta quando quella pubblicità è diventata sempre più precisa e sempre più in linea con i nostri desideri. Insomma un sospetto che quel social, quel motore, quel sito di e-commerce ci conoscesse almeno un pochino l’abbiamo avuta.  Un sospetto che si è fatto sempre più forte e preoccupante quando i siti hanno iniziato a farsi la lotta a colpi di spazio cloud di servizi on line gratuiti. Si è pure giocato sulla “minaccia del pagamento” per far accrescere i clienti. Vi ricordate le notizie che ciclicamente uscivano sul pagamento di WhatsApp (ma anche di Facebook)? Questa falsa notizia, spinta ad arte, ad ogni tornata raccoglieva qualche milione di utenti in più. Ma non solo, con il passaggio di piattaforma (dal pc allo smartphone) le aziende digitali si sono ritrovati fra le mani una miniera d’oro ricca di dati e senza alcun limite o restrizione. Una sorta di nuova corsa alla conquista del west. In un solo colpo si potevano raccogliere utenti distratti e poco preoccupati della privacy e una quantità di informazioni a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter accedere: la rubrica telefonica, la fotocamera, il microfono e tutti i contenuti presenti sull’apparato, anche quelli che apparentemente sembravano non servire a nulla.

fonte: http://www.juliusdesign.net/28700/lo-stato-degli-utenti-attivi-e-registrati-sui-social-media-in-italia-e-mondo-2015/?update2017

Dalla tabella qui sopra possiamo comprendere l’enormità di dati di cui stiamo parlando; ma se questo numero non vi sembra abbastanza grande, provate a prendere su Facebook, anche soltanto di un mese, le vostre foto, i vostri messaggi (anche quelli privati), le news che avete linkato, i post che avete fatto e i like che avete lasciato, poi moltiplicatelo per 2 miliardi e forse vi farete un’idea approssimativa della quantità di dati che il social immagazzina in un solo mese.  Pensate che solo questo semplice calcolo fa valutare 500 miliardi di dollari Facebook in borsa. Poi dovreste ancora moltiplicare per altri software installati sul PC e altrettante App, anche quelle che vi sembrano più innocenti, presenti sullo smartphone ma così, giusto per avere un ordine di grandezza e, vi assicuro, sarete ancora lontani.  Questa grandezza numerica forse ci fa comprendere le motivazioni di un’ignavia strisciante che gira intorno e dentro il web e che ha fatto da ammortizzatore anche a bombe come quella di Cambridge Analytica.

Io ero convinto che sarebbero esplosi definitivamente tutti i ragionamenti intorno alla privacy, all’informazione manipolata e tossica e al controllo degli utenti e che in qualche maniera Zuckerberg ne sarebbe uscito malconcio. Ma come dimenticare che nel lontano 2003, quindi in un periodo ancora pre-social-autorappresentativo, aveva avuto problemi simili in tema di violazione della privacy con quella sorta di beta di Facebook, ma non subì alcuna conseguenza, anzi da lì comprese definitivamente qual era la sua merce principale.

La vicenda di Cambridge Analytica non è diventata poco credibile perché intricata o distopica, è solo passata indolore tra le fila degli utenti del social,  per via della sua intersecazione al “normale” piano di condivisione e autorappresentazione a cui gli utenti dei social sono abituati e a cui non intendono rinunciare.

Gli utenti di Facebook non sono diminuiti quando si è scoperto che Cambridge Analytica (società vicina alla destra americana) aveva raccolto dati personali per creare profili psicologici degli utenti in modo da lanciare una campagna di marketing elettorale personalizzata a favore di Trump; anche quando si scoprì che la società aveva creato una gran quantità di account fake per diffondevano false notizie su Hillary Clinton; e nemmeno quando Facebook venne accusata di avere reso possibile e facile la raccolta di questi dati e di avere cercato di nascondere il tutto.

Possiamo sfuggire ingannando il sistema? Certo, si può fare ma partire da un account fake e non da quello reale perché se ne andrebbe a farsi benedire la “reputazione on line” e quindi il motivo stesso per il quale si è su quel social.

E comunque, anche se non aderiamo alla filosofia di massa del “non abbiamo nulla da nascondere” e facciamo attenzione alla nostra vita on-line, i social (o la loro somma) raccontano molto, anzi troppo, di noi.  Bastano anche solo i like per far parlare le nostre preferenze e i nostri gusti, se poi si mettono in relazione amici, pagine, gruppi, post e condivisioni di notizie, facciamo emergere un profilo molto più preciso, pronto per chi unirà i puntini.

Che i dati siano una merce preziosa non lo dicono i fanatici della privacy ma lo dimostrano i vari attacchi tesi alla “sottrazione dei dati” come quello che è accaduto a Yahoo qualche anno fa.

Insomma i nostri gusti, le nostre ricerche, i nostri acquisti, le nostre letture sono informazioni che consapevolmente produciamo e inconsapevolmente cediamo gratis ad altri che su questo creano profitto.

Ovviamente la questione non riguarda esclusivamente i social o altri faccende legate al web che meglio conosciamo ma anche a una serie di servizi che invece non conosciamo di meno legati ai sistemi di domotica e di geolocalizzazione che vanno dall’accesso remoto alla lavatrice, all’orologio che ci mostra i chilometri e le calorie consumate, alla foto del piatto scattato nel ristorante, alla connessione wi-fi fatta in stazione.

Stiamo parlando di un centinaio di zettabyte di dati di cui non conosciamo quasi nulla, tanto meno chi, come e perchè li sta trattando.  Ma tanto agli ignavi del web frega poco, l’importante è condividere l’ultima foto della pappa del bimbo.

La nostra sicurezza nelle chat

In una ricerca pubblicata qualche giorno fa, Amnesty International ha stilato una classifica di 11 aziende (Apple, Blackberry, Facebook, Google, Kakao Corporation, LINE, Microsoft, Snapchat, Telegram, Tencent e Viber Media), proprietarie di applicazioni di messaggistica istantanea, che hanno maggior rispetto per la privacy dei loro clienti.

<img class=”wp-image-4163 alignleft” src=”http://www this content.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/prism2-300×225.jpg” alt=”prism” width=”440″ height=”330″ srcset=”http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/prism2-300×225.jpg 300w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/prism2.jpg 700w” sizes=”(max-width: 440px) 100vw, 440px” />Peccato che sia in testa che in coda alla classifica ci siano gli stessi nomi che dal 2007 al 2013 erano presenti nel famoso caso PRISM.  Amnesty International non ignorava la cosa e ha chiarito di essersi interessata alle aziende “commerciali” con le applicazioni più diffuse. Ecco perché, per esempio, non c’è Signal che appartiene a un gruppo non-profit.

In sostanza Amnesty classifica quelle aziende con più attinenza e rispetto della propria policy in modo da consigliarci un male minore.

I criteri indagati sono stati 5 (1-riconoscere le minacce online alla libertà di espressione e diritto alla privacy come i rischi per i suoi utenti attraverso le sue politiche e le procedure; 2- applica la crittografia “end-to-end” di default; 3-sensibilizza gli utilizzatori sulle minacce alla loro privacy e alla libertà di espressione; 4-rivela i dettagli del richieste del governo per i dati utente; 5-pubblica i dati tecnici del suo sistema della crittografia) ma nessuna analisi tecnica è stata condotta sulla sicurezza globale del servizio di messaggistica.

Precisiamo che neanche con la crittografia “end-to-end”  si è al riparo dagli spioni, poiché sarebbe sempre possibile entrare in possesso delle chiavi crittografiche private con un po’ di “social engineering”, ad esempio, fingendosi uno dei destinatari, oppure assicurandosi il controllo di un nodo della connessione, o anche semplicemente accedendo ai dati di backup del cloud, ecc…., più o meno quello che la NSA faceva con x-keyscore.

Dunque, forse, sarebbe stato più utile considerare “se, dove e come” queste aziende conservano i dati dei clienti.

overall-ranking

Per farla breve ne viene fuori che WhatsApp (il più utilizzato sia per numero di ore che per frequenza di utilizzo e che usa lo stesso protocollo di Signal) è la chat più sicura di tutte, superando anche la concorrente Telegram che, invece, dal 2015  ha messo in palio 300mila dollari per chiunque riesce a superare il proprio sistema di sicurezza.

Ultima cosa importante del documento di Amnesty è che solo la metà delle aziende intervistate, rende pubblico un report sulla quantità di dati degli utenti che viene dato ai governi in seguito a esplicite richieste.

Ma allora, qual è l’app di messaggistica più sicura?

 

ALLO di Google neanche a parlarne. A parte la crittografia traballante c’è quel forte interesse (comune a tutte le aziende) a far soldi con i dati degli utenti che qui viene affinata ancor di più attraverso la “machine learning”. Si tratta di un servizio di profilazione avanzato degli utenti con il quale Google capisce sia il testo che le immagini contenute nei messaggi. In tal modo l’app riesce sia a suggerire frasi automatiche in risposta a delle immagini inviate che consigliare dei risultati di ricerca con una geolocalizzazione rapida su Maps in funzione del contenuto del testo digitato.  Dunque tutto il contrario della privacy dell’utente.

WhatsApp è la più popolare in assoluto, supera il miliardo di utenti e, come dice Amnesty, usa una crittografia end-to-end.  Il problema serio è rappresentato dalla raccolta di dati e metadati (la lista dei contatti, numeri di telefono e a chi si scrive) che Facebook può utilizzare per i propri fini e anche consegnarli alle autorità qualora venissero richiesti. Se poi si sceglie di salvare i contenuti delle conversazioni su cloud si completa il quadro del rischio per l’utente.

Telegram usa il protocollo MTProto definito, però, “traballante” da Thaddeus Grugq. A suo demerito va detto che salva tutti i dati sui propri server in chiaro e a suo merito i “bot” e le api libere per poterli creare, ma sopratutto i “canali” con i quali è possibile comunicare istantaneamente con un grandissimo numero di utenti.

Il migliore è sicuramente Signal e non perchè  l’abbia detto Snowden un anno fa, piuttosto per la sua filosofia di base che lo rende più sicuro.  signalIntanto è un sistema aperto e questo già basta a garantire sulla sicurezza da solo. Anche se può sembrare un ossimoro, in realtà  quando i codici sorgenti sono aperti, chiunque può migliorarli creando patch e sviluppi alternativi attraverso collaborazioni diffuse e riutilizzo del codice.

Inoltre Signal non raccoglie dati e metadati degli utenti da nessuna parte, ma annota soltanto i tempi di connessione. Anche quando chiede di condividere i contatti (in modo da trovare chi usa la stessa app) tutta l’operazione viene subito cancellata dai server.  Non essendo presente la funzione di backup della chat, nel caso si cambiasse smartphone, si dovrà spostare tutto a mano.

E’ stata creata da Open Whispers System, una società no profit che si finanzia solo con le donazioni volontarie. L’unico neo di questa app è quella di essere poco diffusa (sembra che sia stata scaricata da poco più di 1 milione di utenti contro il miliardo di utenti dichiarato da WhatsApp) e probabilmente resterà tale proprio a causa della sua filosofia sulla sicurezza che la rende poco user friendly.

Chef – il socialnetwork imperfetto

Ho visto il film  Chef – La ricetta perfetta  e mi verrebbe da dire, di primo acchito, lasciate perdere perché paghereste per intero il biglietto per un film che regge solo il primo quarto d’ora.

E’ la classica  “commedia americana” (con tutto quello che si può indicare negativamente con questo concetto) completamente scontata dall’inizio alla fine e intrisa di tanta banalità  che neanche i fratelli Vanzina sarebbero riusciti a mettere insieme.

L’unica cosa che mi ha fatto rimanere seduto è stato lo show, ovviamente banalizzato, di social network.  Non ho capito bene se Jon Favreau (regista e attore principale) volesse parlare di cucina o invece di Twitter, Vine,  YouTube, Facebook e iPhone….  il risultato è stato comunque un polpettone (o una ciambotta se volete)  i cui ingredienti, se dosati meglio come fa un vero chef, avrebbero reso la storia migliore e più appetitosa.

Foursquare è una smart per la city

Possibile che Foursquare sia ancora inesplorato? Forse si e Natalia D’angelis riflette su un rapporto possibile tra Fourquare e la Pubblica Amministrazione; ovvero sul fatto che la PA può aprirsi meglio al cittadino offrendo una comunicazione più efficace.
Per esempio, dice Natalia, un Comune attraverso una Brand Page su Foursquare può promuovere meglio il turismo locale attraverso coloro che quella città conoscono, scoprono e raccontano ad altri.
Si può raccontare la storia e la cultura di un luogo attraverso peculiarità personali, foto, itinerari, eventi;  oppure si possono suggerire cose da fare o da vedere creando liste di luoghi o locali organizzandoli per genere o per argomento. In questo modo si realizzerebbero delle vere e proprie guide digitali per smartphone, senza alcuna necessità di studiare apposite app e poi diffonderle (Foursquare è un social network con qualche milione di utenti).
Per rendersene conto basta dare uno sguardo al social e se volete trovare qualche vostro amico potrete sempre usare Facebook; anzi giacché ci siete potete  unirvi al gruppo di lucani su Facebook che usano Fourquare:  https://www.facebook.com/groups/foursquare.basilicata/.

🙂

Gambizzami una photo

[Joshua Held]

[Joshua Held]

Il disegno di Held qui a fianco è una sintesi constatativa, che solo i disegnatori sanno fare, del senso o dell’uso della foto condivisa. Ovviamente scattata con lo smartphone, ché tanto già sta in mano e mentre controllo l’ora, la posta, il calendario, leggo un messaggio e faccio qualche giochino, ne approfitto anche per segnalare la mia presenza in un bel posto e, per evitare di non rendere bene l’idea, condivido subito la foto “istantanea” sulla mia bacheca di Facebook.  Certo, spesso, se mi fotografo le gambe o le unghie dei piedi può anche voler dire che mi sto annoiando o non so cos’altro fare; resta comunque il senso di dare (condividere) l’immagine, l’idea figurata, del proprio stato.
Lo diceva Carlo Foggia su La Stampa un po’ di giorni fa che il futuro delle foto è nella condivisione.
Il problema, o nodo del dibattito, resta sempre quello tra macchine fotografiche, fotocamere e smartphone ed appartiene alle “storiche” controversie legate all’innovazione tecnologica, o al protendersi verso il futuro. Oggetto di questi dibattiti sono stati molti strumenti o attrezzi dei quali, adesso, non penseremmo neanche lontanamente di liberarcene.
Qui la questione è modernissima e risale a pochi anni fa a partire dai primi telefonini con fotocamera (io nel 2004 avevo un Ericsson T610, ma ho letto che il primo è stato un Sanyo del 2002) per finire a smartphone come l’ultimo Nokia (Lumia 1020) con 41 megapixel.
Certo non fanno tutto i megapixel, ma il problema non riguarda la tecnica, per quelle ci sono le classiche Reflex o le EVIL, quanto un uso più diffuso e più intensivo delle immagini che hanno fatto crollare il mercato delle compatte digitali in favore degli smartphone.
La necessità è quella di scattare e pubblicare la foto immediatamente su Facebook, per esempio, a volte utilizzando simpatici “effetti” o veloci filtraggi come quelli di Instagram (con 130 milioni di utenti attivi al mese nel mondo, 45 milioni di foto pubblicate al giorno, circa 8.500 like e 1.000 commenti al secondo); tant’è che Samsung da un po’ cerca di creare un nuovo mercato di compatte con wi-fi intregrato.  Non credo, però, che questa sia la strada giusta per aumentare il mercato dell’immagine digitale o meglio, penso che questa strada non esista neanche e che, al momento, l’unica idea “futuristica” resti quella dei Google Glass . Sarà l’idea dello sviluppo protesico a funzionare, più di qualsiasi forma di “additivazione”. Ma se anche per gli smartphone <a href="http://blog project task management software.vodafone.co.uk/2013/06/12/vodafone-unveils-the-future-of-festival-season-tech-charge-your-phone-while-you-sleep/” target=”_blank”>si può parlare di protesi, allora lo smartphone di Nokia è quello che guarda più argutamente al futuro.

FaceBUG risponderà al Garante?

fbugA giugno un bug nel sistema di Facebook ha diffuso, a destra e a manca (anche a chi non era iscritto al social network), una serie di informazioni personali di circa 6  milioni di utenti.
Il Garante della Privacy aveva chiesto a Facebook  di conoscere il numero esatto degli utenti italiani colpiti dal bug; se e come il loro diritto di opposizione al trattamento dei dati è stato garantito; quanto tempo è durata l’esposizione di dati e quali rimedi tecnici sono stati adottati.
La scadenza intimata dal Garante è il 20 luglio, ma Facebook risponderà?

The best and worst times

fb-vitoDice Samantha Murphy  che, secondo i dati raccolti da bit.ly, per postare qualcosa che possa raggiungere il maggior numero di persone sui social network, bisogna rispettare i seguenti orari: tra le 13 e le 15 per Twitter e tra le 13 e le 16 per Facebook.
In ogni caso “mai postare prima delle 8 e dopo le 20“.

Esattamente l’opposto di quello che faccio normalmente io che pur ritenendomi un “vecchio” e “navigato” blogger, rimbalzo le selezioni dei feed reader rigorosamente prima delle 8 di mattina.

Voi che siete “giovani” tenetelo a mente, mentre io cercherò di adeguarmi… ma soprattutto: concentratevi sui contenuti!

 

La storia degli auguri di compleanno su Facebook

<img class=" wp-image-2630 alignleft" alt="compleanno-facebook" src="http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook.jpg" width="378" height="189" srcset="http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook.jpg 630w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-300×150.jpg 300w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-100×50.jpg 100w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-280×140 best task management software.jpg 280w” sizes=”(max-width: 378px) 100vw, 378px” />Gli auguri di compleanno su FB sono una cosa simpatica. In primo luogo perché non c’è bisogno di uno sforzo mnemonico per ricordarsi di farli all’amico/a e poi perché raggiungi anche persone a cui non avresti potuto farglieli diversamente.

La questione interessante, invece, è quella che riguarda i ringraziamenti perché sembra che Facebook abbia indotto a una sorta di massimizzazione di tale feedback.

Ho notato che la maggior parte delle persone si regola in questo modo: se gli auguri sono pochi, allora scrivono un grazie di risposta a ciascuno nei commenti (molti li personalizzano inserendoci anche il nome dell’auguratore/trice ), se invece sono tanti ecco comparire nella propria bacheca un generale e accorato ringraziamento, del tipo “siete veramente tanti e vi ringrazio tutti“, e cose del genere…

Siccome è capitato anche a me di ricevere un bel po’ di auguri mi sono impegnato a rispondere a tutti con un “grazie, un sorriso e un mi piace” sotto ogni commento (anche se probabilmente qualcuno l’ho saltato ma solo perché quel giorno non avevo un pc a disposizione ma soltanto telefono e tablet e purtroppo le app, per queste cose, sono un po’ limitate).

Ho deciso di farlo perché ho dovuto rispondere alla seguente domanda: «se qualcuno mi augura buon compleanno incontrandomi per strada, telefonandomi, inviandomi un sms o una mail, io che faccio?»

possibili risposte:

1) non rispondo a nessuno e a fine giornata vado in piazza e mi metto a gridare con un megafono “siete veramente tanti e vi ringrazio tutti”? Ma questo presuppone che chiunque mi abbia fatto gli auguri passi da quella piazza in quel momento; ma anche se decidessi di girare tutta la città con le trombe montate sull’auto, non tutti potrebbero abitare in città e io probabilmente non riuscirei a percorrere tutte le strade.

2) Faccio stampare dei volantini e li distribuisco oppure un manifesto 3×6 col quale ringrazio tutti? Idem come per la 1, e poi c’è pure chi i manifesti non li nota nemmeno.

3) Semplicemente rispondo subito “grazie” a ognuno. Più economico e statisticamente più efficace, anche se ne salto qualcuno avrò comunque raggiunto la stragrande maggioranza degli auguratori e delle auguratrici.

Dunque ho scelto la terza opzione, certo la fatica c’è: bisogna controllare spesso chi te li fa, ma con l’avviso sullo smartphone, minimizzi il lavoro e non massimizzi il feedback.

(me) too blog

Qualche tempo fa,  forse un po’ incazzato per qualcosa,  scrivevo di blog, o meglio accennavo qualcosa sui blog personali e ricordo di aver letto nello stesso periodo riflessioni simili come questa e altre ancora.

Ma ne è passato di tempo, perché parlarne adesso ?

Perché è un momento “buono” per riflettere, come Wittgenstein tra le bombe e le pallottole.  Di quale bombe o pallottole parlo ? Ma di Facebook e di qualcuno che, senza girarci tanto intorno,  mi ha chiesto il motivo per cui io continui a scrivere, aggiornare e riflettere attraverso un weblog.

Potrei rispondere con semplicità che sono fatti miei, ma non è educato e poi non è neanche  vero.  Io non ci credo a quelli che s’inventano fantasie solitarie, del tipo: “scrivo per me stesso e se qualcuno mi legge peggio per lui/lei”.  Che senso avrebbe avere uno strumento condiviso e aperto nella rete se non si vuol essere letti o addirittura trovati ? (ho sempre pensato che tutti quelli che “tenevano un diario” intimamente speravano che qualcuno, prima o poi, glielo leggesse).  Beh, che vi piaccia o no, il blog è un’esposizione di noi stessi, del nostro pensiero, di quello che siamo o che vorremmo far credere di essere.  Ed è proprio a causa di questa esposizione che spesso i blog vacillano e arrancano. Non ho numeri statistici (non li ho neanche ricercati) ma ho visto blog fermi da un anno con i loro curatori che si sfrenano in Facebook a parte, forse, 140 caratteri in twitter e qualche link e qualche foto sparsa o replicata tra FriendFeed e Tumblr. Insomma se una buona parte di blog “va a puttane” grazie a social network “sovra-super-esposizionali” allora questi blogger non erano proprio una “categoria”.  Anche quando si comportavano come una categoria, rivendicando questo e quello, correndo dietro alle stesse cose, facendo risse iperboliche e polemiche approssimative, non erano una classe. Forse l’unica cosa che li accomunava (e continua ancora a tenerne insieme un po’) era il principio del gioco attraverso la misurazione.  Ecco dove i blogger fanno categoria, nel misurarselo (ce l’ho più lungo). Per tutto il resto sono persone con tanta voglia di scrivere e di raccontare e (a parte quelli che lo facevano e continuano a farlo perchè scrivere o vendere è il loro mestiere) per i quali un weblog è un luogo adatto per farsi trovare e per tentare timide o sfacciate presentazioni.

Ora c’è Facebook. Si potrebbe non aver bisogno di tutto questo.  Si scrive ugualmente un post ma con una forza in più perchè puoi taggare direttamente tra i tuoi contatti e, in qualche modo, obbligarli a venirti a leggere. Metti le immagini che vuoi, linki e condividi link di ogni tipo e ricevi anche il “mi piace”. Parli e discuti anche con quelli che il blog non l’hanno mai conosciuto. Puoi creare gruppi e riunire persone che amano parlare anche del “sesso degli angeli” e se vuoi crei anche un evento associato. Ricevi la posta e anche gli aggiornamenti sulle pagine che ti interessano. Giochi e inviti i tuoi amici a giocare con te.

Insomma che c’è di meglio di Facebook ?

Perchè non chiudo questo blog per il quale devo anche spendere non poco tempo ad aggiornare versioni e plugin, modificare temi e inserire widget ?

Perchè il blog è casa mia e Facebook è la strada, la piazza affollata su cui si affacciano anche le finestre del mio blog. E voglio tenerli insieme, uniti e separati. Perchè in piazza incontro tutti: vicini, conoscenti, amici con i quali posso parlare della partita della domenica e di donne ma anche di politica e filosofia; ma a casa vengono soltanto gli amici quelli che fanno le scale a piedi e vengono a suonarti alla porta soltanto per il piacere di stare con te e per trascorrere una serata di chiacchiere d’avanti a un bicchiere di vino.

Ecco perchè, perchè il blog è casa mia.