Quei robot come noi

jetson robotPer Aristotele esistono tre tipi di uomini: il primo è  quello che possiede la piena statura morale e vive nell’apertura della ragione e dello spirito; il secondo pur non essendo così completo da ascolto a chi ha l’autorità e il terzo invece oltre a non avere il dominio di se stesso neanche ascolta l’autorità altrui.
Per Asimov c’è un solo tipo di robot che però ubbidisce a tre leggi.
E’ possibile concludere che i tre uomini di Aristotele fabbricano quel robot e stabiliscono le tre leggi ma, ovviamente, anche no.
Un’altra ipotesi potrebbe essere che i robot si autocostruiscano (lasciando da parte questioni del tipo prima l’uovo o la gallina) e se ne freghino completamente dell’uomo.
Ecco, tutti quelli che sono propensi a quest’ultima ipotesi nel leggere di Sverker Johansson hanno sicuramente pensato a scenari apocalittici e hanno fatto bene, perché quei robot vivono con noi e tra noi e crescono con noi.
Quelli più complicati e sofisticati li riconosciamo facilmente perché fanno il “lavoro sporco”.
Chiedetelo al ragazzino che gioca a Unreal Tournament o a Call of Duty; al vecchio costruttore di siti che semina esche per i Crawler; o a qualcuno che ha a che fare con certi centri di ricerca.  A quelli più semplici, o comuni, non ci badiamo più, sono ormai mischiati a noi come ultracorpi, e neanche riusciamo più a immaginare un’altra esistenza senza di loro.
Se non la prendiamo troppo da lontano (il primo utensile) e neanche troppo da vicino (Curiosity), restando sul pezzo, possiamo chiederci in quanti usino un correttore ortografico,  non clicchino per cercare sinonimi o non si facciano ancora guidare da quel vecchio T9.
Sono questi i nostri robot e pure Johansson ha trovato a chi far fare quel maledetto “lavoro sporco”.  Si chiama Lsjbot ed è un piccolo robot che per lui ha scartabellato milioni e milioni di informazioni digitali (database e fonti varie) per poi confezionare nuove voci su Wikipedia.
I puristi con la penna d’oca possono stare tranquilli perché tutte le voci create in modo automatico sono ben evidenziate da Wikipedia che crea anche elenchi di testi creati da bot in attesa di correzione.

Certo gli errori non mancano mai. Per esempio aver utilizzato, nella programmazione di Lsjbot, solo informazioni registrate in alfabeto latino ha fatto scartare al bot tutte le informazioni, pur molto pertinenti, scritte in cirillico.
Ma si sa, gli errori possono capitare e se “errare è umano” ecco che anche i bot sbagliano.

La rete obliqua di FreedomBox

Sono in molti quelli che hanno l’impressione che internet sia un mare ingovernabile per natura e che non obbedisca a nessuna legge conosciuta. Se provi a chiedere notizie sulla libera informazione nella rete una buona percentuale risponde che internet è senza censura, per definizione, e che le notizie la attraversano libere e leggere come farfalle.
Poi ci sono quelli che riempiono culturalmente il concetto di “rete sociale” attraverso nuove dinamiche di organizzazione politica. Pensiamo a movimenti come  onda viola  che hanno usato la rete per veicolare velocemente idee e dibattiti o a chi, come il M5S, ne ha fatto un’impalcatura strutturale del proprio movimento.
Insomma le esperienze sembrano portare verso una certa idea orizzontale di rete o almeno obliqua.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza tecnica con reti e domini sa bene, invece, che la loro struttura è completamente verticale e rispetta un’indispensabile gerarchia a piramide (dall’ISP al rapporto tra server e client).  Se ci si addentra nella proprietà e nel controllo delle vie di comunicazione, come fa chi si occupa di geopolitica, la piramide diventa ancora più acuta.
Quindi chi parla di libertà in rete si riferisce, probabilmente, a piccoli fenomeni di dettaglio e tralascia le grandi dimensioni di macro-mediazione. Non a caso c’è che cita il Panopticon per definire il “lavoro sporco” di chi amministra i grandi hub di connessione. Se ci sono padroni si può anche fare come la Cina e se la Cina può spegnere Internet perché non dobbiamo farlo anche noi, hanno detto i democratici americani pensando all’Internet Kill Switch.
Insomma sembra che Internet non sia  proprio il paradiso, come sostiene Geert Lovink;  sarà il tempo di liberarlo?
Ovviamente non nel senso che qualche multinazionale intende quando pensa al raggio della torta, ma in quello di un possibile allargamento di struttura e sovrastruttura o meglio di una  grande diffusione sul territorio di nodi indipendenti di connessione.
Più o meno come qualcosa di cui ho già accennato qui, parlando di reti mash.
Un’idea è già venuta in mente a Eben Moglen, un professore della Columbia University che anni fa ha immaginato una piccola scatoletta che liberasse la connessione. E’ il FreedomBox, un mini server con un chip a bassa potenza che come un piccolo caricabatteria per cellulare si infila nella presa elettrica e trasforma ogni cittadino in un provider di se stesso (ma anche di altri).
Secondo Moglen quando il progetto sarà completo e diffuso ci si renderà liberi con la modica spesa di 29 dollari.
FreedomBox è un progetto collaborativo che grazie alla Debian community sta raggiungendo buoni risultati e fa ben sperare per il futuro.
La Fondazione che sostiene il progetto FreedomBox è guidata, ovviamente, da Eben Moglen con la collaborazione di Bdale Garbee  e di Yochai Benkler.

Ninux e la rete libera

map-ninuxE’ dagli inizi degli anni duemila che nelle aree rurali americane si collegano tra loro scuole, uffici e abitazioni  per condividere servizi vari tra cui internet che diventa bene comune grazie all’abbattimento dei costi di connessione.
Stiamo parlando di una infrastruttura, una sorta di “maglia” sociale, i cui “punti” sono i cittadini coinvolti nella rete. Questa maglia è appunto la rete mesh e dei suoi nodi (punti) e ovviamente senza il wireless sarebbe stato tutto molto più complicato.
Certo di tipi di connessione ce ne sono altri ma il vantaggio di queste reti risiede nella semplice idea che essa sia libera e indipendente dai suoi stessi nodi, nel senso che l’affidabilità della rete non viene compromessa dal malfunzionamento di un suo punto. Ogni nodo conserva al proprio interno tutta la memoria e la storia tecnologica della rete e indirizza semplicemente “pacchetti” ai nodi vicini.
Queste reti sono costituite da antenne wi-fi che dai tetti delle abitazioni trasmettono ad alta frequenza radio e con ridotte emissioni elettromagnetiche. La loro realizzazione aderisce a un modello di sviluppo di condivisione dal basso dove i cittadini sono i soli proprietari e vi partecipano,  più che con i soldi, con la volontà di generare una comunità connessa. Ogni partecipante è responsabile del proprio nodo con la messa a disposizione dell’apparato di rete ricevendone in cambio servizi telefonici (VoIP), gaming, webmail, scambio di contenuti e accesso a Internet.  Anzi nella comunità Ninux si parla proprio della creazione di un nuovo pezzo di Internet con l’Autonomous System n° 197835.
L’hardware utilizzato è abbastanza economico, viene consigliata una lista della spesa per non sbagliare, e un embedded con poca RAM e qualche mega di memoria su cui far girare un firmware (Ubiquiti AirOS o Openwrt) modificato appositamente dalla comunità.
Loro ci tengono a sottolineare che “la parte più importante della rete sono le persone che la compongono” e sulla Mapserver ci si può fare un’idea della diffusione e/o potenzialità della rete. La community mette comunque a disposizione le proprie esperienze e il proprio saper fare condividendo il tutto attraverso mailing list,  wiki e un blog  (oltre all’ovvia presenza sui social).
Se tra gli obiettivi della community Ninux c’è anche la risoluzione di situazioni di Digital Divide la stessa filosofia ha ispirato, dal lontano 2008, la lucanissima rete Neco di Vietri di Potenza che, sempre attraverso una rete mesh con circa 30 nodi, offre connettività a costi popolari. Con una quota associativa annua di 90 euri si può usufruire della connettività Internet e di servizi offerti nella intranet.
Certo la filosofia di base non è la stessa di Ninux ma è meglio di niente.

Google hacking per ricerche avanzate

Parlando  di sicurezza off-line e on-line (per certi aspetti la differenza è un nonsense) mi sono imbattuto, con sorpresa, in quelle incancrenite definizioni del linguaggio “alla buona” alimentato  dai comunicatori all’arrembaggio. Una di queste riguarda ancora (ecco la sorpresa) l’idea che con internet siamo in guerra e il nostro nemico si chiama “hacker”.
Io non so se non riuscito a far comprendere bene la differenza che passa tra un hacker e un cracker ma ho insistito molto sul significato di hacking.
Le cose da dire erano tante e non poteva bastare quell’oretta di seminario e poi l’intento  era divulgativo e serviva a dare delle piccole informazioni di orientamento con l’unico scopo di sottolineare il senso del “buon senso” nell’affrontare le cose in digitale.
Per quelli che mi ha chiesto come “cercare la roba in internet” mi son venute in mente due semplici suggerimenti:
1) avere la pazienza di sforzarsi nell’immaginare meglio le parole da trovare e di non accontentarsi immediatamente dei primi risultati e comunque di usare un po’ di operatori in modo da migliorare la ricerca;
2) se ci si vuole sforzare un po’ di più è possibile fare hacking anche con Google usando le famose dork.
Di queste dork la definizione letterale forse vi sorprenderà, ma è stata proprio quella l’intenzione originale poiché il termine, coniato da Johnny Long, partiva proprio dal significato di “inetto o sciocco” per arrivare poi a quello di “persona che cerca informazioni riservate nella rete”.
In soldoni le dork servono a fare ricerca avanzata con Google e sono molto utilizzate dagli esperti di sicurezza informatica  per individuare le vulnerabilità dei siti web (anche uno script kiddie può utilizzare un exploit trovando la pagina che contiene la vulnerabilità proprio attraverso le dork).
Di recente Google sta limitando le ricerche con le dork (se si insite troppo in un breve lasso di tempo vi uscirà la schermata di errore), ma le potenzialità di ricerca restano comunque insuperabili.
Ecco quelle più usate:
site [ricerca solo i file nel dominio];
intitle [ricerca i documenti con quel titolo];
allintitle [trova i documenti con certe parole nel titolo];
inurl [trova pagine che hanno una certa parola nell’URL];
allinurl [trova pagine che contengono una certa parola nell’URL];
filetype [trova un file con l’estensione desiderata];
link [trova siti con un link specificato];
allintext [trova documenti che contengono una determinata parola nel testo];
“ ”   [trova frasi esatte];
inanchor [trova negli anchor i link presenti nelle pagine];
intext [trova pagine che contengono quella parola specifica];
cache [trova le pagine che Google ha indicizzato nella cache];
define [restituisce la descrizione di un termine ed i link correlato];
related [trova pagine simili a quella specificata];
info [restituisce informazioni e link di uno specifico URL].
Se volete provare a fare ricerca “avanzata” in modo facilitato provate qui, se invece volete sbizzarrirvi e rimanere aggiornati andate sul sito di exploit e non ve ne pentirete.

Un iPad per la stampante 3D

  Sono in tanti quelli che si cimentano in assemblaggi o realizzazioni di stampanti 3D, diciamo, low cost che a parte  l’appagamento derivante dal semplice montaggio (fatte le dovute proporzioni, più o meno la stessa che deriva  dall’assemblare un comodino dell’Ikea) procura cocenti delusioni come risultato.

 Sembra che uno dei problemi sia il “letto di stampa“.  Spesso l’oggetto vi rimane incastrato o non si attacca proprio e molti  usano il pyrex (o vetro borosilicato), di diversi spessori,  che con il suo basso coefficiente di dilatazione termica,  permette un più sicuro riscaldamento/raffreddamento. Accade però, anche in questo caso, che spesso le parti rimangano  attaccate e si strappino nel tentativo di staccarle dal letto di vetro, infatti viene anche aggiunto il nastro di Kapton anche  se con scarsi risultati.

James Hobson suggerisce, inceve, di utilizzare il Gorilla Glass della Corning come letto di stampa che è molto resistente ai graffi, agli urti, al calore ed è anche flessibile. Ma c’è un problema:  non lo trovi così facilmente a meno che non ti va di sacrificare il tuo iPad per utilizzarne lo schermo.

Niente paura, non è necessario rompere il tuo iPad, basta acquistare anche solo schermo su eBay e con circa 15 dollari il gioco è fatto.

Certo non senza qualche problema per il montaggio ma, assicura Hobson, ne vale la pena.

Gambizzami una photo

[Joshua Held]

[Joshua Held]

Il disegno di Held qui a fianco è una sintesi constatativa, che solo i disegnatori sanno fare, del senso o dell’uso della foto condivisa. Ovviamente scattata con lo smartphone, ché tanto già sta in mano e mentre controllo l’ora, la posta, il calendario, leggo un messaggio e faccio qualche giochino, ne approfitto anche per segnalare la mia presenza in un bel posto e, per evitare di non rendere bene l’idea, condivido subito la foto “istantanea” sulla mia bacheca di Facebook.  Certo, spesso, se mi fotografo le gambe o le unghie dei piedi può anche voler dire che mi sto annoiando o non so cos’altro fare; resta comunque il senso di dare (condividere) l’immagine, l’idea figurata, del proprio stato.
Lo diceva Carlo Foggia su La Stampa un po’ di giorni fa che il futuro delle foto è nella condivisione.
Il problema, o nodo del dibattito, resta sempre quello tra macchine fotografiche, fotocamere e smartphone ed appartiene alle “storiche” controversie legate all’innovazione tecnologica, o al protendersi verso il futuro. Oggetto di questi dibattiti sono stati molti strumenti o attrezzi dei quali, adesso, non penseremmo neanche lontanamente di liberarcene.
Qui la questione è modernissima e risale a pochi anni fa a partire dai primi telefonini con fotocamera (io nel 2004 avevo un Ericsson T610, ma ho letto che il primo è stato un Sanyo del 2002) per finire a smartphone come l’ultimo Nokia (Lumia 1020) con 41 megapixel.
Certo non fanno tutto i megapixel, ma il problema non riguarda la tecnica, per quelle ci sono le classiche Reflex o le EVIL, quanto un uso più diffuso e più intensivo delle immagini che hanno fatto crollare il mercato delle compatte digitali in favore degli smartphone.
La necessità è quella di scattare e pubblicare la foto immediatamente su Facebook, per esempio, a volte utilizzando simpatici “effetti” o veloci filtraggi come quelli di Instagram (con 130 milioni di utenti attivi al mese nel mondo, 45 milioni di foto pubblicate al giorno, circa 8.500 like e 1.000 commenti al secondo); tant’è che Samsung da un po’ cerca di creare un nuovo mercato di compatte con wi-fi intregrato.  Non credo, però, che questa sia la strada giusta per aumentare il mercato dell’immagine digitale o meglio, penso che questa strada non esista neanche e che, al momento, l’unica idea “futuristica” resti quella dei Google Glass . Sarà l’idea dello sviluppo protesico a funzionare, più di qualsiasi forma di “additivazione”. Ma se anche per gli smartphone <a href="http://blog project task management software.vodafone.co.uk/2013/06/12/vodafone-unveils-the-future-of-festival-season-tech-charge-your-phone-while-you-sleep/” target=”_blank”>si può parlare di protesi, allora lo smartphone di Nokia è quello che guarda più argutamente al futuro.

GlassUp vs Google Glass

<img class="alignleft size-thumbnail wp-image-2691" alt="glassup" src="http://www team task management software.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg” width=”150″ height=”150″ srcset=”http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg 150w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-55×55.jpg 55w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-179×179.jpg 179w” sizes=”(max-width: 150px) 100vw, 150px” />L’azienda italiana GlassUp lancia un progetto alternativo ai Google Glass.
L’idea è su Indiegogo  ed ha già raccolto 26.000 dollari, l’obiettivo finale è di 150.000. I GlassUp si collegheranno allo smartphone e stenderanno davanti agli occhi e-mail, sms, aggiornamenti di Facebook, Twitter, ecc….  ma, ovviamente, non si potrà rispondere né ai messaggi né alle e-mail e tanto meno si potrà scattare una foto.
In realtà le informazioni dallo smartphone vanno agli occhiali via bluetooth e le notifiche vengono visualizzate sulle lenti.
L’ideatore del progetto, Gianluigi Tregnaghi (che sostiene di aver pensato agli occhiali a realtà aumentata prima di Google) sottolinea il fatto che i suoi occhiali costeranno solo 399 dollari, rispetto ai 1.500 di Google.

[via Mashable]

Ultimo nato nella Republic Of Gamers

asusscreen-shot-2013-06-04-at-12.21.41-pmmatIl lato gaming della ASUS è pronto con un nuovo PC dalle altissime prestazioni. Si tratta del Poesidon Formula One:  schede grafiche NVIDIA GeForce GTX 700, raffreddamento ibrido con Asus CoolTech (pettinatura dei ventilatori che con un disegno unico forzano l’aria sul dissipatore in più direzioni) e un sistema liquido che, dicono, riduca la temperatura di esercizio fino a 31 gradi Celsius, dando campo libero all’overclock. La scheda madre è l’ultima nata in casa ROG la Maximus VI e l’audio con uscita per cuffie 120dB e amplificatore 600 Ohm è assicurato dalla  SupremeFX.
Prezzo? boh.

[via engadget]

La sedia del potere

Darth Vader aveva la sua meditazione pod, gli ingegneri di Prometeo avevano le loro stazioni di controllo utero-like, il Capitano Kirk la sedia del capitano… I personaggi della fantascienza si distinguevano per i loro posti esclusivi che significavano il potere.  Esistono posti simili nella realtà?  La MWE Lab ci prova con la “Emperor 1510 LX”.
E’ il futuro ambiente di lavoro: un monitor di supporto a scomparsa in grado di supportare fino a cinque monitor (tre da 27 pollici e due da 19 pollici), un sedile reclinabile, un sistema audio Bose e rivestimenti in pelle italiana. Con $ 21.500 vi portate a casa una stazione di lavoro che sembra n veicolo spaziale, e forse con il prezzo ci siamo quasi.

[via arstechnica]

Valve e Microsoft tattiche di separazione

Cos’é Valve? E’ una società che oltre a produrre qualche gioco ha sviluppato e gestisce la piattaforma Steam per la distribuzione digitale dei giochi, la gestione dei diritti digitali e il multiplayer. E’ in funzione dal 2003 e ad oggi conta su circa 40 milioni di utenti; gestisce e distribuisce oltre 1500 videogiochi soltanto tramite internet.

Per fare tutto questo Valve si è sempre appoggiata al colosso Microsoft (e al suo S.O.) con il quale aveva stretto un fraterno e solido accordo.  Ma come nelle buone famiglie si litiga e ci si separa e anche per Valve e Microsoft sembra giunta l’ora del divorzio.

L’ora dell’autonomia, a nostro avviso, è scattata prima con il gran parlare intorno alla produzione di una consolle in proprio (la Steam Box) e poi con il lancio del progetto linux.

In realtà è da un bel po’ di tempo che nella comunità di Steam si parlava di questo ma da qualche mese chi aveva compilato l’apposito form sul sito di Valve, ha già ricevuto via e-mail l’autorizzazione a scaricare e installare la nuova beta di Steam per Linux.

Insomma la strada si è aperta.

Multi-touch, seconda curva a destra

Scrive Alex Williams che “la prossima generazione di applicazioni richiederanno agli sviluppatori di pensare di più dell’essere umano”.  Se molti di noi si aspettano già domani un ampliamento della presenza di display-touch (dai tavoli ai piani da lavoro, dai comodini agli specchi del bagno) e dei comandi vocali saranno sorpresi (forse) da una piccola rivoluzione in termini di complessità.

Uno dei primi aggeggi a diventare obsoleto sarà il buon vecchio mouse: i 3 o più tasti e rotellina scroll lasceranno il posto a un multi-touch che avrà bisogno delle dita di entrambe le mani. Gli oggetti digitali saranno manipolati ma con la sensazione tattile dei nostri polpastrelli e della nostra pelle.

Si lo so che son parole già sentite da vent’anni, ma sapere che team come quello di Microsft, solo per citarne qualcuno, è al lavoro per tracciare la strada delle nuove interfacce utente è una bella speranza.