Siamo tutti palestinesi

Un conflitto lungo un secolo e al centro un territorio.
E’ il 1880 e nello stesso territorio convivono 150 mila arabi e 24 mila ebrei sotto l’impero Ottomano.  La popolazione è quasi tutta contadina o meglio bracciante al servizio di proprietari terrieri che controllano la gran parte del paese. Soltanto Gerusalemme gode di una piccola autonomia perché è l’antica città sacra agli abramitici.
Con la fine dell’impero Ottomano, dopo la prima guerra mondiale, tutta quell’area passa sotto il controllo inglese (grazie all’accordo Sykes-Picot). Gli arabi sono entusiasti di questo nuovo protettorato perché, essendosi impegnati nella  lotta agli ottomani, si aspettano che venga rispettata quella promessa di uno stato arabo indipendente.
Così non sarà, anzi gli inglesi continueranno a favorire l’insediamento di colonie ebraiche (con l’idea del focolare nazionale“) incrementando sempre di più la loro presenza.
Grazie agli investimenti esteri attraverso l’Agenzia Ebraica e anche alle persecuzioni naziste, gli ebrei nel 1945 sono oltre 500 mila e acquistano sempre più territorio da dove devono, ovviamente, cacciare gli arabi che sono ancora più di un milione.
Agli arabi non gli andrà bene neanche durante la seconda guerra mondiale, quando appoggeranno i tedeschi nella speranza di liberarsi degli inglesi. Infatti, nel 1948, viene proclamato lo stato di Israele che scatenerà una lunga scia di conflitti e aggressioni militari e una continua e sistematica espulsione di palestinesi dalla propria terra (quasi 1 milione).
Dopo lo stato di Israele stiamo assistendo da 50 anni a un unico sterminio inframezzato da finte tregue e indignazioni.
Dalla guerra dei 6 giorni, al tentativo di Sadat e al trattato di Washington; dall’invasione del Libano, e il massacro di Sabra e Shatila, alla ripresa dello scontro con Sharon; il tutto condito da 15 mila vittime, come se niente fosse.
La cronaca  di questi giorni non è un imprevisto o un accidente ma sempre questa stessa storia che continua incessante il suo percorso; l’unica differenza è la nostra stanchezza, la nostra noia e il nostro disinteresse che ci porta a spostare tutto più lontano, da noi.  Allora da qualche parte bisogna ripartire e, come dice Emiliano Vaccaro, forse è il caso di “tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi“.

Potenza felix [2]

felità collettivaNe riparla Angela Arbitrio su “Basilicata Post.it”, facendo da megafono a PotenzaSmart che se ne occupa da un po’ di tempo e allora pure io riprendo il ragionamento laddove l’avevo lasciato.
Quello che non mi convince dei ragionamenti, pur validi, dei due blog appena citati, è la prospettiva dalla quale guardano le cose. Il senso della felicità che ne viene fuori è quasi esclusivamente calato all’interno di una dimensione personale, di singole “sensazioni” che sommate tra loro ne danno una tendenza.
Per sgombrare il campo da incomprensioni dico subito che questi ragionamenti sono validi (e anche ovvi) come tanti altri. Così come è’ ovvio finire nella spirale del senso e delle definizioni; giusto per capirsi: che cosa è felicità? cos’è essere felici? come si misura la felicità?
Allora, per non interrogarci sul senso e sui sistemi di misura [la felicità è qualcosa? qualcosa grazie alla quale viviamo in uno stato (di tempo x) euforico? Misuriamo il tempo di durata (x) di questo stato o l’intensità di quello stato?] interessiamocene soltanto nella sua relazione con il mondo (ma tralasciando anche la definizione di mondo altrimenti non ne usciamo più).
Abbandoniamo il senso solo per facilità di ragionamento altrimenti potremmo tranquillamente sostenere, come faceva Leopardi, che in fondo la felicità non esiste affatto ed il problema è risolto.
Dunque per costruire una visione di felicità in rapporto con il mondo bisognerà sorvolare sulle sensazioni personali come il sentirsi liberi, il sentire la potenzialità dei propri sogni, ecc… e guardare il tutto da un’altra prospettiva, quella della comunità, della società, della cooperazione.
Invece di guardare all’individuo che deve “sentirsi a casa e nel mondo allo stesso tempo” pensiamo a un mondo che diventa casa.
Chi può creare le condizioni sotto le quali il mondo può diventare casa? Chi questo mondo lo influenza più di altri?
Per esempio in una città, chi può predisporre le condizioni affinché quella città diventi casa?
L’amministrazione comunale certamente è il soggetto che più di altri ha il potere di creare queste condizioni.
A me vengono in mente concetti come “partecipazione” e “inclusione” ma poi mi accorgo che sono già presenti nella Costituzione.
Dunque le difficoltà, più che teoretiche, sono pratiche ed hanno a che fare con la “volontà” di realizzare processi concreti di inclusione, di “amministrazione condivisa”.
Anche esempi come quello di Labsus, avviato anche a Matera nel 2011, sono qualcosa e/o sono meglio di niente; l’importante è  fuggire da eventi alti-sonanti e prediligere quelli basso-coinvolgenti.
L’idea è quella di creare i presupposti di una felicità più diffusa (sul proprio territorio) attraverso un nuovo rapporto tra amministrazione e cittadini; un rapporto che non può non passare attraverso il diretto coinvolgimento di quest’ultimi nell’amministrare i beni comuni. E’  tutto qui; tutto sta nell’avere la “volontà effettiva” di farlo.
La “volontà effettiva” di pensare il contrario di ciò che normalmente pensano i politici e i partiti oggi i quali tendono a riempire il vuoto con il vuoto; a prediligere il profilo dell’apparire; a privilegiare sempre e soltanto il marketing politico e a pensare al cittadino come soggetto passivo e non come attore propositivo.
Potrà sembrare un teorema da  nichilismo politico spicciolo ma è l’unica cosa da cui partire per stare nella direzione della felicità collettiva.
Provare a far funzionare le consulte pubbliche, ad affidare direttamente ai cittadini la gestione di beni pubblici (territorio, acqua, nettezza urbana, ecc…) rende diversi favori al territorio: per prima cosa avvicina il servizio ai diretti consumatori rendendolo, di conseguenza, migliore; poi riduce tutti quei costi derivanti dalle gestioni più o meno private e instaura, automaticamente, meccanismi di controllo diretto sull’intero processo.
Quello che deve funzionare è il rapporto di mutua collaborazione tra i diversi attori della società civile (famiglie, scuole, associazionismo, imprenditori e commercianti) e la politica amministrativa, tutti all’interno dello stesso rapporto cooperativo di gestione dei beni “pubblici” (o beni “comuni”).
Lo so che parlare di pubblica felicità  significa fare pura astrazione, ma se i cittadini, le persone, partecipano concretamente alla lettura del proprio territorio e alla conseguente sistemazione e riassemblaggio della propria casa-mondo,  qualche in quella direzione si può dire di averlo fatto.

La scuola che ci meritiamo

numeriChissà perché ogni volta che vado a prendere un caffè alla pasticceria Salza di Pisa, non mi viene in mente niente della scuola, sarà che non prendo il tè o che non mi intervistano, fatto sta che l’idea di Carrozza mi ha fatto correre un piccolo brivido lungo la schiena. Sono quei piccoli e stupidi brividi che per un attimo m’impensieriscono: non è la febbre e neanche il freddo o la stanchezza ma un pensiero anzi, una preoccupazione.
Mentre discuto su Facebook con un’amica ho pensato a come si intervistassero tra loro Gentile e Lombardo Radice tra il 1922 e il 1923.
La scuola è una brutta rogna e ne sanno qualcosa tutti i precari, gli abitanti delle graduatorie a macchia di leopardo, i docenti, gli studenti e tutti quelli che nel bene o nel male ci girano intorno anche solo collateralmente nel periodo di vita scolastica dei propri figli. Ecco perché la Carrozza avrà pensato di chiedere a loro cosa ne pensano e come la vedono…
Non è proprio una gran cosa venirsene fuori con una customer satisfaction; invece che 10 domande sarebbero bastate 3 risposte chiare: un salto all’indietro a prima della riforma Gelmini (recuperando anche i tagli di quel genio di Monti) e intraprendere una via di uscita dai danni delle riforme di Berlinguer e della Moratti, e anche di D’onofrio.
E’ poco? Allora aggiungo che le università devono essere il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese.

Era questa la scuola che ci meritavamo?

Il troll che s'aggira nel tech

Cos’è il troll dei brevetti, Patent Trolls o “non-practicing entities” (NPE)?
La questione non è proprio nuovissima visto che se ne parla già da una dozzina d’anni, ma è il dato che è diventato preoccupante. Ne parla TechHive ed è una nuova “pratica economica” messa in moto da aziende o società che “producono/accumulano” brevetti al solo scopo di innescare poi procedure di risarcimento verso tutte le grandi aziende tech. Ne sanno qualcosa Apple che è la prima della lista (la notizia è infatti riportata anche da Melamorsicata), HP, Samsung, Microsoft, Sony, Dell, LG, AT&T e altre 4.200 aziende citate in giudizio per NPE nel 2012.
La pratica funziona perché i tempi per la risoluzione delle controversie si aggirano intorno ai tre anni e quindi le grandi aziende preferiscono acquistare le licenze con un accordo stragiudiziale.
E’ stato stimato un profitto annuo intorno ai 90 miliardi di dollari e un costo, o “tassa troll”, di 1040 mila dollari all’anno per le imprese con un fatturato annuo inferiore a $ 1 miliardo, e di 57.670 mila dollari per quelli con redditi oltre $ 50 miliardi di dollari.
Un buon affare quindi, finché dura, visto che il Congresso sta discutendo sul come ridurre l’impatto di NPE.

La Smart City sei tu ma i sindaci non lo sanno

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Datalandify yourself

Dice Davide Bennato  che le Buzzword più di moda oggi sono i Big Data che, a parte le motivazioni economiche, rappresentano un “vero cambiamento del modo con cui gestire i processi sociali, economici e culturali”. E’ ovvio che quest’idea va inevitabilmente connessa a quella di Smart City. Senza una lettura (intelligente) dei dati del traffico, dei rifiuti, dell’energia, dei trasporti, ecc…, è difficile poter palare di città intelligenti.
Proprio per farsi un’idea di cosa significhi tutto questo la General Eletric ha realizzato una miniserie per raccontare come la città di Datalandia gestisce intelligentemente i propri dati salvando i cittadini da vampiri e alieni.
Quello che mi colpisce di più nell’idea della General Eletric, oltre al simpatico sequel, è la possibilità di diventare un personaggio dei video, proponendo la propria faccia e il personaggio attraverso una pratica interfaccia grafica.
Questa cosa vi sembrerà pure una cavolata della strategia della comunicazione ma viene, forse inconsapevolmente, sintetizzata l’essenza della città intelligente.  Se guardandovi intorno scorgete talvolta sindaci tuttofare che non si preoccupano delle idee altrui perché troppo impegnati a sviluppare energicamente le loro, preoccupatevi voi perché è un danno quasi irreparabile. Se nella vostra città si parla di contenitori di hub, di nodi e di collegamenti, ma non trovate un modo per dire la vostra allora v’é capitato il sindaco-manager, quello che usa la fascia tricolore come una falce per mietere solo consensi politici “interessati”.
Se la Smart City dev’essere l’insieme delle reti interconnesse (trasporti, elettricità, edifici, relazioni sociali, acqua, rifiuti, ecc…) e di interventi tesi a una maggiore sostenibilità a 360 gradi, questo deve significare necessariamente una maggiore qualità dei servizi, in uno, una migliore qualità della vita. Non possono bastare solo i dati e la loro lettura; ciò che rende intelligente il suffisso “smart” è la capacità di creare interazioni stabili ed efficienti tra cittadino e amministrazione. In una parola sola: non è il cittadino che si adatta alla città ma, al contrario, la città che si adatta al cittadino.

Ci son cose che voi umani…

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[foto da La Nuova del Sud]
All’inizio di luglio è partito il nuovo terminal bus di via del Basento a Potenza.
Tra le polemiche sempre più accese, circa l’utilità e la funzionalità di tale opera, il TG Basilicata, oggi, lancia un servizio a cura di Nino Cutro, per misurare la temperatura del malumore.
Il buon giornalista, tra i tanti testimoni che si lamentano quasi all’unisono del traffico e della poca agibilità pedonale, coglie al volo la denuncia di un anziano signore il quale fa notare che il sottopassaggio ferroviario, al quale si accede attraverso una discreta gradinata, è sfornito di una passerella o di un qualunque sistema per facilitare l’accesso alle persone con limitata capacità motoria.
Ovviamente Cutro gira la domanda all’assessore allo Sport e Mobilità del comune di Potenza, Giuseppe Ginefra, il quale risponde con tranquillità e serenità (come solo i politici sano fare) che il sottopassaggio è stato ereditato dalle Ferrovie dello Stato e che il Comune al più presto provvederà a sistemare le cose.
In che senso?, avrebbe detto Verdone…
Ma se il comune è stato lì a lavorarci per mesi e mesi…. non sarebbe stato più ovvio pensarci subito, prima ancora di infilarsi la fascia e fare un’inaugurazione in pompa magna?
Ci son cose che voi umani….

Due questioni e mezzo

bridging-the-gapCon i tre argomenti contro di Mantellini, i quattro contro e uno a favore di Giuseppe, la “controdemocrazia” di Giovanni e per finire con la sconfitta dei luddisti di Chiriatti si riavvia, almeno lato rete, la ciclica questione della forma dei partiti e dei loro sistemi di connessione.
Secondo me, e per rimanere in tema, le questioni sono due contro e mezza favore:
1) quali partiti.
Io avevo inizato a ragionarci un po’, e anche se in modo emozionale, prima delle elezioni e vorrei oggi affinare il tiro.
E’ bene chiarire subito, a scanso di equivoci, che quando parlo di partiti mi riferisco a quelli di sinistra che “dovrebbero” avere fissato nel loro DNA l’esigenza di un rapporto continuo e produttivo con quella che comunemente è definita “base”.
Dice bene Chiriatti che ormai i partiti fanno bonding invece di bridgin, anche se sbaglia la metafora iniziale perché paragona la democrazia alle religioni e la cosa non funziona giacché le religioni essendo teleologicamente indirizzate non necessitano di approvazione da parte dei suoi aderenti (e i suoi rappresentanti sono eletti solo perché scelti da dio); mentre la metafora del ponte funziona ma limitatamente al rapporto cittadini-partiti-Stato, perché, invece, tra i partiti e sui aderenti e/o simpatizzanti per anni si è sempre parlato di “cerniera” proprio per dare il senso di una distanza inesistente.
La democrazia di cui parliamo è quella in cui gli eletti rappresentano indirettamente i cittadini che dovrebbero, prima e dopo, recuperare forme dirette di rappresentanza (fatta eccezione per quella istituzionale come i referendum) proprio nel loro rapporto con il partito.
2) Con chi parla il partito?
Ora il problema è proprio qui: i partiti hanno dismesso il loro compito di far recuperare al cittadino il suo ruolo diretto semplicemente diluendo al massimo le forme di partecipazione diretta e, probabilmente, esagerando nel verticismo.
Ecco che ritorna la rete, il web, che a dispetto della sagoma a conchiglia del partito ridà voce alla “base” in forma di megafono; o, come l’ha definito qualcuno, come un tifo da stadio che condiziona la squadra.
Ma in che modo i partiti tengono conto di queste voci provenienti dal web? Forse quasi in niente. Se consideriamo che i partiti sono presenti soltanto come brand (sordi alle proposte) preoccupati unicamente del proprio marketing il cui ascolto, come dice Mantellini, spesso è affidato a un soggetto proveniente dai piani medio bassi della struttura.
Il paragone con le aziende, per esempio nel caso del PD, non è proprio peregrino dal momento che lo slogan “prima la ditta” fu la parola d’ordine scelta per salutare l’ex onorevole Antonio Luongo che ritirò la propria candidatura per fatti giudiziari.
2 ½) chi fa ascolto?
Se i partiti non ascoltano allora, forse, lo fa singolarmente qualche politico. Si forse, ma in che modo e come filtra non è dato sapere. Per esempio ho scoperto che mentre il sindaco della mia città che non rispondeva a nessuno, neanche alle richieste più educate sulla ZTL, il presidente della provincia tweettava direttamente e rispondeva personalmente quasi a tutti.
Allora la mezza, diciamo, è nella direzione di quello che Giuseppe indica come tecnologie che pur non determinano nulla (almeno fino ad oggi) “abilitano” all’uso.
E dove sta’ l’altra metà? Nel credere di più sia nel concetto di partecipazione diretta che nell’uso delle nuove tecnologie e, a tal riguardo, quello del Movimento 5 stelle non può che essere un esempio da “copiare” pari pari: dall’esperimento delle primarie e delle “quirinarie”, alle piattaforme del Meetup e di LiquidFeedback.

La storia degli auguri di compleanno su Facebook

<img class=" wp-image-2630 alignleft" alt="compleanno-facebook" src="http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook.jpg" width="378" height="189" srcset="http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook.jpg 630w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-300×150.jpg 300w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-100×50.jpg 100w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/04/compleanno-facebook-280×140 best task management software.jpg 280w” sizes=”(max-width: 378px) 100vw, 378px” />Gli auguri di compleanno su FB sono una cosa simpatica. In primo luogo perché non c’è bisogno di uno sforzo mnemonico per ricordarsi di farli all’amico/a e poi perché raggiungi anche persone a cui non avresti potuto farglieli diversamente.

La questione interessante, invece, è quella che riguarda i ringraziamenti perché sembra che Facebook abbia indotto a una sorta di massimizzazione di tale feedback.

Ho notato che la maggior parte delle persone si regola in questo modo: se gli auguri sono pochi, allora scrivono un grazie di risposta a ciascuno nei commenti (molti li personalizzano inserendoci anche il nome dell’auguratore/trice ), se invece sono tanti ecco comparire nella propria bacheca un generale e accorato ringraziamento, del tipo “siete veramente tanti e vi ringrazio tutti“, e cose del genere…

Siccome è capitato anche a me di ricevere un bel po’ di auguri mi sono impegnato a rispondere a tutti con un “grazie, un sorriso e un mi piace” sotto ogni commento (anche se probabilmente qualcuno l’ho saltato ma solo perché quel giorno non avevo un pc a disposizione ma soltanto telefono e tablet e purtroppo le app, per queste cose, sono un po’ limitate).

Ho deciso di farlo perché ho dovuto rispondere alla seguente domanda: «se qualcuno mi augura buon compleanno incontrandomi per strada, telefonandomi, inviandomi un sms o una mail, io che faccio?»

possibili risposte:

1) non rispondo a nessuno e a fine giornata vado in piazza e mi metto a gridare con un megafono “siete veramente tanti e vi ringrazio tutti”? Ma questo presuppone che chiunque mi abbia fatto gli auguri passi da quella piazza in quel momento; ma anche se decidessi di girare tutta la città con le trombe montate sull’auto, non tutti potrebbero abitare in città e io probabilmente non riuscirei a percorrere tutte le strade.

2) Faccio stampare dei volantini e li distribuisco oppure un manifesto 3×6 col quale ringrazio tutti? Idem come per la 1, e poi c’è pure chi i manifesti non li nota nemmeno.

3) Semplicemente rispondo subito “grazie” a ognuno. Più economico e statisticamente più efficace, anche se ne salto qualcuno avrò comunque raggiunto la stragrande maggioranza degli auguratori e delle auguratrici.

Dunque ho scelto la terza opzione, certo la fatica c’è: bisogna controllare spesso chi te li fa, ma con l’avviso sullo smartphone, minimizzi il lavoro e non massimizzi il feedback.

Vincono le peggiori primarie

Siamo stati abituati a pensare ai partiti come elementi sostanziali del nostro sistema politico. In parte è vero, almeno per quella parte che attiene alla nostra organizzazione sociale,  ma soprattutto perché non conosciamo ancora forme diverse in quanto in questo campo si sperimenta poco.

Se volessimo mettere in una scala evolutiva i progressi delle organizzazioni politiche in relazione alle scoperte tecnologiche non ci ritroveremo neanche il motore a scoppio; sicuramente saremmo ancora imbrigliati nel risolvere problemi come lo smaltimento della cacca dei cavalli.

Forse il paragone sembrerà azzardato ma anche se l’avvicinassimo di più, prendendo un involucro sociale similare come la famiglia, i partiti resterebbero comunque più indietro.  Questa primaria organizzazione, che Hegel amava definire microcosmo riflesso della società, ha accelerato molto di più il suo processo evolutivo modificando quei capisaldi che sembravano vitali: il patriarca (a dispetto della cultura cattolica) è rimasto un semplice elemento retorico; la stabilità e durevolezza non sono più suoi elementi essenziali come non sono più esclusivamente costitutivi i figli e le madri.

In verità i partiti cambiano soltanto pelle come i serpenti ma restano ben impermeabilizzati nella loro struttura costituente. La loro finta mal gestione della rete è uno dei tanti sistemi di auto-difesa.

Prendiamo le varie primarie appena concluse e in un caso solo annunciate  -un sistema non nuovo, risalente addirittura al 1847 che le nostre organizzazioni politiche cercano di rifilarcelo come contemporaneo-  sono state un tentativo iperbolico di far spuntare elementi di democrazia con trucchi da quattro soldi.

Soltanto il Movimento 5 Stelle  ha dimostrato di volere utilizzare, non dico democraticamente, ma almeno lealmente lo strumento: nessuna candidatura è stata posta come precostituita e tutte le “primarie“, dalle candidature, alla campagna elettorale e fino al voto, si sono svolte completamente on-line.

Non ho parlato di democrazia perché non era questo il senso del post, ma soltanto sottolineare come i partititi fingono di interessarsene occupandosi, invece, a tempo pieno di quell’antico puzzle che li tiene in vita attraverso complicati equilibri  instabili creati da persone stabili.

Che ce ne viene a noi di tutto questo? Poco, molto poco, né democrazie e né società del futuro; soltanto una flebile speranza, che almeno perda il peggiore.

A che ora è la fine del mondo?

Sappiamo tutti bene che la fine del mondo era una frottola, ma se proprio non ci fidiamo del tutto John Carlson, direttore della NASA,  ce lo spiega in questo video.

E’ stato tutto un equivoco, addirittura, neanche c’erano le profezie che parlavano della fine del mondo, almeno non in senso catastrofico. I Maya, semplicemente, prevedevano il ritorno di una divinità (K’uh Bolon Yokte) che avrebbe rimesso in ordine il cosmo e probabilmente il loro calendario.

E siccome le persone sono più curiose del gatto si affollano a prenotare viaggi verso la valle di Chichén Itzá perché il poter dire “c’ero” è un’emozione più forte della fine del mondo.

Ma ci sono pure quelli che si recheranno a Bugarach o a Cisternino dove, non ho ancora ben capito se per un calcolo astrale o mero marketing turistico, già è iniziato il pellegrinaggio.

Qual è la differenza tra il paesino francese e quello pugliese? Presto detto: a Cisternino son felici e contenti di sventolare in tutte le trasmissioni televisive le proprietà anti-sciagura del tempio indiano di Babaji, invece a Bugarach, seriamente preoccupati degli stupidi avventori, hanno vietato l’accesso al paese da mercoledì a domenica.

Cassanate e altri discorsi

Le “risposte infelici” di Cassano hanno, come al solito, sobillato la rete, ma c’era da aspettarselo. Sono stato tra i primi a mettere l’#Cassano su Twitter dopo essere sobbalzato dalla sedia ieri pomeriggio.  Non si tratta di una “cassanata”, quella sorta di ambito giustificatorio dove possono rientrare quei calciatori che si lasciano sfuggire dalle mani il proprio sentimento privato (come sono “balotellate” quando si menano i giornalisti, “tottate” quando si sputa sull’avversario, ecc….) , ma del pensiero di un uomo che di mestiere fa il calciatore a cui viene semplicemente fatta una domanda. Il calciatore avrebbe potuto non rispondere dicendo di non saperne nulla ma invece dice di non volerne parlare e poi ne parla.

Non è il pensiero di Cassano che mi stupisce, anzi un po’ me l’aspettavo pure; qualsiasi uomo sa che l’omosessualità è il tema principale degli scherzi “tra uomini” (il motto “amici amici ma a tre palmi dal culo” è sempre molto in voga), mi preoccupa di più l’armamentario di elaborazione con il quale sul web si è cercato di chiudere il cerchio della notizia.

Ecco i suoi passi:

1) un giornalista chiede al calciatore se è vera la notizia, riferita da Cecchi Paone, che in nazionale ci siano dei gay. La domanda sembra “impertinente” ma fa parte della libertà del giornalista di porre domande a piacere e non a piacimento (del resto è stato chiamato per fare questo). Anche se il giornalista avesse domandato a Cassano del massacro dei randagi in Ucraina sarebbe stato impertinente.

2) Cassano, che conosce bene il suo ruolo, ci scherza su (l’aveva già fatto prima anche su Balotelli, tra l’altro usando la stessa battuta che aveva usato Gattuso quando ricevette dal Milan il compito di fare da tutor a Cassano) e dice di non voler rispondere ma poi invece dice che se non froci son fatti loro e che spera che non ci siano in squadra. A domanda impertinente risposta impertinente.

3) Tutti i giornalisti sportivi abituati e consapevoli di avere a che fare con il “calcio-pensiero”, seppure indignati, cercano di tenere ben distinti i ruoli e i compiti cercando di continuare a parlare di calcio (e credo che diversamente non si possa fare).

4) La rete invece no, com’è nella sua natura, si scatena (l’hashtag  #Cassano vola su twitter) masticando vorticosamente concetti senza troppa elaborazione (perché se a 140 caratteri di testo non corrispondono altrettanti caratteri di valutazioni e contro-deduzioni mentali le cose si complicano) e tra questi ce ne sono numerosi che sostengono l’ipotesi di un subdolo tranello ordito ai danni dell’ingenuo Cassano.

Ci sono momenti, soprattutto su Twitter, nei quali un buon numero di persone lanciano commenti da “supertecnici” della comunicazione come di chi sta al di sopra delle notizie e di mestiere fa il giudice o il prete. Sono quelli che non riportano alcuna notizia, la danno per scontata e ammiccano a retroscena, a trabocchetti o a orditure appartenenti a grandi o piccoli scenari (che, altrimenti, i piccoli lettori non saprebbero come immaginare).

Insomma su Twitter serpeggia la logica che “la domanda sia stata fatta apposta per scatenare il putiferio mediatico” e la sostengono non pochi, anche qualche amico che seguo e che stimo.

A me, lettore ingenuo, colpisce soltanto il contenuto delle risposte di Cassano che è lì sotto i miei occhi e non posso farci niente. Cosa può importarmi se un giornalista ha posto una domanda di cui conosceva già la risposta? Può mai cambiare il mio giudizio sulle parole di Cassano?

Le persone sono e devono essere responsabili delle parole che proferiscono anche se queste derivano da domande “impertinenti”.  Pensate al classico studente che dopo l’esame accusa il professore per avergli ordito un tranello con domande in-pertineti o a trabocchetto.

5) In serata Cassano fa dietrofront scusandosi per le parole pronunciate.

Massì è una cassanata.