Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo?

Se vi chiedete, come fanno i bambini curiosi, quanto è lungo l’universo rimarrete sorpresi nel sapere che non si sa.

Ignoriamo quasi completamente cosa sia in realtà e facciamo soltanto delle buone ipotesi su quanto sia esteso quello  “osservabile“.

Sappiamo, dice Amedeo Balbi, di poter guardare al massimo fino all’orizzonte e  che, siccome la luce viaggia con una velocità finita, quel limite sta a 13,7 miliardi di anni-luce (che è l’età dell’universo) moltiplicata per la sua velocità di espansione. Dunque  approssimativamente il suo raggio potrebbe essere di 50 miliardi di anni luce.

Se vi va di trastullarvi in altre teorie intorno all’universo c’è quella interessante sulla sua  forma  e  quella sulla sua fine; ma ciò che mi ha colpito (per cui la ragione del post) è il fatto che al momento non disponiamo delle conoscenze adatte per approssimare un ragionamento oltre l’osservabile e mi chiedo il perché.  Forse che la tecnologia non ci supporti ancora abbastanza?

Oppure è probabile che non possiamo farcela noi ma un “altro-uomo”, come immagina Vernor Vingederivante da nuove interfacce con il  computer e con un’intelligenza di molto superiore a quella umana attuale.

Arrivati a quel punto saremmo in grado anche di creare energia pulita e curare malattie secolari.

Io ci ho fantasticato su che ero ancora un ragazzino mentre leggevo “L’ultima domanda” di Asimov  e poi quando, per studi accademici, mi sono occupato (anche) di “transumanesimo“.

Jason Pontin sbotta dicendo che:

«Il meraviglioso potere della tecnologia doveva essere impiegato per risolvere i nostri grandi problemi. Ma guardando il presente, che cosa è accaduto? Le app per telefoni cellulari è tutto quel abbiamo raggiunto?»

Chissà….  “forse si e forse no”, ma io concordo poco con questi ragionamenti sostanzialmente heideggeriani.  C’è una cosa, però, che mi sento di sottolineare ed è quella  “necessità di un presa di coscienza” di cui parla Nicola Palmarini : il fatto che non v’è alcuna ragione per non capire che siamo noi oggi e non qualcun altro domani a dover agire per migliorare il mondo.

Mohiomap organizza la tua discarica info

Dice Catherine Shu che dopo essersi accorta di aver usato Evernote come una discarica di informazioni, ha provato ad usare Mohiomap, una web app che trasforma tutte le note e i file di Evernote, di Google Drive e Dropbox in mappe mentali.
In sostanza si passa da un concetto lineare (liste o elenchi) ad uno rizomatico (rete o mappa) di organizzazione delle informazioni archiviate sui diversi cloud.
La nuova forma semantica delle informazioni, secondo Christian Hirsch,  dovrebbe aiutare le persone ad organizzare meglio i loro contenuti e collegarli tra loro.
Al momento la versione gratuita permette solo di visualizzare e navigare tra le proprie mappe ma se si vogliono creare delle connessioni trai i vari nodi, accedere a una dashboard di analisi e aggiungere commenti alle note o ai file,  ci vuole un account “Premium” e 5 dollari al mese.

Quei robot come noi

jetson robotPer Aristotele esistono tre tipi di uomini: il primo è  quello che possiede la piena statura morale e vive nell’apertura della ragione e dello spirito; il secondo pur non essendo così completo da ascolto a chi ha l’autorità e il terzo invece oltre a non avere il dominio di se stesso neanche ascolta l’autorità altrui.
Per Asimov c’è un solo tipo di robot che però ubbidisce a tre leggi.
E’ possibile concludere che i tre uomini di Aristotele fabbricano quel robot e stabiliscono le tre leggi ma, ovviamente, anche no.
Un’altra ipotesi potrebbe essere che i robot si autocostruiscano (lasciando da parte questioni del tipo prima l’uovo o la gallina) e se ne freghino completamente dell’uomo.
Ecco, tutti quelli che sono propensi a quest’ultima ipotesi nel leggere di Sverker Johansson hanno sicuramente pensato a scenari apocalittici e hanno fatto bene, perché quei robot vivono con noi e tra noi e crescono con noi.
Quelli più complicati e sofisticati li riconosciamo facilmente perché fanno il “lavoro sporco”.
Chiedetelo al ragazzino che gioca a Unreal Tournament o a Call of Duty; al vecchio costruttore di siti che semina esche per i Crawler; o a qualcuno che ha a che fare con certi centri di ricerca.  A quelli più semplici, o comuni, non ci badiamo più, sono ormai mischiati a noi come ultracorpi, e neanche riusciamo più a immaginare un’altra esistenza senza di loro.
Se non la prendiamo troppo da lontano (il primo utensile) e neanche troppo da vicino (Curiosity), restando sul pezzo, possiamo chiederci in quanti usino un correttore ortografico,  non clicchino per cercare sinonimi o non si facciano ancora guidare da quel vecchio T9.
Sono questi i nostri robot e pure Johansson ha trovato a chi far fare quel maledetto “lavoro sporco”.  Si chiama Lsjbot ed è un piccolo robot che per lui ha scartabellato milioni e milioni di informazioni digitali (database e fonti varie) per poi confezionare nuove voci su Wikipedia.
I puristi con la penna d’oca possono stare tranquilli perché tutte le voci create in modo automatico sono ben evidenziate da Wikipedia che crea anche elenchi di testi creati da bot in attesa di correzione.

Certo gli errori non mancano mai. Per esempio aver utilizzato, nella programmazione di Lsjbot, solo informazioni registrate in alfabeto latino ha fatto scartare al bot tutte le informazioni, pur molto pertinenti, scritte in cirillico.
Ma si sa, gli errori possono capitare e se “errare è umano” ecco che anche i bot sbagliano.

La rete obliqua di FreedomBox

Sono in molti quelli che hanno l’impressione che internet sia un mare ingovernabile per natura e che non obbedisca a nessuna legge conosciuta. Se provi a chiedere notizie sulla libera informazione nella rete una buona percentuale risponde che internet è senza censura, per definizione, e che le notizie la attraversano libere e leggere come farfalle.
Poi ci sono quelli che riempiono culturalmente il concetto di “rete sociale” attraverso nuove dinamiche di organizzazione politica. Pensiamo a movimenti come  onda viola  che hanno usato la rete per veicolare velocemente idee e dibattiti o a chi, come il M5S, ne ha fatto un’impalcatura strutturale del proprio movimento.
Insomma le esperienze sembrano portare verso una certa idea orizzontale di rete o almeno obliqua.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza tecnica con reti e domini sa bene, invece, che la loro struttura è completamente verticale e rispetta un’indispensabile gerarchia a piramide (dall’ISP al rapporto tra server e client).  Se ci si addentra nella proprietà e nel controllo delle vie di comunicazione, come fa chi si occupa di geopolitica, la piramide diventa ancora più acuta.
Quindi chi parla di libertà in rete si riferisce, probabilmente, a piccoli fenomeni di dettaglio e tralascia le grandi dimensioni di macro-mediazione. Non a caso c’è che cita il Panopticon per definire il “lavoro sporco” di chi amministra i grandi hub di connessione. Se ci sono padroni si può anche fare come la Cina e se la Cina può spegnere Internet perché non dobbiamo farlo anche noi, hanno detto i democratici americani pensando all’Internet Kill Switch.
Insomma sembra che Internet non sia  proprio il paradiso, come sostiene Geert Lovink;  sarà il tempo di liberarlo?
Ovviamente non nel senso che qualche multinazionale intende quando pensa al raggio della torta, ma in quello di un possibile allargamento di struttura e sovrastruttura o meglio di una  grande diffusione sul territorio di nodi indipendenti di connessione.
Più o meno come qualcosa di cui ho già accennato qui, parlando di reti mash.
Un’idea è già venuta in mente a Eben Moglen, un professore della Columbia University che anni fa ha immaginato una piccola scatoletta che liberasse la connessione. E’ il FreedomBox, un mini server con un chip a bassa potenza che come un piccolo caricabatteria per cellulare si infila nella presa elettrica e trasforma ogni cittadino in un provider di se stesso (ma anche di altri).
Secondo Moglen quando il progetto sarà completo e diffuso ci si renderà liberi con la modica spesa di 29 dollari.
FreedomBox è un progetto collaborativo che grazie alla Debian community sta raggiungendo buoni risultati e fa ben sperare per il futuro.
La Fondazione che sostiene il progetto FreedomBox è guidata, ovviamente, da Eben Moglen con la collaborazione di Bdale Garbee  e di Yochai Benkler.

Ninux e la rete libera

map-ninuxE’ dagli inizi degli anni duemila che nelle aree rurali americane si collegano tra loro scuole, uffici e abitazioni  per condividere servizi vari tra cui internet che diventa bene comune grazie all’abbattimento dei costi di connessione.
Stiamo parlando di una infrastruttura, una sorta di “maglia” sociale, i cui “punti” sono i cittadini coinvolti nella rete. Questa maglia è appunto la rete mesh e dei suoi nodi (punti) e ovviamente senza il wireless sarebbe stato tutto molto più complicato.
Certo di tipi di connessione ce ne sono altri ma il vantaggio di queste reti risiede nella semplice idea che essa sia libera e indipendente dai suoi stessi nodi, nel senso che l’affidabilità della rete non viene compromessa dal malfunzionamento di un suo punto. Ogni nodo conserva al proprio interno tutta la memoria e la storia tecnologica della rete e indirizza semplicemente “pacchetti” ai nodi vicini.
Queste reti sono costituite da antenne wi-fi che dai tetti delle abitazioni trasmettono ad alta frequenza radio e con ridotte emissioni elettromagnetiche. La loro realizzazione aderisce a un modello di sviluppo di condivisione dal basso dove i cittadini sono i soli proprietari e vi partecipano,  più che con i soldi, con la volontà di generare una comunità connessa. Ogni partecipante è responsabile del proprio nodo con la messa a disposizione dell’apparato di rete ricevendone in cambio servizi telefonici (VoIP), gaming, webmail, scambio di contenuti e accesso a Internet.  Anzi nella comunità Ninux si parla proprio della creazione di un nuovo pezzo di Internet con l’Autonomous System n° 197835.
L’hardware utilizzato è abbastanza economico, viene consigliata una lista della spesa per non sbagliare, e un embedded con poca RAM e qualche mega di memoria su cui far girare un firmware (Ubiquiti AirOS o Openwrt) modificato appositamente dalla comunità.
Loro ci tengono a sottolineare che “la parte più importante della rete sono le persone che la compongono” e sulla Mapserver ci si può fare un’idea della diffusione e/o potenzialità della rete. La community mette comunque a disposizione le proprie esperienze e il proprio saper fare condividendo il tutto attraverso mailing list,  wiki e un blog  (oltre all’ovvia presenza sui social).
Se tra gli obiettivi della community Ninux c’è anche la risoluzione di situazioni di Digital Divide la stessa filosofia ha ispirato, dal lontano 2008, la lucanissima rete Neco di Vietri di Potenza che, sempre attraverso una rete mesh con circa 30 nodi, offre connettività a costi popolari. Con una quota associativa annua di 90 euri si può usufruire della connettività Internet e di servizi offerti nella intranet.
Certo la filosofia di base non è la stessa di Ninux ma è meglio di niente.

Hackmeeting 0x11 2014

Io ho scoperto di essere proteso verso la filosofia hacker quando a 11 anni smontai completamente un robottino che mi avevano appena regalato per vedere com’era fatto dentro e come funzionava. Riuscii dopo non pochi sforzi a rimetterlo insieme e, bene o male, a farlo funzionare nuovamente anche se con delle simpatiche varianti.

Se siete orientati verso una cultura della criticità digitale non potete perdevi questo appuntamento: torna a Bologna, dopo 12 anni,  dal 27 al 29 giugno,  l’hackmeeting italiano 2014.

E’ un incontro annuale di tutte le controculture digitali e delle comunità critiche nei confronti dei meccanismi di sviluppo delle tecnologie in Italia.

E’ un incontro per veri e provetti hackers, cioè di tutti coloro che non si rassegnano di fronte alle  scatole chiuse ma tentano sempre di aprirle anche solo per vedere cosa c’è dentro e come son fatte.

Saranno tre giorni intensi di giochi, feste, e scambio collettivo di idee, esperienze e saper fare.

E’ un evento autogestito, non ci sono fruitori ma solo partecipanti.

L’idea di base è sempre la stessa: Spazio Pubblico Autogestito basato sull’antifascismo, antisessismo ed antirazzismo.

Qui trovi tutto il programma e qui un po’ di storia.

Un iPad per la stampante 3D

  Sono in tanti quelli che si cimentano in assemblaggi o realizzazioni di stampanti 3D, diciamo, low cost che a parte  l’appagamento derivante dal semplice montaggio (fatte le dovute proporzioni, più o meno la stessa che deriva  dall’assemblare un comodino dell’Ikea) procura cocenti delusioni come risultato.

 Sembra che uno dei problemi sia il “letto di stampa“.  Spesso l’oggetto vi rimane incastrato o non si attacca proprio e molti  usano il pyrex (o vetro borosilicato), di diversi spessori,  che con il suo basso coefficiente di dilatazione termica,  permette un più sicuro riscaldamento/raffreddamento. Accade però, anche in questo caso, che spesso le parti rimangano  attaccate e si strappino nel tentativo di staccarle dal letto di vetro, infatti viene anche aggiunto il nastro di Kapton anche  se con scarsi risultati.

James Hobson suggerisce, inceve, di utilizzare il Gorilla Glass della Corning come letto di stampa che è molto resistente ai graffi, agli urti, al calore ed è anche flessibile. Ma c’è un problema:  non lo trovi così facilmente a meno che non ti va di sacrificare il tuo iPad per utilizzarne lo schermo.

Niente paura, non è necessario rompere il tuo iPad, basta acquistare anche solo schermo su eBay e con circa 15 dollari il gioco è fatto.

Certo non senza qualche problema per il montaggio ma, assicura Hobson, ne vale la pena.

Cultura hacker ed ecosistema delle conoscenze

Si è appena concluso l’Internet Festival 2013 e tra i tanti resoconti voglio lasciare il mio, ma minimo, da partecipante parziale.
Sono arrivato a Pisa venerdì 11 e dopo aver corso per non perdermi la presentazione de “L’amore è strano”, ma non per Sterling quanto per salutare un’amica, grazie a mio figlio che studia in questa città, seguo un evento fuori dalla manifestazione in un’aula universitaria di fronte al dipartimento di matematica. Qui il gruppo Exploit ha organizzato la presentazione del libro “Biohaker” con l’autore, Alessandro Delfanti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico,.
Delfanti racconta una nuova visione della ricerca scientifica, dove “nuovo” sta per hacker; una cultura che oggi sta influenzando fortemente l’etica scientifica e in particolare la biomedicina, attraverso l’inclusione dei fondamenti culturali dell’etica hacker e del software free.
Nella società dell’informazione dove la lotta per (l’accesso) l’utilizzo del sapere è fondamentale, la cultura hacker si dimostra fondamentale nel processare una pratica “aperta”.
Basta poco per rendersi conto che senza dati pienamente accessibili non c’è ricerca. Ne sono un esempio il progetto di Craig Venter sul genoma, la messa in rete della sequenza del virus dell’aviaria di Ilaria Capua e la cura open source di Salvatore Iaconesi.
Delfanti e Iaconesi sono certi che l’Open, grazie alla rete  e alle sue capacità di produzione della conoscenza, sia di fatto la più grossa opportunità per realizzare un sapere alternativo.
Si tratta di superare le organizzazioni burocratiche, (università, sistemi sanitari, grandi organizzazioni internazionali) ancora incapaci di comprendere le potenzialità della rete, per valorizzare quell’ecosistema fatto da avanguardie (come ad esempio i biohacker) che praticano la cultura della libera circolazione digitale di dati e di ricerche.
Il ragionamento è continuato (anche se più superficialmente) con un respiro internazionale sabato mattina  alla Scuola Normale in un panel con Delfanti, Ravi Sundaram, Alex Giordano, Jaromil, Adam Arvidsson, Maitrayee Deka, e Carlo Saverio Iorio.
Il concetto fondamentale che qui doveva passare era quello di “societing”: un’idea d’impresa completamente aperta, un vero e proprio network che instauri nuovi e forti legami con il sociale quale unico valore a cui attingere; come, per esempio, il progetto Rural Hub raccontato da Giordano.

La Smart City sei tu ma i sindaci non lo sanno

dataland
Datalandify yourself

Dice Davide Bennato  che le Buzzword più di moda oggi sono i Big Data che, a parte le motivazioni economiche, rappresentano un “vero cambiamento del modo con cui gestire i processi sociali, economici e culturali”. E’ ovvio che quest’idea va inevitabilmente connessa a quella di Smart City. Senza una lettura (intelligente) dei dati del traffico, dei rifiuti, dell’energia, dei trasporti, ecc…, è difficile poter palare di città intelligenti.
Proprio per farsi un’idea di cosa significhi tutto questo la General Eletric ha realizzato una miniserie per raccontare come la città di Datalandia gestisce intelligentemente i propri dati salvando i cittadini da vampiri e alieni.
Quello che mi colpisce di più nell’idea della General Eletric, oltre al simpatico sequel, è la possibilità di diventare un personaggio dei video, proponendo la propria faccia e il personaggio attraverso una pratica interfaccia grafica.
Questa cosa vi sembrerà pure una cavolata della strategia della comunicazione ma viene, forse inconsapevolmente, sintetizzata l’essenza della città intelligente.  Se guardandovi intorno scorgete talvolta sindaci tuttofare che non si preoccupano delle idee altrui perché troppo impegnati a sviluppare energicamente le loro, preoccupatevi voi perché è un danno quasi irreparabile. Se nella vostra città si parla di contenitori di hub, di nodi e di collegamenti, ma non trovate un modo per dire la vostra allora v’é capitato il sindaco-manager, quello che usa la fascia tricolore come una falce per mietere solo consensi politici “interessati”.
Se la Smart City dev’essere l’insieme delle reti interconnesse (trasporti, elettricità, edifici, relazioni sociali, acqua, rifiuti, ecc…) e di interventi tesi a una maggiore sostenibilità a 360 gradi, questo deve significare necessariamente una maggiore qualità dei servizi, in uno, una migliore qualità della vita. Non possono bastare solo i dati e la loro lettura; ciò che rende intelligente il suffisso “smart” è la capacità di creare interazioni stabili ed efficienti tra cittadino e amministrazione. In una parola sola: non è il cittadino che si adatta alla città ma, al contrario, la città che si adatta al cittadino.

Gambizzami una photo

[Joshua Held]

[Joshua Held]

Il disegno di Held qui a fianco è una sintesi constatativa, che solo i disegnatori sanno fare, del senso o dell’uso della foto condivisa. Ovviamente scattata con lo smartphone, ché tanto già sta in mano e mentre controllo l’ora, la posta, il calendario, leggo un messaggio e faccio qualche giochino, ne approfitto anche per segnalare la mia presenza in un bel posto e, per evitare di non rendere bene l’idea, condivido subito la foto “istantanea” sulla mia bacheca di Facebook.  Certo, spesso, se mi fotografo le gambe o le unghie dei piedi può anche voler dire che mi sto annoiando o non so cos’altro fare; resta comunque il senso di dare (condividere) l’immagine, l’idea figurata, del proprio stato.
Lo diceva Carlo Foggia su La Stampa un po’ di giorni fa che il futuro delle foto è nella condivisione.
Il problema, o nodo del dibattito, resta sempre quello tra macchine fotografiche, fotocamere e smartphone ed appartiene alle “storiche” controversie legate all’innovazione tecnologica, o al protendersi verso il futuro. Oggetto di questi dibattiti sono stati molti strumenti o attrezzi dei quali, adesso, non penseremmo neanche lontanamente di liberarcene.
Qui la questione è modernissima e risale a pochi anni fa a partire dai primi telefonini con fotocamera (io nel 2004 avevo un Ericsson T610, ma ho letto che il primo è stato un Sanyo del 2002) per finire a smartphone come l’ultimo Nokia (Lumia 1020) con 41 megapixel.
Certo non fanno tutto i megapixel, ma il problema non riguarda la tecnica, per quelle ci sono le classiche Reflex o le EVIL, quanto un uso più diffuso e più intensivo delle immagini che hanno fatto crollare il mercato delle compatte digitali in favore degli smartphone.
La necessità è quella di scattare e pubblicare la foto immediatamente su Facebook, per esempio, a volte utilizzando simpatici “effetti” o veloci filtraggi come quelli di Instagram (con 130 milioni di utenti attivi al mese nel mondo, 45 milioni di foto pubblicate al giorno, circa 8.500 like e 1.000 commenti al secondo); tant’è che Samsung da un po’ cerca di creare un nuovo mercato di compatte con wi-fi intregrato.  Non credo, però, che questa sia la strada giusta per aumentare il mercato dell’immagine digitale o meglio, penso che questa strada non esista neanche e che, al momento, l’unica idea “futuristica” resti quella dei Google Glass . Sarà l’idea dello sviluppo protesico a funzionare, più di qualsiasi forma di “additivazione”. Ma se anche per gli smartphone <a href="http://blog project task management software.vodafone.co.uk/2013/06/12/vodafone-unveils-the-future-of-festival-season-tech-charge-your-phone-while-you-sleep/” target=”_blank”>si può parlare di protesi, allora lo smartphone di Nokia è quello che guarda più argutamente al futuro.

GlassUp vs Google Glass

<img class="alignleft size-thumbnail wp-image-2691" alt="glassup" src="http://www team task management software.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg” width=”150″ height=”150″ srcset=”http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg 150w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-55×55.jpg 55w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-179×179.jpg 179w” sizes=”(max-width: 150px) 100vw, 150px” />L’azienda italiana GlassUp lancia un progetto alternativo ai Google Glass.
L’idea è su Indiegogo  ed ha già raccolto 26.000 dollari, l’obiettivo finale è di 150.000. I GlassUp si collegheranno allo smartphone e stenderanno davanti agli occhi e-mail, sms, aggiornamenti di Facebook, Twitter, ecc….  ma, ovviamente, non si potrà rispondere né ai messaggi né alle e-mail e tanto meno si potrà scattare una foto.
In realtà le informazioni dallo smartphone vanno agli occhiali via bluetooth e le notifiche vengono visualizzate sulle lenti.
L’ideatore del progetto, Gianluigi Tregnaghi (che sostiene di aver pensato agli occhiali a realtà aumentata prima di Google) sottolinea il fatto che i suoi occhiali costeranno solo 399 dollari, rispetto ai 1.500 di Google.

[via Mashable]