Marielle presente!

Marielle Franco aveva 39 anni ed era una militante del Partito Socialismo e Libertà brasiliano (PSOL). E’ stata assassinata mercoledì scorso, con una raffica di proiettili che hanno colpito lei e il suo autista, mentre tornava a casa in auto.

E’ stato un assassinio politico in piena regola e neanche nascosto, dal momento che l’analisi dei proiettili utilizzati ha chiarito che si trattasse di “calibro 9 facenti parte di un lotto acquistato dalla polizia federale di Brasilia il 29 dicembre del 2006”.

Non c’era necessità di nasconder nulla perchè il movente doveva essere chiaro e fungere da avvertimento per chiunque avesse intenzione di opporsi al “sistema straordinario di sicurezza pubblica” che le forze di polizia e i militari hanno impiantato nello stato di Rio de Janeiro.

Lo spettro della dittatura era e resta il pericolo maggiore e Marielle, che lo sapeva bene,  non smetteva di denunciare continuamente i soprusi e gli abusi delle forze dell’ordine, come quell’ultimo tweet dopo il brutale assassinio di Matheus Melo a Rio de Janeiro.

Una grande folla ha riempito le piazze delle maggiori città brasiliane, per manifestare contro la polizia e per testimoniare la vicinanza, la solidarietà e il dolore per la perdita di una donna che proveniva dalle favelas nere di Rio e lottava denunciando l’assurda condizione di privazione dei più elementari diritti sociali e umani nelle aree povere e depresse del paese.

Marielle Franco era nera, lesbica e si era imposta in una politica fatta da maschi, bianchi e ricchi e per questo veniva continuamente derisa o stigmatizzata dalla stampa brasiliana.

“Marielle presente”, hanno gridato tutte le donne che seguivano il suo funerale; una presenza che non può che segnificare continuità nella lotta per i diritti degli ultimi, delle donne e di chi non corrisponde alla cultura bianca machista dominante.

Questa esecuzione è il segno che il neoliberismo ha scoperto completamente il suo volto e si sta imponendo anche violentemente sugli strati della popolazione più irriverente.

SGOMBERATO IL CSOA ANZACRESA DI POTENZA

Mercoledì 13 dicembre 2017, dopo 15 mesi d’occupazione, il Csoa Anzacresa di Potenza è stato sgomberato.

L’atto, mascherato da un movente legalitario, è un chiaro gesto volto a reprimere ogni tipo di dissenso. C’è una volontà da parte delle istituzioni, inquadrabile nel più ampio contesto nazionale, di eliminare ogni critica politica e movimento che, dal basso, senza compromessi, porti avanti un percorso di riappropriazione di spazi e vite attraverso l’autogestione.
La stessa amministrazione comunale potentina, dopo aver constatato la solidità strutturale del palazzetto, ha espressamente ammesso di non avere fondi o progetti che possano rendere fruibile l’Ex Coni, che quindi tornerà inevitabilmente ad uno stato di degrado e abbandono.

La città sarà intanto privata di tutte le iniziative e le attività che gratuitamente si tenevano ogni giorno nel Centro Sociale e che, interrotte bruscamente, lasceranno in molte/i l’amaro in bocca e la consapevolezza di dover lottare. Ciò che spinse alla nascita del Csoa Anzacresa era la voglia di cambiamento, la necessità di uno spazio libero da logiche economiche e di potere, la rabbia di fronte alla vita precaria che ci viene imposta.
Privando la città dell’Anzacresa, le istituzioni non spegneranno la voglia di vivere i rapporti sociali in maniera differente e libertaria.
La lotta continuerà con maggiore determinazione e accresciuta consapevolezza.
Non ci fermeremo e non ci faremo intimidire da tutte le strategie repressive messe in atto contro chiunque viva di cambiamento.
Consapevoli delle difficoltà che ci aspettano e forti del percorso fatto guardiamo ad un presente fatto di lotta e dissenso.
LE CITTÀ RESTANO A CHI LE AMA!

IL COLLETTIVO ANZACRESA RESISTE!

Potere al Popolo! anche in Basilicata (proposta di programma)

Sabato 18 novembre a Roma, per un’assemblea nazionale convocata dai compagni dell’Ex OPG “Je so’ pazz” di Napoli, c’erano più di mille persone: studenti, disoccupati, giovani, lavoratori, movimenti di lotta per i diritti sociali, per la tutela dei territori, contro le discriminazioni di ogni genere, forze politiche e reti sociali contro questa Europa dei trattati e dell’austerita’.
E’ stato lanciato un messaggio forte che sta attraversando tutta l’Italia: solo noi possiamo riprenderci il posto che ci spetta nell’agenda politica di questo paese!

Anche in Basilicata (da sempre terra di sfruttamento e di conquista neocolonialista da parte delle multinazionali del petrolio e dell’energia; sottomessa al principio dell’accettazione del male minore, per mano dei suoi amministratori, da decenni di pratiche di asservimento clientelare e di povertà strutturale in funzione della conservazione del potere, spopolata, svuotata delle sue forze migliori partite in cerca di lavoro)  ci si organizza in soggetto politico affinche’ sia il popolo a riprendere il potere di decidere del proprio futuro.

Per questo si è scelto di percorrere la strada insieme ai tanti che da tutta Italia si sono uniti all’appello lanciato dai compagni dell’Ex OPG “Je so’ pazz” di Napoli.

Chiamiamo a raccolta, in un’assemblea pubblica, le persone, i movimenti e le forze politiche di sinistra che trovano nell’anticapitalismo e nell’antifascismo l’orizzonte ove agire per costruire il cambiamento.

Agiamo, quindi  per tornare, noi tutti (lavoratori sfruttati, precari, disoccupati, studenti-giovani depredati di un futuro, pensionati al minimo, immigrati, senza casa) ad essere popolo e in quanto tali, soggetto politico organizzato, protagonista nelle lotte di rivendicazione contro il sistema capitalista dei nostri bisogni.
Un percorso per costruire insieme conoscenze e competenze antagoniste all’immaginario capitalista, per immaginare insieme che un altro futuro è possibile: è possibile pensare a un economia senza l’incubo della crescita, del PIL e dell’incremento di produzioni e merci, che servono solo a innescare povertà, ingiustizie, guerre, totalitarismi, inquinamento e distruzione degli ecosistemi e predazione dei beni comuni.
Possiamo insieme elaborare pensiero nuovo e azioni radicali per rilocalizzare l’economia e la ricchezza; per ricostruire il senso di comunità e praticare democrazia partecipata; per riappropriarci del nostro diritto di autodeterminazione e di gestione dei beni comuni.

Giovedì 7 dicembre alle ore 18.00 presso la sala Mediafor in via Roma a Potenza si terrà un primo incontro aperto per decidere i prossimi passi e per discutere il programma con il quale vogliamo, dobbiamo e possiamo cambiare il nostro Paese, ma soprattutto per unire tutte quelle realtà che lottano sul nostro territorio

Vediamoci, discutiamo, autorganizziamoci: mettiamoci in cammino.

È un sogno che unisce le lotte.

Ecco alcuni spunti di riflessione, nati nell’assemblea del 18 novembre a Roma, sui quali dobbiamo discutere.

1. COSTITUZIONE

Vogliamo l’uguaglianza, vogliamo salari dignitosi, il rispetto di chi lavora. Perché su chi lavora è fondata la Repubblica. Chiediamo troppo? Chiediamo solo quello che già è scritto nella nostra Costituzione, nata dalla spinta dalla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e da un grande protagonismo delle masse.
Il Referendum del 4 dicembre ha mostrato la chiara volontà del popolo italiano di difendere la carta costituzionale, noi crediamo che sia finalmente giunto il momento di metterla in pratica fino in fondo. Vogliamo dunque la piena attuazione della Costituzione nata dalla Resistenza, e in particolare dei suoi aspetti più progressisti. Questo significa prima di tutto:
– ridare centralità e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori;
– far sì che ogni discriminazione di sesso, razza, lingua, religione, orientamento sessuale venga superata;
– rimuovere ogni ostacolo di carattere economico e sociale che limita l’uguaglianza e inibisce il pieno sviluppo della persona umana;
– promuovere e supportare la cultura e la ricerca scientifica, salvaguardare il patrimonio ambientale e artistico;
– ripudiare la guerra e dare un taglio drastico alla spesa militare (ovvero: la rottura del vincolo di subalternità che ci lega alla NATO e la rescissione di tutti i trattati militari; l’adesione e sostegno dell’Italia al programma di messa al bando delle armi nucleari in tutto il mondo; il ritiro delle missioni militari all’estero; la cancellazione del programma F35, del MUOS, degli altri programmi e basi di guerra);
– rimuovere il vincolo del pareggio di bilancio, inserito di recente, che sacrifica le vite e la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori in nome dell’equilibrio fiscale e del rispetto dei parametri europei;
– ripristinare l’equilibrio istituzionale, ridando centralità ad un Parlamento eletto con un sistema proporzionale.

2. UNIONE EUROPEA

Negli ultimi 25 anni e oltre, l’Unione Europea è diventata sempre più protagonista delle nostre vite. Da Maastricht a Schengen, dal processo di Bologna al trattato di Lisbona, fino al Fiscal Compact, le peggiori politiche antipopolari vengono giustificate in nome del rispetto dei trattati. I ricchi, i padroni delle grandi multinazionali, delle grandi industrie, delle banche, le classi dominanti del continente approfittano di questo ”nuovo” strumento di governo che, unito al “vecchio” stato nazionale, impoverisce e opprime sempre di più chi lavora. Sempre di più la gente comune sente il peso di decisioni che sono prese altrove, lontano, e che non rispecchiano ciò che il popolo vuole.
L’Ue ha agito come uno strumento delle classi dominanti, delle banche, della finanza: un dispositivo che ha “protetto” dalla democrazia quelle riforme strutturali (da quelle costituzionali e a quelle del lavoro) non a caso definite impopolari. L’ Unione europea dei trattati è lo strumento di una rivoluzione passiva che ha reso funzionale “il sogno europeo” agli interessi di pochi. Noi vogliamo ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo:
Per questo:
– vogliamo rompere l’Unione Europea dei trattati;
– rifiutiamo le storture governiste impresse al nostro sistema politico, lo svuotamento di potere del Parlamento e il rafforzamento degli esecutivi;
– vogliamo che le classi popolari siano chiamate ad esprimersi su tutte le decisioni prese sulle loro teste a qualunque livello – comunale, regionale, statale, europeo – pregresse o future.

3. LAVORO E REDDITO

Costituzionalmente è riconosciuto il diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto.
La realtà del lavoro in Italia è sempre più sbilanciata: c’è chi sia ammazza di fatica per 12 ore al giorno e non riesce ad andare in pensione e chi non riesce a trovare un impiego, noi vogliamo lavorare meno, ma lavorare tutte e tutti. Gli unici lavori che si riescono a trovare sono iper-sfruttati e sottopagati (o addirittura gratuito, nelle forme degli stage, dei tirocini, dell’alternanza scuola/lavoro, etc.); migliaia di persone ogni anno sono costrette ad emigrare per lavoro (nessuno ne parla ma sono più di coloro che arrivano nel nostro Paese); più di tre persone al giorno muoiono di lavoro e le norme a tutela della sicurezza dei lavoratori sono sempre più deregolamentate, così come le misure di prevenzione di infortuni e malattie professionali. La tenuta del nostro sistema pensionistico è a rischio a causa del fatto che nel mercato del lavoro si entra – forse – tardi, un eventuale reinserimento in età avanzata è ancor più difficile, e si esce chissà quando; ad essere garantite sono solo le pensioni dei dirigenti, pagate con i soldi dei lavoratori dipendenti.
Per questi motivi vogliamo:
– la cancellazione del Jobs Act, della legge Fornero, della legge Biagi, del pacchetto Treu e di tutte le altre leggi che negano il diritto ad un lavoro stabile e sicuro;
– il ripristino del testo originario dell’art. 18;
– la cancellazione di tutte le forme di lavoro diverse dal contratto a tempo indeterminato;
– misure che garantiscano incisivamente la sicurezza sul lavoro;
– serie politiche di contrasto alla disoccupazione;
– una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro che garantisca a tutte e tutti il diritto di scegliere liberamente la propria rappresentanza sindacale, tutti elettori e tutti eleggibili senza il vincolo della sottoscrizione degli accordi;
– che venga anticipata l’età pensionabile;
– la fine delle discriminazioni di genere e della disparità salariale.
– la battaglia per il diritto al lavoro e per la riduzione di orario viaggia insieme alla necessità di riconoscere il diritto a una esistenza degna a tutte e tutti. Non si tratta solo di contrastare una povertà sempre più odiosamente diffusa, ma di superare il welfare assistenzialistico e familistico e riconoscere a tutte e a tutti il diritto a un reddito minimo garantito.

4. ECONOMIA, FINANZA, REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA

Partiamo, come detto all’inizio, dalla Costituzione e dalla rimozione degli ostacoli all’uguaglianza. Questo punto è incompatibile con le scelte scellerate in materia di economia e finanza fatte dai governi di qualunque colore negli ultimi trent’anni. Ribadiamo la necessità di cancellare l’obbligo del pareggio di bilancio inserito in Costituzione e la volontà di disobbedire al Fiscal Compact. Crediamo inoltre che sia urgente trasferire ricchezza dalle rendite e dai capitali al lavoro e ai salari, ricostruire il controllo pubblico democratico sul mercato organizzando un piano che elimini la disoccupazione di massa e la precarietà e cancelli la povertà. Per mettere in atto questo piano immaginiamo alcuni passaggi fondamentali:
– un’imposta patrimoniale;
– un sistema di tassazione semplice e fortemente progressivo;
– una lotta seria alla grande evasione fiscale;
– il recupero dei capitali e delle rendite nascoste;
– la fine delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni (in particolare degli appalti per servizi permanenti): vogliamo che i beni e i servizi pubblici rimangano tali e non vengano svenduti;
– politiche industriali attive e controllo su delocalizzazioni e investimenti (in particolare delle multinazionali, quindi è necessario anche abolire Il trattato con il Canada e cancellare definitivamente Il TTIP);
– la nazionalizzazione della Banca d’Italia, delle banche e delle industrie strategiche, il ripristino della separazione tra banche di risparmio e di affari;
– un piano per il lavoro con forti investimenti pubblici nel risanamento del territorio, nei beni culturali, nella formazione, nella ricerca e nella innovazione, nello sviluppo dei servizi e dello stato sociale.

5. LOTTA ALLA POVERTÀ E ALL’ESCLUSIONE SOCIALE

Un paese sempre più preda della crisi, impoverito e incattivito, vede crescere l’emarginazione sociale. Superando le logiche assistenziali, la lotta alla povertà e all’esclusione è un punto importante del nostro discorso politico. Vogliamo:
– città e territori realmente aperti a tutti, senza zone ghetto, senza periferie immiserite e preda della criminalità organizzata accanto a “centri storici-vetrina” dai quali gli esclusi vengono cacciati con un DASPO;
– una seria politica per gli alloggi popolari mettendo innanzitutto a valore il patrimonio immobiliare esistente;
– il rispetto delle garanzie e tutele costituzionali – casa, salute, istruzione, etc. – per tutte e tutti, in particolare per chi è in condizioni di miseria e disagio socio-economico.
– un piano di inclusione da realizzare per tutti gli espulsi dalla crisi economica, il cui destino non può essere quello della marginalità e della ghettizzazione.

6. WELFARE: SALUTE, ISTRUZIONE, ASSISTENZA, INCLUSIONE

La lotta alla povertà e all’esclusione, il superamento di qualsiasi diseguaglianza sociale, passano per la tutela del diritto all’istruzione, alla salute, per il potenziamento di qualsiasi forma di assistenza sociale, attraverso un incisivo ripristino del Welfare State. La sanità pubblica è allo sfascio, preda di sciacalli privati che hanno solo sete di profitto; i livelli assistenziali sono in caduta libera, frutto di politiche di tagli trasversali e indiscriminati, la partecipazione diretta alla spesa cresce sempre di più, come la lunghezza delle liste d’attesa, con una conseguente diseguaglianza di accesso ai servizi, in particolare nelle zone depresse come il Sud e le isole. Questa disuguaglianza è accentuata anche dall’introduzione del Welfare Aziendale e di fondi pensionistici integrativi vincolati al contratto di lavoro e allo status socio-economico. L’esclusione di fette sempre più ampie di popolazione dall’accesso alle cure va di pari passo con l’assenza di qualsiasi investimento incisivo sulla prevenzione primaria e secondaria di malattie e su misure di tutela della salute.
La “Buona Scuola”, degna figlia delle riforme precedenti, insulta gli insegnanti, svuota le conoscenze, punta a trasformare gli studenti in schiavi obbedienti pronti a lavorare gratis e senza protestare. Mancano totalmente politiche di assistenza e sostegno alla famiglia, come gli asili o dei servizi sul territorio per il sostegno agli anziani. I diversamente abili ed i soggetti sociali fragili sono sempre più spesso abbandonati a loro stessi o alle loro famiglie, senza alcuna assistenza economica e materiale e alcun serio programma di inserimento e inclusione sociale.
Per questo noi vogliamo:
– la cancellazione di tutte le riforme che hanno immiserito la scuola, l’università e la ricerca;
– l’assunzione a tempo indeterminato di tutto il personale precario della Pubblica Amministrazione e un nuovo programma di assunzioni per scuola, sanità, servizi socio-assistenziali, con immediato sblocco del turn-over lavorativo;
– un serio adeguamento salariale;
– l’ampliamento dell’offerta formativa e l’estensione del tempo scuola col tempo pieno per tutto il primo ciclo d’istruzione;
– la gratuità dei libri di testo e la certezza del diritto allo studio fino ai più alti gradi;
– la totale gratuità del servizio sanitario nazionale;
– un potenziamento reale del servizio sanitario e dei livelli assistenziali minimi;
– l’uscita del privato dal business dell’assistenza sanitaria;
– lo stop alla chiusura degli ospedali, il potenziamento dei servizi sanitari esistenti, una rete capillare di centri di assistenza sanitaria e sociale di prossimità;
– che ci sia piena libertà di scelta da parte del soggetto interessato riguardo l’uso sproporzionato di mezzi terapeutici (“accanimento terapeutico”) e le decisioni di fine vita (eutanasia);
– il risanamento e la bonifica dei territori inquinati, col potenziamento di programmi di prevenzione primaria e secondaria;
– la copertura totale del fabbisogno di posti negli asili nido;
– un concreto sostegno economico e materiale agli anziani e alle loro famiglie;
– un piano nazionale di edilizia pubblica per risolvere l’emergenza abitativa che preveda la costruzione di nuove case popolari e il recupero del patrimonio esistente (piano da finanziare in primo luogo con più tasse sugli alloggi sfitti dei grandi costruttori) e provvedimenti che regolino il mercato degli affitti (equo canone);
– la riqualificazione delle periferie;
– un sistema di trasporto pubblico efficiente e alla portata di tutti;
– un ripensamento globale delle politiche sui diversamente abili ed i soggetti fragili, e sull’inclusione, nella scuola, al lavoro, alla vita.

7. IMMIGRAZIONE E ACCOGLIENZA

La questione è centrale, visto che nel dibattito pubblico e politico si fanno sempre più strada tendenze razziste. Per questo vogliamo invertire la tendenza e fare nostro un discorso solidale, antirazzista, per una degna accoglienza e per l’estensione dei diritti (primo fra tutti lo Ius Soli).
Vogliamo:
– il superamento della gestione emergenziale e “straordinaria” dell’accoglienza e la generalizzazione del sistema sul modello degli SPRAR, in centri di piccole dimensioni nell’immediato e prediligendo l’inserimento abitativo autonomo degli accolti in modo da contrastare la ghettizzazione, con un controllo rigido sulla qualità e una valorizzazione delle professionalità coinvolte;
– le gestione pubblica dei servizi legati all’accoglienza, perché affaristi senza scrupoli e organizzazioni criminali non possano più fare profitto sulla pelle dei migranti;
– la promozione dell’autonomia delle persone straniere che transitano o risiedono, per periodi più o meno lunghi, sul nostro territorio, indipendentemente dal loro status giuridico.
Rifiutiamo:
– il regolamento di Dublino III, le leggi Minniti-Orlando e tutte le leggi razziste che lo hanno preceduto, perché vogliamo accogliere degnamente chi scappa da fame, guerra, persecuzioni, alla ricerca di un futuro migliore

8. AUTODETERMINAZIONE E LOTTA ALLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE IN TUTTE LE SUE FORME

Oggi il movimento femminista mondiale “Non una di meno” è la forza politica che tiene insieme e traduce percorsi di liberazione dal dominio di classe, di genere, di razza e orientamento sessuale. La lotta femminista partita dalla Argentina ha portato nelle piazze centinaia di migliaia di donne contro la violenza in tutte le sue forme. Lo sciopero dal lavoro riproduttivo e produttivo dello scorso 8 marzo ha messo in luce le tante forme di sfruttamento invisibili, nel lavoro di cura, nel lavoro da casa e nella richiesta di disponibilità e prestazione permanente. Anche in Italia “Non una di meno” ha espresso, con autonomia e intelligenza, una capacità fortissima di lotta e di proposta, come dimostra l’elaborazione del Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere.
Nel Gender Gap Report 2017, il resoconto sulla disuguaglianza tra uomo e donna, l’Italia è all’82esimo posto su 144, ed era al 50esimo nel 2015. Aumentano quindi la disuguaglianza e le discriminazioni a partire dal lavoro, dove le donne sono meno partecipi e più povere degli uomini. La crisi e i tagli al Welfare aumentano la difficoltà a coniugare tempo di lavoro, tempo di vita e anche tempo per la politica: sempre più donne sono costrette a stare a casa, nemmeno libere di interessarsi alla propria dignità e alle battaglie per il miglioramento delle proprie condizioni.
Le violenze contro le donne sono cronaca quotidiana, è tra le mura domestiche o nei viaggi disperati in fuga dalle guerre che si consuma, nel silenzio, il maggior numero di violenze. In particolare i corpi delle donne migranti ci ricordano che la questione di genere è intrecciata alla questione di classe, inasprita dalla doppia oppressione che coinvolge anche le donne che diventa tripla se l’oppressa è donna e immigrata.
Noi vogliamo:
– parità di diritti, di salari, di accesso al mondo del lavoro a tutti i livelli e mansioni a prescindere dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale;
– un sistema di Welfare che liberi tempo dal “lavoro di cura” (nidi, “tempo prolungato” a scuola, assistenza agli anziani e ai disabili, etc. );
– mettere in campo soluzioni che inibiscano ogni forma di violenza (fisica, ma anche sociale, culturale, normativa) e discriminazione delle donne e delle persone LGBTI e che sia data centralità dell’educazione alla parità e alla non-discriminazione ad ogni livello d’istruzione;
– piena e reale libertà di scelta sulle proprie vite e i propri corpi; pieno diritto alla salute sessuale e riproduttiva, negata in tante strutture pubbliche dalla presenza di medici obiettori;
– Non vogliamo pacchetti sicurezza. La sicurezza delle donne è nella loro autodeterminazione.

9. AMBIENTE

Questo sistema economico si è dimostrato totalmente incompatibile non soltanto con la vita e la libertà delle classi popolari, ma con la natura e la sopravvivenza stessa del nostro pianeta. La questione ambientale non può essere analizzata in modo settoriale, ma dobbiamo riappropriarci di uno sguardo ecologico sul mondo. Anche la devastazione ambientale, nelle sue ricadute drammaticamente differenti nelle vite degli oppressi e degli esclusi e in quelle dei ricchi e privilegiati, mostra la sua aspra natura di classe.
Mentre un intero continente, quello africano, fa i conti non solo con le guerre ma anche con la siccità, la desertificazione, l’inquinamento, nei paesi del primo mondo continuiamo ad usare – e sprecare – molte più risorse di quanto ci potremmo permettere. Ma i danni non si possono confinare a lungo: l’inquinamento, lo stravolgimento climatico, la crisi idrica, gli incendi colpiscono sempre di più al cuore dei paesi dominanti e ci impongono un urgente e radicale ripensamento del nostro modello produttivo e di consumo.
Anche nel nostro Paese abbiamo assistito a disastri ambientali, più o meno annunciati (terremoti, incendi boschivi, frane) e al tentativo costante di depredare e devastare i territori in nome del profitto (si pensi a “Grandi Opere” come la TAV, il progetto TAP, le trivellazioni petrolifere, etc.).
Noi vogliamo:
– la messa in sicurezza e salvaguardia preventiva dei territori;
– uno stop al business dell’emergenza ambientale e a quello della cosiddetta green economy;
– una gestione trasparente, programmata e condivisa dalle popolazioni interessate delle risorse destinate all’ambiente, nonché da un serio piano per la messa in sicurezza idrogeologica del Paese;
– la messa in mora delle cd. “Grandi Opere”, presenti o future;
– un piano d’investimenti pubblici, ad esempio sui trasporti o sull’energia, tarato sui reali bisogni delle classi popolari e fatto nel pieno rispetto dell’ambiente;
– una nuova politica energetica che parta dal calcolo del fabbisogno reale;
– una nuova politica dei rifiuti, che parta da un ripensamento della produzione di merci e veda il privato fuori da ogni aspetto legato al ciclo di smaltimenti
– il rispetto totale per il territorio e la gestione partecipata e democratica di ogni lavoro e progetto.

10. MUTUALISMO, SOLIDARIETÀ E POTERE POPOLARE

Le condizioni di vita delle classi popolari peggiorano sempre di più, questo deterioramento riguarda la salute, l’istruzione, ma anche più semplicemente la possibilità di godere di tempo liberato da dedicare ad uno sport, un hobby, etc. In quest’ottica mutualismo e solidarietà non sono semplicemente un modo per rendere un servizio, ma una forma di organizzazione della resistenza all’attacco dei ricchi e potenti; un metodo per dimostrare nella pratica che è possibile, con poco, ottenere ciò che ci negano (salute, istruzione, sport, cultura); una forma per rispondere, con la solidarietà, lo scambio e la condivisione, al razzismo, alla paura e alla sfiducia che altrimenti rischiano di dilagare. Le reti solidali e di mutualismo sono soprattutto una scuola di autorganizzazione delle masse, attraverso la quale è possibile fare inchiesta sociale, individuare i bisogni reali, elaborare collettivamente soluzioni, organizzare percorsi di lotta, controllare dal basso sprechi di denaro pubblico e corruzione.

Tutti i punti precedenti sono strettamente intrecciati con la questione centrale, la necessità di costruire il potere popolare. Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario.
Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo: quello che noi – ma non solo noi – abbiamo provato a mettere in campo lo abbiamo chiamato controllo popolare. Il controllo popolare è, per noi, una palestra dove le classi popolari si abituano a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi, riprendendo innanzitutto confidenza con le istituzioni e i meccanismi che le governano. Per questo abbiamo chiamato controllo popolare la sorveglianza che abbiamo fatto sulla compravendita di voti alle ultime elezioni amministrative a Napoli, le visite che facciamo ai Centri di Accoglienza Straordinaria, le “apparizioni” all’Ispettorato del Lavoro per reclamare efficienza e certezza del controlli, la battaglia per il diritto alla residenza e all’assistenza sanitaria per i senza fissa dimora, o per il rispetto delle regole, senza abusi, nei dormitori pubblici e nei Consultori Familiari. Ancora, è controllo popolare denunciare e vigilare sui ritardi e gli abusi nei rilasci dei permessi di soggiorno, o sulle scuole dell’obbligo che vincolano la frequenza scolastica al pagamento di una retta. Anche la battaglia contro l’allevamento intensivo di maiali nel Mantovano, quella contro i DASPO a Pisa, o le inchieste sulle Grandi Opere e le battaglie per arrestarne la realizzazione sono controllo popolare.
Costruire il potere popolare, vigilare e prendere parola su tutto ciò che ci riguarda direttamente, rimettere al centro il lavoro (un lavoro degno ed equamente retribuito), mettere in sicurezza il territorio, smantellare il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni e impedire l’accesso ai privati in settori cruciali (scuola, smaltimento rifiuti, sanità, accoglienza, etc.), significa ridurre le disuguaglianze, evitare speculazioni e contrastare efficacemente le organizzazioni criminali che avvelenano e distruggono la nostra terra, sottraendo loro bassa manovalanza, reti clientelari e occasioni per fare affari (è anche per questa ragione che sosteniamo la legalizzazione delle droghe leggere).
Per noi, ma per i tanti che sono intervenuti e che l’hanno ricordato, anche con altri nomi, oggi il controllo popolare è il primo passo per stimolare l’attivismo, la partecipazione, l’impegno di tutti, senza distinzioni.
È per questo, insomma, che crediamo e speriamo che il nostro compito non si esaurisca con le elezioni, ma che il lavoro che riusciremo a mettere in campo ci consegni, il giorno dopo le urne, un piccolo ma determinato esercito di sognatori, un gruppo compatto che continui a marciare nella direzione di una società più libera, più giusta, più equa.

Contro il cyberfascismo: autodifesa dei diritti digitali e indipendenza tecnologica

Questa è una traduzione del manifesto dall’hackmeeting spagnolo “Contra el ciberfascismo: autodefensa de derechos y soberanía tecnológica“.

Quando hanno rediretto i DNS catalani
non ho aperto bocca
perché non ero catalana.
Quando hanno sequestrato i server agli hacker,
non ho aperto bocca,
perché non ero un hacker.
Quando hanno bloccato gli indirizzi IP ai sindacalisti,
non ho alzato le mani in protesta,
perché non sono sindacalista.
Quando hanno tagliato la connessione ai migranti,
non ho detto una parola,
perché non sono un’immigrata.
Quando infine sono venuti e mi hanno sequestrato il telefono,
non c’era più nessun DNS, IP, servers o connessione che potessi usare, per denuciarli.

Martin Hackmölle

Le immagini della repressione contro le persone che hanno sostenuto il loro diritto a decidere per se stessi, il 1° ottobre in Catalunia, hanno fatto il giro del mondo. Più di 800 cittadini feriti e milioni di persone che ha partecipato al referendum, attestano la durezza repressiva di quel giorno: botte, calci e colpi contro persone che difendevano le urne, più la paura e l’incertezza di non sapere quando arrivano a prenderti.

Quello che NON ha avuto abbastanza attenzione sociale o mediatica è stata la repressione informatica che durante quel giorno e durante le due settimane precedenti ha colpito innumerevoli persone, infrastrutture, scuole, server, connessioni e dispositivi. Un attacco senza precedenti (né nello stato spagnolo né in Europa) e che crea un pericoloso precedente per brutalità e violenza tecnologica, soprattutto quando è occultato o presentato dai media come irrilevante, o perfettamente legittimo in un società democratica. Una violenza coperta dallo stesso sistema giudiziario che non ha esitato a dettare frasi bestiali e assurde come quelle di “cancellare l’identità digitale” di una persona il cui “crimine” è stato quello di insegnare a clonare un sito web. Una violenza praticata in tutti i livelli di Internet: fornitori, gestori di domini, contenuti, IP, DNS, connessioni e dispositivi.

Ecco una sintesi degli eventi repressivi che sono avvenuti in quei giorni:

  • Cambio dei DNS dagli operatori dei domini
  • Reindirizzamento del traffico HTTP
  • Blocco del traffico SSL-to-IP
  • Taglio fisico delle connessioni Internet della Rete Educativa della Regione
  • Chiusura di web hosting delle società di hosting catalane
  • Attacco DDoS all’IP per la registrazione nelle liste del referendum
  • Detenzione e minacce, alle persone che hanno inviato risposte via web, di requisizione dei dispositivi telefonici, computer e cambio della password dell’account Github
  • Monitoraggio degli IP delle istituzioni educative pubbliche
  • Rimozione di un’applicazione informativa dal Play Store (Android – Google)
  • Hanno obbligato i sysadmin a rivelare le password delle applicazioni delle istituzioni pubbliche

Alcune voci hanno descritto questi fatti come “la prima cyberguerra” contro la democrazia. Una guerra asimmetrica, dove un governo e le sue forze armate hanno attaccato con tutti mezzi possibili, mentre altri esseri umani difendevano in forma non violenta le loro infrastrutture e diritti digitali. In larga misura le istituzioni catalane e la società civile sono riuscite ad impedire alla repressione di arrivare al suo scopo. Ma questo tentativo è molto grave e le forze repressive hanno un obiettivo a cui noi abbiamo il dovere di opporci: vogliono attivare e normalizzare il fascismo cibernetico.

Come in tutte le guerre e le forme del fascismo, le prime vittime sono i diritti fondamentali: in questo caso il diritto all’accesso alle informazioni, il diritto di connettersi e il diritto all’espressione
libera.

Purtroppo, se non facciamo niente, il cyber fascismo “da solo” non si fermerà qui. Dalla Ingoberhack, l’Hackmeeting 2017 che è stato a Madrid, vogliamo denunciare i fatti e ricordare che:

1. Soprattutto e al di là di tutte le misure di protezione e di resistenza tecnologica, vogliamo e pratichiamo: il rispetto al diritto di accesso alle informazioni, la connessione e la libertà di
espressione, il diritto a infrastrutture che permettono alla gente di collegarsi, di dialogare e di esprimere i loro desideri, opinioni e affetti.

2. Quando la repressione viene esercitata su infrastrutture di internet, colpisce tutte le persone. È responsabilità di tutta la società denunciare e difendersi da questa repressione.

3. che la garanzia dell’esercizio effettivo di questi diritti, in ultima analisi, risiede in una sovranità tecnologia che ci riguarda in modo identico: nello sviluppo di infrastrutture di connettività libere, come Guifi.net, nello sviluppo e diffusione di sistemi di traffico distribuiti come Tor, nella costruzione e nell’uso di informazioni P2P come IPFS, nella promozione e nella formazione popolare di strumenti di crittografia (come GPG), nella promozione e la difesa del Software Libero.

4. che questa sovranità tecnologica e la libertà di informazione siano la condizione della possibilità di una società libera. Al di là di qualunque altra questione politica, dobbiamo difendere l’uso di questi strumenti che ci permettono di esprimerci e di organizzarci come esseri umani liberi.

Per questo motivo, al di là di specifiche opinioni politiche, lanciamo una chiamata per difendere i luoghi digitali che garantiscono la libertà di espressione tra pari.

Per approfondimenti qui.

Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?

«Ets italià? Parles italià!».  Questo mi rispose un tizio in una birreria a Barcellona, alla mia richiesta di informazioni.  All’epoca stavo frequentando il biennio di spagnolo all’università e ricordo di esserci rimasto male. Pensai che il mio spagnolo era talmente brutto che anche le mie semplici frasi non meritassero una degna risposta. Peggio, forse m’era capitato soltanto a Parigi dove, se eri fortunato, ti correggevano. Ben presto mi resi conto, invece, che non era la mia pronuncia ma il mio “castigliano” a non meritarsi una risposta. Era l’estate del 1981 ed erano passati solo pochi anni dall’approvazione della nuova Costituzione spagnola con il suo famoso articolo 3:

El castellano es la lengua española oficial del Estado. Todos los españoles tienen el deber de conocerla y el derecho a usarla.
Las demás lenguas españolas serán también oficiales en las respectivas Comunidades Autónomas de acuerdo con sus estatutos.
La riqueza de las distintas modalidades lingüisticas de España es un patrimonio cultural que será objeto de especial respeto y protección.

Dunque i catalani, dopo la dura dittatura franchista che aveva abolito l’autonomia e proibito la loro lingua, riprendevano con forza le tradizioni, la storia e la lingua e io me ne stavo, appena, rendendo conto.  E’ un ricordo che mi è venuto in mente in questi giorni mentre assistevo al gran bailamme di cazzate, o di pressapochismi, intorno alla questione del referendum catalano.  Si tratta infatti di una vera e propria questione” con radici profonde che va oltre le semplici rivendicazioni territoriali o separatiste alla “Lega Nord”, tanto per intenderci.

Precisiamo, per chi non sa come funzionano le istituzioni spagnole, che la Spagna è suddivisa in diciassette comunità quasi del tutto autonome e alcune di loro, come i Paesi Baschi e la Catalogna, hanno anche una dinamica politica molto marcata, con dei propri partiti regionali.

La maggioranza dei catalani, per esempio, poco si identificano con l’attuale governo del Partido Popular  anche per via di un’idea di repubblica e di democrazia completamente diversa.

C’è una forte volontà di dire la propria. Una voglia di esprimersi su una questione vitale che coinvolge trasversalmente tutta la comunità, dai conservatori alla sinistra, per finire agli anarchici.

Al di là di discutere o decidere sull’utilità o meno del separatismo, bisognerebbe capire, intanto, perché il governo di Rajoy ha fatto di tutto per impedire questo referendum?

La repressione e la violenza da un lato e la forza e la determinazione dall’altra danno un senso alla misura delle cose, e queste non possono appartenere a una semplice idea di unità nazionale, debbono invece far parte di una diversa visione, più ampia e più complessa, della società in generale. Una visione che cozza frontalmente con uno stato che ha dimostrato tutta la sua rude deriva autoritaria.

Le misure repressive applicate (divieto del diritto di assemblea e di manifestazione in tutto lo stato; accuse di sedizione; arresti di funzionari pubblici e rappresentanti politici; minaccie di sospensione a 700 sindaci; perquisizioni delle sedi di giornali, media e partiti; sequestro del materiale per il voto; siti web oscurati e chiusura della connessione internet nella giornata delle votazioni) ne hanno chiarito definitivamente la natura, semmai ce ne fosse stato bisogno.

Soltanto una vera paura, un serio timore per la propria conformazione istituzionale, poteva mettere in moto, come molti hanno sostenuto, la forma dello Stato d’eccezione.

E’ uno scontro istituzionale (potere locale contro potere centrale) che non ha precedenti, con la complicità dei socialisti del PSOE che nulla hanno fatto per impedire che la mano “franchista” del governo Rajoy si abbattesse sull’intera comunità; anzi lo spirito collaborazionista ha indotto gli pseudo-socialisti spagnoli a ostacolare anche la proposta di Podemos di concordare un legittimo referendum.

 

Ma, come dicevo prima, lasciando da parte la questione dell’indipendentismo, resta tutta intero un semplice interrogativo: perché e a chi può far paura la domanda: “Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?”.

Te la ricordi Stampa Alternativa?

Chi ha più o meno la mia età, o qualche anno in più, e ha vissuto qualche esperienza con i movimenti della sinistra (soprattutto “extraparlamentare”) di fine anni ’70, non può non ricordarsi di “Stampa Alternativa”. Era un periodico stampato alla buona da Marcello Baraghini, con il difficile compito di fare da laboratorio contro-culturale, dove il prefissoide era l’elemento fondamentale.  Gli argomenti erano, quindi, quelli scomodi e “contro” che erano già l’ossatura di una libertà culturale e di informazione nata con il sessantotto ma che nel movimento del settantasette trovò una sua più piena realizzazione.

Era essenziale identificare il paradigma culturale dominante (a cui opporsi) per creare percorsi alternativi. Un fenomeno che, tutto sommato, poteva essere analizzato con più semplicità rispetto a oggi, non foss’altro che per una minore presenza di strutture culturali/informative (ovviamente). Oggi seguire tutto quello che diventa mainstream e creare difese è un compito assai più difficile se non impossibile.

Io, come molti, ho portato per anni nel portafogli la tessera di corrispondente di Stampa Alternativa (un tesserino da fotogiornalista che rilasciavano a chiunque lo richiedesse) che non aveva alcun valore professionale ma, con una buona dose di faccia tosta, potevi anche esibire davanti al cancello di uno stadio o di un cinema e aspettare che ci cascassero.

I due opuscoli più famosi (quelli che non sono mancati nella mia libreria) sono stati il “Manuale per la Coltivazione della Mariuana“, che molti rintanati nelle soffitte hanno tentato di mettere in pratica e  “Contro la famiglia – Manuale di autodifesa dei minorenni” che provocarono non pochi problemi  giudiziari a Baraghini il quale dovette scappare per evitare il carcere. Ovviamente Stampa Alternativa chiuderà per riaprire qualche anno più tardi, dopo un’amnistia, ma come casa editrice un po’ meno aggressiva e tuttora presente.

 

 

La santa crociata del porco

Un breve racconto tratto dal libro “La santa crociata del porco” di Wolf Bukowski che, come dice lo stesso autore, parla dell’uso che razzisti e fascisti fanno del maiale; dell’uso che il capitalismo fa delle prescrizioni alimentari religiose e del maiale in carne e ossa, ovvero della macellazione industriale.
E’ interessare, anche, vedere come una notizie nasce e viene riportata e come nasce una bufala razzista.

Il 30 dello stesso settembre del 2015, a Rovereto, gli operai posizionano e cementano a terra un dondolo nel giardino dell’asilo comunale di via Saibanti. E’ a forma di maiale. Per permettere alla base di saldarsi prima che cominci l’assalto dei bambini («Un maialino! Prima iooo! L’ho visto prima iooo!») lo trincerano spostando due panchine.
Quando le maestre vedono il nuovo dondolo, restano perplesse per le sue dimensioni. In effetti, nonostante il nome da catalogo sia maialino Piggy (modello xfarm 15), a giudicare dalle foto che si trovano in rete si tratta di un verro di tutto rispetto. Cosi’ le insegnanti decidono di telefonare all’ufficio comunale competente: «I nostri bambini vanno dai due ai sei anni, e se poi si fanno male? Quel maiale ci sembra tanto grande!».  L’ufficio promette di approfondire la questione e scrive alla Holzhof, produttrice di arredi urbani e fornitrice di Piggy. Giovedi’ 1 veberdi’ 2 passano tra il fissaggio del cemento, la telefonata e la richiesta di verifica del Comune. Albeggia appena sabato 3, e il giornale locale Trentino (che nel 2015 fa ancora parte del gruppo editoriale L’EpressoRepubblica), pubblica un articolo a firma di Giancarlo Rudari:

Scuola materna, il maialino “condannato: i genitori musulmani […] fanno togliere il gioco perche’ offenderebbe la loro religione. C’è un maialino rosa, sorridente e paffutello che diverte i bambini dell’asilo. E’ soltanto un gioco, ma non per questo riesce ad evitare la “condanna a morte”: via quel dondolo dagli occhi e dalle innocenti tentazioni dei bambini che vogliono giocare perche’ offende la religione musulmana, via il maialino rosa perche’ i bambini non devono farsi contaminare da quell’animale impuro (per la religione del profeta Maometto) anche se e’ di plastica. E allora meglio oscurarlo con le panchine in attesa che venga rimosso. Succede questo alla scuola materna di via Saibanti: genitori che protestano per il gioco installato nel giardino qualche giorno fa, la direzione della scuola che chiama il comune e ne sollecita la rimozione. La scuola e i genitori che protestano vengono accontentati e, questione di giorni, addio al maialino a molla.

La sola fonte citata nell’articolo è un anonimo genitore che inanella perle come il classico: «dove vogliamo arrivare se andiamo avanti di questo passo?»; oppure: «si parla tanto di integrazione, si fanno grandi discorsi su confronto e accoglienza e qui siamo tutti d’accordo. Ma poi […] si va a cedere ad una richiesta assurda. E la richiesta,a questo punto, diventa imposizione…».
Ebbene, chiunque abbia figli sa che i momenti di attesa davanti a scuola, o ai giardinetti, producono una quantità incredibile di pettegolezzi e calunnie. Mentre i bambini giocano innocentemente, mamme e papa’ e nonne e zii, che tra loro magari si odiano segretamente, fanno capannello e inventano storie razziste, discriminatorie, grondanti odio malriposto; poi le ripetono, le rielaborano e nel giro di pochi minuti le eleggono a vere. Di frasi come quelle attribuite al genitore ne ho sentite io stesso piu’ e piu’ volte, negli anni in cui attendevo mia figlia davanti a scuola o al parco pubblico. Sono frasi riferite a tutto, a niente, a qualcosa di inventato, a qualcosa di travisato. Non sono spiegazione ne’ commento di nulla. Sono sintomi del vuoto, di sofferenza non riconosciuta e delle enormi difficolta’ che si hanno a fare i genitori in una societa’ ostile, che si finge amica dei bambini solo per nascondere l’odio verso l’umano che pervade. Non che questo giustifichi il pronunciarle, ovviamente. Ma cosi’ e’.
Poi pero’ quelle stesse parole basta stamparle sul giornale perche’ facciano un salto di qualita’ e si tarsformino in armi. Armi che subito qualcuno corre a impugnare. Come fa il giorno stesso, con prosa sgangherata su Facebook, il consigliere provinciale Claudio Civettini, ex leghista poi eletto nella lista “Civica trentina”:

Dopo presepi, crocefissi, feste del papa’ o della mamma, ecco che la contaminazione dell’impurita’ arriverebbe per i mussulmani, dalla presenza di un dondolo a forma di maialetto e nel nome di un’integrazione al rovescio, ecco che le autorita’ privano i bimbi trentini a un gioco candido e puro, per integrarli al credo di altre religioni che a casa loro hanno il diritto di gestire, ma che in terra trentina, è un’indicazione ridicola […] di questo passo dovremo noi subire imposizioni di qualsiasi genere, anche davanti alla banalita’ di un animaletto simpatico […] dimenticandoci che ogni male, nasce dai comportamenti delle persone – uomini e donne – che nel 2015 per motivi religiosi sanno arrivare a sgozzare animalesticamente persone o farsi saltare come kamikaze per guadagnarsi la morte del paradiso! [sic].
Le prime preoccupazioni del consigliere provinciale Filippo Degasperi, invece, sono nientemeno che per la costituzione, l’illuminismo e la tutela dei beni comuni. Ci sono cinque stelle a rischiarare il suo cielo, e si vede!
In primis, vi e’ un atto unilateralmente oscurantista che non fa parte della nostra tradizione giuridica e che calpesta la Costituzione, che come sappiamo garantisce il diritto a manifestare e alla liberta’ di espressione;
In secundis, vi e’ un problema di danneggiamento del patrimonio pubblico Trentino, che ha reso non utilizzabili ai cittadini un gioco e due panchine;
In tertiis, vi e’ un problema piu’ vasto e forse maggiore allarme sociale. Parliamo spesso di integrazione e crediamo che sia un aspetto molto importante per regolare in maniera ottimale quella che e’ la trasformazione demografica in atto nel Trentino. Tuttavia la domanda e’ chi deve integrare cosa. Sono i nuovi italiani a integrarsi con quelli che sono gli usi e i costumi del Trentino, oppure sono i Trentini a doversi integrare con quelli che sono gli usi e i costumi dei “nuovi italiani”?

Ogni argine e’ ormai travolto: lo dice il giornale locale, lo dicono i rappresentanti istituzionali. La bufala razzista è diventata verita’. (si noti come il ruolo dei social, nella vicenda, sia di mera amplificazione. Anzi, la credibilita’ e’ attestata da un media di eta’ veneranda, quasi obsoleto: il giornale quotidiano). Ormai, come una valanga lanciata giu’ dai duemila metri del monte Stivo, la mistificazione si autoalimenta, cresce su se stessa.
Lunedi’ 5 ottobre Mary Tagliazucchi su Il Giornale riferisce che «molte famiglie musulmane si sono […] lamentate e […] hanno richiesto la disinstallazione» del porcellino; lo stesso giorno Matteo Salvini a Porta a Porta (Rai 1) delinea la controffensiva: «Non ti piace la giostra col maialino? Torna al tuo paese! Vai sul dondolo a forma di giraffa, di canguro, di serpentello: tor-na-al-tuo-pa-e-se!».
Intanto, fuori da questa slavina di cazzate, la Holzhof ha risposto: il maialino Piggy, presentando una seduta avvolgente, e’ da considerarsi adatto a «bimbi di eta’ da due-sei anni, […] come gia’ esposto sul sito internet e sul catalogo ufficiale della scrivente».
Il Comune, dopo aver ricordato di non aver ricevuto alcun tipo di pressione in merito al maialino, informa che considera il dondolo sicuro, e quindi non ci sara’ alcuna rimozione.

perlomeno fino a che, dopo un periodo di sperimentazione, non si valuti diversamente. Infatti, al di la’ delle certificazioni, ci possono essere valutazioni di poca idoneita’ che provengono dall’esperienza diretta dell’utilizzo del gioco da parte dei bambini, in particolare dei più piccoli.
(Comunicato stampa, 5 ottobre 2015)

Ma gli islamofobi vogliono giocare sporco anche nell’ultima mano, accreditandosi il merito di aver costretto il Comune a un dietrofront, e di aver quindi sventato l’allarme che loro stessi avevano procurato. «Un porcello vittoriosa bandiera di liberta’», scrive Il Giornale del  6 ottobre; mentre Maurizio Crippa, giornalista di scuola ciellina, il 7 ottobre su Il Foglio si augura «che la riscossa, se non dal crocefisso o dal presepe, avvenga nel nome del maialino. A dondolo».

Un decalogo (appena, appena) utile

Dieci piccole regole utili.

  1. Non connettetevi mai ai vostri servizi privati tramite reti pubbliche o non protette (quelle senza https), ricordatevi degli Sniffing.
  2. Non aprite gli allegati (.pdf, .doc, .docx, .ppt, xls, etc..) provenienti da mail di sconosciuti, se dovesse capitarvi non concedete “privilegi macro“. Purtroppo Microsoft Office è pericoloso.
  3. Non cercate e non installare software craccato e non fidatevi delle fonti sconosciute (eMule non lo è), perchè i casi sono tre:
      – chi ha prodotto quel software voleva farlo Open ma ha le idee confuse;
      – quel software è stracolmo di pubblicità;
      – dopo che l’avete installato vi succhierà i dati per guadagnarci in qualche modo.
  4. Sui social, soprattutto su Facebook, non fate la telecronaca in tempo reale di cosa state facendo (figuriamoci un video in diretta), soprattutto se siete al mare e state mangiando pesce o ballate in discoteca; farete invidia al vostro vicino, è vero, ma sarà contento di saperlo anche quello che ha deciso di fare un salto a casa vostra sapendo che non ci siete.
  5. Insomma, ricordatevi che internet non è abitata soltanto dai vostri amici… E, soprattutto, non dimenticatevi di scollegare i vostri account loggati su browser in giro.
  6. Le password devono essere complesse e diverse per ogni account: non usate date di nascita o singole parole, ma frasi con all’interno lettere maiuscole, minuscole, numeri e simboli. Più spesso le cambiate più sicuri state. Soprattutto: cambiate le password di default del router/modem e della rete wireless.
  7. Il vostro Sistema Operativo dev’essere sempre aggiornato, non rimandate e non dimenticate di installare gli aggiornamenti.
  8. Cifrate il vostro Hardisk e mettete una password sul BIOS (su Windows 7 o 10 lo potete fare facilmente). La cifratura è l’unica cosa che garantisce l’impossibilità dell’accesso fisico al tuo computer quando è spento.
  9. Non mettete nel Cluod i vostri documenti privati e sensibili, teneteli offline. Al massimo metteteli in un HD esterno ed attaccatelo solo quando vi serve.
  10. Cercate di tenere sempre una copia in più dei vostri dati: fate un Backup offline e mai sullo stesso supporto.

Liberamente spirato a hack or die

Un trojan di stato alla prova dei fatti

Come funziona e quanto è sicuro un “captatore informatico”?

Sul sito DDAY.it, già all’epoca dell’hackeraggio del sito di HackingTeam, era possibile trovare una dettagliata descrizione del funzionamento del famoso RCS Galileo (il captatore informatico creato dall’azienda italiana che fornisce questa suite di intelligence a oltre 21 stati nel mondo) ma il Collettivo Autistici Inventati fa di più: installa e mette in funzione il software simulando un’intrusione vera e prorpria. In tal modo mette alla prova “RCS Galileo” e soprattutto dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno,  quanto “ingovernabile” e/o “normabile”  possa essere un trojan e quindi come il DDL Orlando, da poco licenziato anche alla Camera, apra la strada al più pericoloso abbassamento della privacy e della sicurezza di tutti noi.

galileo from cami on Vimeo.

WannaCry: che fare?

Qualche giorno fa, oltre duecentomila computer nel mondo, sono stati infettati da un ransomware che, come al solito, ha criptato i file (rendendoli inaccessibili) per poi chiedere il pagamento in cambio della chiave di decriptazione. Il malware si chiama WannaCry  e si è diffuso con una rapidità incredibile in un bel numero di paesi; ha sfruttato una falla di sicurezza nel sistema di condivisione dei file e di conseguenza ha avuto gioco facile all’interno delle reti a dominio Windows.

La debolezza era già nota a Microsoft, poiché l’exploit usato (EternalBlue), messo a punto dalla NSA per i loro consueti usi di spionaggio, era stato rubato dal gruppo Shadow Brokers che l’aveva messo on-line ad aprile (una settimana dopo che Trump aveva ordinato il bombardamento della base siriana).

Infatti Microsoft, il 14 marzo, aveva rilasciato degli aggiornamenti, per corregge la modalità con le quali SMBv1 gestisce “le richieste appositamente create a un Microsoft Server Message Block 1.0“.  

Ma si sa che gli utenti windows sono dei buon temponi che non badano troppo agli aggiornamenti di Windows Update (a dirla tutta sono forse gli unici utenti che stanno loggati h24 come administrator sulle proprie macchine) e che hanno permesso a WannaCry di moltiplicarsi a dismisura. Poi nelle lan aziendali, dove le politiche di aggiornamento sono elefantiache, l’intrusione è stata uno scherzetto (benedetto WSUS).

Ora, se non siete stati infettati (e l’Italia è fra le nazioni meno colpite) potete semplicemente avviare Windows Update, verificare la presenza di aggiornamenti e installarli subito, altrimenti vi tocca ripristinare i file dal vostro backup. Se non avete fatto neanche quello… pazienza, vi servirà da lezione e magari, poi, imposterete gli aggiornarsi in modalità “automatica”.
Anche per quelli che ancora smanettano su Windows XP (un sistema ormai dismesso da Microsoft) è stato diffuso un aggiornamento di sicurezza che dovrebbe metterli al sicuro.

Questa era la parte, per così dire, tecnico-descrittiva dell’azione, ora dovremmo cercare di capirne la natura e la logica sottesa a quello che solitamente ci raccontano.

Edward Snowden sostiene che gli attacchi alla rete arrivano anche dagli stati nazionali che si combattono, attraverso le agenzie di intelligence, a colpi di software malevoli. Forse non è un caso se WannaCry sia una diretta derivazione di quello della NSA.

Brad Smith, president and chief Legal Officer di Microsoft, ha detto che questo attacco fornisce un esempio della grande attività di “stoccaggio delle vulnerabilità da parte dei governi”: un po’ come se rubassero agli Usa qualche suo missile Tomahawk. 

Secondo altri, esistono consistenti evidenze di legami tra Shadow Brokers e Putin. Proprio Shadow Brokers aveva detto a Trump di aver votato per lui, ma di aver perso la fiducia riposta nell’attività del neo presidente.

Per tutto il resto vi consiglio questo articolo di Daniele Gambetta su Il Manifesto.

L’instant messaging XMPP (Jabber)

Ho già parlato di alcuni software di messaging qui, in riferimento a quelli più diffusi, ma il problema della sicurezza e della privacy degli utenti era e continua a rimanere una piaga aperta su cui i più, purtroppo, buttano semplicemente del sale. Qualsiasi ragionamento facciamo nella direzione della sicurezza/privacy, continua ad albergare all’interno di un’area di approssimazione, più o meno, accettabile.

Ora vorrei parlarvi di Jabber (o XMPP – Extensible Messaging and Presence Protocol – che è la stessa cosa) che l’officina ribelle eigenlab di Pisa ha presentato qualche giorno fa. Si tratta di un servizio di messaging open source che gira sul server di una rete XMPP privata (quella di eigenlab appunto) e che permette l’accesso, sicuro e protetto, alla rete XMPP pubblica.  Al contrario degli altri software come WhatsApp, Telegram o Signal, XMPP è un protocollo “federato”,  nel senso che i client della rete globale dialogano tra loro al di là del server sul quale si sono registrati e quindi  entrano in contatto anche con client di reti che utilizzano protocolli differenti (come OSCAR, .NET, ecc…).

Ovviamente esistono client multiprotocollo, ma a differenza di questi, XMPP (acronimo di “protocollo estendibile di messaggistica e presenza”) risolve la cosa già all’accesso del client sul server, poiché ha già messo insieme tutti i protocolli e le tecnologie necessarie, annullando così l’onere di dover programmare un supporto al protocollo a livello di client.
L’idea di Jabber nasce nel 1998 con Jeremie Miller e un gruppo di sviluppatori indipendenti che riescono a sviluppare una rete di instant messaging aperta ed espandibile a qualsiasi altro servizio di messaggistica già  esistente. Inoltre la filosofia open source garantì, già da subito, uno sviluppo migliore e un controllo generalizzato sulla sincerità e la bontà della sicurezza dei dati.

Per spiegare l’architettura XMPP, Markus Hofmann e Leland R. Beaumont utilizzano i personaggi “Romeo and Juliet” della tragedia shakespeariana. La metafora racconta che Giulietta e Romeo utilizzano account diversi, appartenenti ciascuno al proprio server familiare. Giulietta, con il proprio account juliet@example.com, invia al suo server un messaggio (Art thou not Romeo and a Montague?) per romeo@example.net; il testo viene ricevuto dal server “example.com” che contatterà il server “example.net” (che ospita l’account di Romeo) e verificata la rispondenza di indirizzo e di linguaggio, si stabilirà una connessione tra i due server recapitando così il messaggio al giusto destinatario che potrà rispondere (Neither, fair saint, if either thee dislike) e così via.

In sostanza, anche se gli utenti hanno client e sistemi operativi diversi, i server su cui poggiano gli account faranno in modo di portare a buon fine lo scambio comunicativo.
E’ quello che si chiama “sistema scalabile”: nessun server centrale che si occupa di smistare i messaggi, ma tanti server che diventano nodi di scambio all’interno della rete XMPP. Questo significa che anche se una parte della rete non funzionasse, quella restante continuerebbe a svolgere egregiamente il proprio compito.

XMPP fornisce sia chat singola che di gruppo, ha una rubrica per i contatti, permette di scambiare file e immagini in chat e stabilisce comunicazioni criptate sia singole che di gruppo.

E’ possibile installare una grande quantità di Clients per qualsiasi tipo di piattaforma e qui trovate tutta la lista.  Il migliore per Android è sicuramente Conversations che su Google Play è a pagamento mentre con F-Droid puoi scaricarlo gratis (se volete potete seguire questa guida); mentre per iOS consiglio Monal che trovate gratis sullo store ufficiale.

La sicurezza e la privacy, anche qui, sono affidate a una crittografia end-to-end ed è possibile ricevere messaggi cifrati su più dispositivi, o inviarli anche se il destinatario è offline. La crittografia funziona anche per immagini, file e messaggi vocali. I protocolli crittografici sono implementati in modo trasparente e, grazie allo sviluppo comunitario di questo open source, chiunque può verificare l’assenza di backdoor e di falle di sicurezza nel codice.

Ma per la nostra sicurezza, la domanda giusta è: di chi e di cosa ci fidiamo quando decidiamo di  dialogare con qualcuno?

Qualche esempio, un po’ grossolano, sulla nostra percezione (e sulle pratiche) della sicurezza in tema di conversazioni.

La prima cosa che facciamo quando instauriamo una conversazione è quella di capire/decidere, immediatamente, il livello (pubblico, sociale, privato, intimo) a cui tale tipo di comunicazione appartiene. Al netto di disturbi psicologici, sappiamo come discutere in un bar o nella sala d’attesa di un barbiere/parrucchiere, sappiamo (forse un po’ meno) come e cosa scrivere sulla nostra bacheca di Facebook, comprendiamo che per parlare di cose di famiglia è meglio farlo in casa nostra, allo stesso modo ci appartiamo in luoghi e con distanze opportune (curando bene il “canale”) per dialogare di cose intime.

Basandoci su tale paradigma, risolviamo una semplice proporzione che ci da, approssimativamente, il peso della propagazione dell’informazione, in rapporto al numero delle persone presenti nella conversazione. Ovvero, il potenziale di diffusione parte da un numero imprecisato (teoricamente infinito) “x” della conversazione pubblica e arriva fino a “2” nella conversazione intima (ovviamente parliamo di partecipanti e non di rischio diffusione o intercettazione).

Se, dunque, in analogico possiamo assumere come valore minimo teorico di diffusione il numero “2“, in digitale questo valore minimo dev’essere almeno “3” (i due dialoganti/intimi più colui che gestisce il canale). Questo vuol dire almeno due cose: la prima è che non esistere la condizione di “intimità” in una chat; la seconda che, come conseguenza della prima, la nostra soglia di prevenzione della privacy è diventata un po’ più “lasca”.

Ora, possiamo fare tutti i ragionamenti che vogliamo, sulla proprietà, sui sistemi e anche sulla criptazione o qualcos’altro, ma fondamentalmente dobbiamo sempre fidarci di qualcuno che è “altro” rispetto al nostro interlocutore intimo. In sostanza sta a noi scegliere se questo “altro” debba essere Zuckerberg (Messenger, WhatsApp, Instagram), Durov (Telegram), Google (Hangout e Yahoo! Messanger), Microsoft (MSN MessangerSkype) oppure un’organizzazione no-profit come Open Whisper Systems che gestisce l’open source Signal.

Ecco forse sta proprio qui la chiave di volta: fidarsi di chi  non crede che tutti gli scambi debbano essere per forza di natura economica, di chi non venderà i dati appena possibile, di chi non capitalizzerà il successo e di chi da anni si batte per una rete paritaria e democratica.