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Potenza felix
Foursquare è una smart per la city
Possibile che Foursquare sia ancora inesplorato? Forse si e Natalia D’angelis riflette su un rapporto possibile tra Fourquare e la Pubblica Amministrazione; ovvero sul fatto che la PA può aprirsi meglio al cittadino offrendo una comunicazione più efficace.
Per esempio, dice Natalia, un Comune attraverso una Brand Page su Foursquare può promuovere meglio il turismo locale attraverso coloro che quella città conoscono, scoprono e raccontano ad altri.
Si può raccontare la storia e la cultura di un luogo attraverso peculiarità personali, foto, itinerari, eventi; oppure si possono suggerire cose da fare o da vedere creando liste di luoghi o locali organizzandoli per genere o per argomento. In questo modo si realizzerebbero delle vere e proprie guide digitali per smartphone, senza alcuna necessità di studiare apposite app e poi diffonderle (Foursquare è un social network con qualche milione di utenti).
Per rendersene conto basta dare uno sguardo al social e se volete trovare qualche vostro amico potrete sempre usare Facebook; anzi giacché ci siete potete unirvi al gruppo di lucani su Facebook che usano Fourquare: https://www.facebook.com/groups/foursquare.basilicata/.
🙂
Cultura hacker ed ecosistema delle conoscenze
Si è appena concluso l’Internet Festival 2013 e tra i tanti resoconti voglio lasciare il mio, ma minimo, da partecipante parziale.
Sono arrivato a Pisa venerdì 11 e dopo aver corso per non perdermi la presentazione de “L’amore è strano”, ma non per Sterling quanto per salutare un’amica, grazie a mio figlio che studia in questa città, seguo un evento fuori dalla manifestazione in un’aula universitaria di fronte al dipartimento di matematica. Qui il gruppo Exploit ha organizzato la presentazione del libro “Biohaker” con l’autore, Alessandro Delfanti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico,.
Delfanti racconta una nuova visione della ricerca scientifica, dove “nuovo” sta per hacker; una cultura che oggi sta influenzando fortemente l’etica scientifica e in particolare la biomedicina, attraverso l’inclusione dei fondamenti culturali dell’etica hacker e del software free.
Nella società dell’informazione dove la lotta per (l’accesso) l’utilizzo del sapere è fondamentale, la cultura hacker si dimostra fondamentale nel processare una pratica “aperta”.
Basta poco per rendersi conto che senza dati pienamente accessibili non c’è ricerca. Ne sono un esempio il progetto di Craig Venter sul genoma, la messa in rete della sequenza del virus dell’aviaria di Ilaria Capua e la cura open source di Salvatore Iaconesi.
Delfanti e Iaconesi sono certi che l’Open, grazie alla rete e alle sue capacità di produzione della conoscenza, sia di fatto la più grossa opportunità per realizzare un sapere alternativo.
Si tratta di superare le organizzazioni burocratiche, (università, sistemi sanitari, grandi organizzazioni internazionali) ancora incapaci di comprendere le potenzialità della rete, per valorizzare quell’ecosistema fatto da avanguardie (come ad esempio i biohacker) che praticano la cultura della libera circolazione digitale di dati e di ricerche.
Il ragionamento è continuato (anche se più superficialmente) con un respiro internazionale sabato mattina alla Scuola Normale in un panel con Delfanti, Ravi Sundaram, Alex Giordano, Jaromil, Adam Arvidsson, Maitrayee Deka, e Carlo Saverio Iorio.
Il concetto fondamentale che qui doveva passare era quello di “societing”: un’idea d’impresa completamente aperta, un vero e proprio network che instauri nuovi e forti legami con il sociale quale unico valore a cui attingere; come, per esempio, il progetto Rural Hub raccontato da Giordano.
La Smart City sei tu ma i sindaci non lo sanno
Dice Davide Bennato che le Buzzword più di moda oggi sono i Big Data che, a parte le motivazioni economiche, rappresentano un “vero cambiamento del modo con cui gestire i processi sociali, economici e culturali”. E’ ovvio che quest’idea va inevitabilmente connessa a quella di Smart City. Senza una lettura (intelligente) dei dati del traffico, dei rifiuti, dell’energia, dei trasporti, ecc…, è difficile poter palare di città intelligenti.
Proprio per farsi un’idea di cosa significhi tutto questo la General Eletric ha realizzato una miniserie per raccontare come la città di Datalandia gestisce intelligentemente i propri dati salvando i cittadini da vampiri e alieni.
Quello che mi colpisce di più nell’idea della General Eletric, oltre al simpatico sequel, è la possibilità di diventare un personaggio dei video, proponendo la propria faccia e il personaggio attraverso una pratica interfaccia grafica.
Questa cosa vi sembrerà pure una cavolata della strategia della comunicazione ma viene, forse inconsapevolmente, sintetizzata l’essenza della città intelligente. Se guardandovi intorno scorgete talvolta sindaci tuttofare che non si preoccupano delle idee altrui perché troppo impegnati a sviluppare energicamente le loro, preoccupatevi voi perché è un danno quasi irreparabile. Se nella vostra città si parla di contenitori di hub, di nodi e di collegamenti, ma non trovate un modo per dire la vostra allora v’é capitato il sindaco-manager, quello che usa la fascia tricolore come una falce per mietere solo consensi politici “interessati”.
Se la Smart City dev’essere l’insieme delle reti interconnesse (trasporti, elettricità, edifici, relazioni sociali, acqua, rifiuti, ecc…) e di interventi tesi a una maggiore sostenibilità a 360 gradi, questo deve significare necessariamente una maggiore qualità dei servizi, in uno, una migliore qualità della vita. Non possono bastare solo i dati e la loro lettura; ciò che rende intelligente il suffisso “smart” è la capacità di creare interazioni stabili ed efficienti tra cittadino e amministrazione. In una parola sola: non è il cittadino che si adatta alla città ma, al contrario, la città che si adatta al cittadino.
Gambizzami una photo
Il disegno di Held qui a fianco è una sintesi constatativa, che solo i disegnatori sanno fare, del senso o dell’uso della foto condivisa. Ovviamente scattata con lo smartphone, ché tanto già sta in mano e mentre controllo l’ora, la posta, il calendario, leggo un messaggio e faccio qualche giochino, ne approfitto anche per segnalare la mia presenza in un bel posto e, per evitare di non rendere bene l’idea, condivido subito la foto “istantanea” sulla mia bacheca di Facebook. Certo, spesso, se mi fotografo le gambe o le unghie dei piedi può anche voler dire che mi sto annoiando o non so cos’altro fare; resta comunque il senso di dare (condividere) l’immagine, l’idea figurata, del proprio stato.
Lo diceva Carlo Foggia su La Stampa un po’ di giorni fa che il futuro delle foto è nella condivisione.
Il problema, o nodo del dibattito, resta sempre quello tra macchine fotografiche, fotocamere e smartphone ed appartiene alle “storiche” controversie legate all’innovazione tecnologica, o al protendersi verso il futuro. Oggetto di questi dibattiti sono stati molti strumenti o attrezzi dei quali, adesso, non penseremmo neanche lontanamente di liberarcene.
Qui la questione è modernissima e risale a pochi anni fa a partire dai primi telefonini con fotocamera (io nel 2004 avevo un Ericsson T610, ma ho letto che il primo è stato un Sanyo del 2002) per finire a smartphone come l’ultimo Nokia (Lumia 1020) con 41 megapixel.
Certo non fanno tutto i megapixel, ma il problema non riguarda la tecnica, per quelle ci sono le classiche Reflex o le EVIL, quanto un uso più diffuso e più intensivo delle immagini che hanno fatto crollare il mercato delle compatte digitali in favore degli smartphone.
La necessità è quella di scattare e pubblicare la foto immediatamente su Facebook, per esempio, a volte utilizzando simpatici “effetti” o veloci filtraggi come quelli di Instagram (con 130 milioni di utenti attivi al mese nel mondo, 45 milioni di foto pubblicate al giorno, circa 8.500 like e 1.000 commenti al secondo); tant’è che Samsung da un po’ cerca di creare un nuovo mercato di compatte con wi-fi intregrato. Non credo, però, che questa sia la strada giusta per aumentare il mercato dell’immagine digitale o meglio, penso che questa strada non esista neanche e che, al momento, l’unica idea “futuristica” resti quella dei Google Glass . Sarà l’idea dello sviluppo protesico a funzionare, più di qualsiasi forma di “additivazione”. Ma se anche per gli smartphone <a href="http://blog project task management software.vodafone.co.uk/2013/06/12/vodafone-unveils-the-future-of-festival-season-tech-charge-your-phone-while-you-sleep/” target=”_blank”>si può parlare di protesi, allora lo smartphone di Nokia è quello che guarda più argutamente al futuro.
GlassUp vs Google Glass
<img class="alignleft size-thumbnail wp-image-2691" alt="glassup" src="http://www team task management software.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg” width=”150″ height=”150″ srcset=”http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-150×150.jpg 150w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-55×55.jpg 55w, http://www.vitocola.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/glassup-179×179.jpg 179w” sizes=”(max-width: 150px) 100vw, 150px” />L’azienda italiana GlassUp lancia un progetto alternativo ai Google Glass.
L’idea è su Indiegogo ed ha già raccolto 26.000 dollari, l’obiettivo finale è di 150.000. I GlassUp si collegheranno allo smartphone e stenderanno davanti agli occhi e-mail, sms, aggiornamenti di Facebook, Twitter, ecc…. ma, ovviamente, non si potrà rispondere né ai messaggi né alle e-mail e tanto meno si potrà scattare una foto.
In realtà le informazioni dallo smartphone vanno agli occhiali via bluetooth e le notifiche vengono visualizzate sulle lenti.
L’ideatore del progetto, Gianluigi Tregnaghi (che sostiene di aver pensato agli occhiali a realtà aumentata prima di Google) sottolinea il fatto che i suoi occhiali costeranno solo 399 dollari, rispetto ai 1.500 di Google.
[via Mashable]
Indie games
La parola indie, come per tutti i campi in cui viene impiegata, sta per independent e rappresenta un approccio autonomo (e indipendente dall’industria) di sviluppare e produrre. Lo stesso vale per i giochi, dove piccoli amatori producono in proprio un gioco tenendosi a debita distanza dalle software house che impiegano molte risorse e monopolizzano il mercato.
All’inizio erano singoli autori che sviluppavano a proprie spese un gioco, distribuendolo, poi, “alla buona” e magari cercando di racimolare almeno le spese.
Il loro valore aggiunto, nel tempo, è stato quello di innovare il settore della distribuzione digitale e di dribblare le major. Anche se poi giochi come Braid, World of Goo, e il più famoso Minecraft, sono diventati un successo anche finanziario.
Proprio perché il mondo indie si è esteso a dismisura oggi ci si trova di fronte a due tendenze ben separate di questa “filosofia digitale” che possiamo, sommariamente, dividere in quella purista e quella artigiana.
L’Indie puro è sinonimo di amore per la realizzazione del gioco; chi lo realizza lo fa per sviluppare una propria idea senza intromissioni e intermediazioni di nessun tipo, né tecniche e tanto meno economiche (per intenderci neanche quelle sulla piattaforma su cui dovrà poi girare il gioco).
La corrente artigianale, invece, prevede soltanto alcune caratteristiche sommarie relativamente all’impiego delle risorse umane e finanziarie: l’importante è essere in pochi e con un badget limitato. Da quest’idea sono nate piccole o medie software house che si definiscono indie come, per esempio, Codemasters.
Ma è bene non confondere il concetto di indie con quello di “professionalità” perché, altrimenti parleremmo di qualcos’altro: un piccolo team di sviluppatori (anche uno solo) che segue canonicamente una linea professionale di produzione sarà sempre e soltanto una piccola azienda e basta.
Oggi il campo di applicazione è fortemente orientato verso le piattaforme di crowdfunding (che è un’idea tutta italiana, se sei curioso leggi qui), dove piccoli e/o singoli autori lanciano la loro idea di progetto unitamente a una raccolta di finanziamenti. Qui l’idea, meglio se corredata di un progetto di fattibilità, si costituisce come una vera e propria campagna di raccolta fondi i cui finanziatori non sono nient’altro che i futuri utilizzatori del gioco. Anche qui l’aria si è rarefatta, soprattutto per via della sicurezza degli utilizzatori e oggi, si può dire, che le piattaforme più sicure e più utilizzate sono un paio: Indiegogo e Kickstarter.
Si imposta il progetto, si lancia la campagna di finanziamento, che dovrà prevedere l’obiettivo economico da raggiungere e il tempo stabilito per il suo raggiungimento, e si pagano i costi per l’uso della piattaforma e per il “fallimento” del progetto (più o meno, in ordine, dal 4% al 9% dell’importo del progetto).
Beh, non si pensi che l’industria sia stata a guardare, tutt’altro, sono più di dieci ani che questa pesca autori e progetti nell’universo indie che, in questo caso, funzionano come da startuppers. Si pensi, ad esempio, all’Independent Games Festival dove di indipendente è rimasto soltanto il nome.
La città intelligente è la tua città
Se penso alla mia città nel futuro vedo una piccola città con prestazioni urbane altamente sviluppate, dove l’infrastruttura “forte” cede il passo a una più leggera e più ramificata.
Vedo una città non privatamente astratta, ma socialmente partecipata, con una rete fitta di relazioni che elevano la sommatoria delle proprie conoscenze.
In una sola parola vedo una città “intelligente”.
Quest’immagine, evidentemente, è così generalmente condivisa che l’Unione Europea ha messo a punto una particolare strategia per favorire la crescita urbana delle città “in senso intelligente”.
Nemmeno l’intelligenza di cui parla la UE è un concetto astratto, ma una precisa direzione di sviluppo per misurare il “quoziente urbano”. Il futuro smart va su binari precisi e la tecnologia è vitale, perché “permette a tutti i cittadini di interagire in modo trasversale e di auto-organizzarsi”.
In fondo, come ci ricorda Alberto Cottica, “le città sono il nostro futuro come specie”.
Del “perché l’innovazione e il digitale sono una grande occasione” si parlerà a Potenza, dal 14 al 16 febbraio, nel Teatro Stabile della città.
Il programma vedrà la partecipazione, a diversi livelli, di
Giuseppe Granieri,
Carlo Ratti,
Luca De Biase,
Stefano Maruzzi,
Giovanni Boccia Artieri,
Tullio De Mauro ,
Gianni Biondillo,
Derrick De Kerckhove.
Come scrivere un post?
Perché c’è sempre qualcuno che ti dice come scrivere un post?
Ci pensavo mentre leggevo questo che ne elenca 20 di consigli e ho ricordato che nei blog ci si occupa della “questione” da tanti anni.
Se, per esempio, provate a fare questa richiesta a Google, riceverete una grandissima quantità di risultati (nel mio caso circa 157 mila in 0,28 secondi) con un’alta percentuale di pertinenza alla richiesta.
Troverete decaloghi (ma anche cose svelte in tre punti) e consigli che spaziano dalle pratiche ammiccanti alle tecniche stilistiche e di marketing che pretendono anche un rigore scientifico.
L’efficacia è il risultato atteso più pubblicizzato: ovviamente si consiglia di badare all’effetto che il post deve cercare. Anche se è lapalissiano (a cos’altro può badare chi scrive in pubblico?) è quello che consigliano tutti. Massì, la voglia d’esser visitati e di attirare navigatori verso le proprie pagine deve necessariamente essere nella natura stessa del blogger… anche al punto da trascurare i contenuti. Si, non scandalizziamoci adesso, i contenuti nel web sono aerei, o li acchiappi al volo o niente, o sei sull’onda o sei sommerso: come diceva un vecchio “guru” poi mettere lì la tua più bella idea ma se non te la legge nessuno è ancora così bella?
E’ vero di cattivi consiglieri ce ne sono ma fa parte del gioco.
L’unica cosa antipatica in tutti questi maestri che spiegano ai “dummies” è la ferma certezza binaria: fai così perché accadrà questo e poi questo se vuoi quest’altro.
E’ un linguaggio binario (due stati, due numeri) che si è esteso al comportamento.
Anche i bar camp si sono trasformati da luoghi di discussione autorganizzanti a luoghi di veloce esposizione, dove devi scartare o accettare di primo acchito ciò che vuoi (forse) approfondire.
Tale comportamento non è ovviamente pensiero, non c’è un pensiero umano binario in questi termini, ma è struttura o sovrastruttura. Potrebbe essere l’esasperazione della semplicità, della ricerca delle risposte facili, più probabili, più possibili o più immaginabili. Anche l’esplorazione del web è divenuta banale in cambio di una ricerca efficace e veloce. Ci importa se il nostro motore di ricerca conosce già le nostre domande? Certo che no.
Allora, per ritornare alla domanda iniziale, voglio dare un consiglio anch’io dopo anni da blogger, più o meno effettivi, e voglio farlo in un solo punto, con una piccola domanda e una breve risposta.
Domanda: se sei solo su una barchetta in mezzo all’oceano e non hai nient’altro che le braccia per i remi e la mente per le decisioni che fai?
Consiglio: fai un po’ come cazzo di pare.
analogical and beyond
Il nostro rapporto con le persone non è banalmente analogico anzi tutti i nostri sforzi sono protesi verso il digitale (sia con le persone che con le cose) anche quando pensiamo che siano di forza contraria.
Tendiamo a digitalizzare di più il rapporto con le cose che non con le persone? Credo di no. In realtà abbiamo un rapporto mediano a 360 gradi e tendiamo a tirare le cose e le persone un po’ di qui e un po’ di la: mentre stridono ai nostri sensi quelle strane ibridazioni come il famoso “pennino per l’iPad” (sul quale scherziamo sempre) ci abbandoniamo in nostalgiche discussioni su consolidati procedimenti artigianali (che producono manufatti “che rimarranno nel tempo”) o intorno a gustosi sapori artigianali “di una volta”.
Qualche anno fa ho assistito a una piccola discussione tra alcuni produttori veneti di Merlot circa l’uso delle botti di rovere o di acciaio inox per la conservazione del vino. Ovviamente quelli che sostenevano l’acciaio avanzavano motivazioni di carattere pratico e igienico ma venivano aspramente rimproverati, se non “scomunicati”, dai sostenitori del legno. Proprio mentre sorseggiavamo un giovane Merlot io cercai di ricordare, a quei pochi che mi ascoltavano, che nella storia ci sono sempre stati passaggi, svolte, slanci in avanti e lo stesso percorso ha fatto pure il vino che non è sempre stato conservato in botti di legno, anzi il loro trasposto è avvenuto per secoli in anfore di terracotta adagiate sulla sabbia nelle stive delle navi per poi essere conservato a destinazione in orci sempre di terracotta (la stessa cosa si faceva con l’olio). Il problema nasceva nel trasporto via terra che quando andava bene portava a destinazione il 50% del prodotto. Grazie ai Celti prima e ai tedeschi poi ci siamo ritrovati con le botti di legno sia per il trasporto che per la conservazione (la più famosa, quella di Heidelberg, viene citata in “Moby Dick”).
Comprensibilmente insieme al contenitore si è trasformato anche il contenuto: il vino ha abbandonato il suo vecchio sapore e odore per acquisirne uno nuovo, forse meno apprezzato ieri ma tanto amato oggi.
Questo ragionamento mi viene in mente ora perché ieri sera, in un bel “instaperitivo”, avevamo accennato un ragionamento che poteva stare in questa scia e riguardava la differenza tra amicizie digitali e analogiche, ovvero tra persone con le quali siamo in relazione esclusivamente all’interno di un social network (che qualcuno ancora si ostina a chiamare virtuali, come se nella realtà non esistessero affatto) e quelle alle quali abbiamo stretto la mano o abbiamo messo la mano sulla spalla. Che differenza abbiamo notato? Quasi nulla. Eliminato un po’ di imbarazzo iniziale (almeno per me) chi ci era simpatico e interessante prima lo è rimasto anche dopo.
Allora, a chi ci chiede “come sarà domani?” possiamo tranquillamente rispondere che continueremo a trovare persone che continua a bere vino conservato in un’anfora, e che i nostri rapporti saranno identici ma su dimensioni (tre o più) diverse.
Così come abbiamo imparato ad apprezzare il sapore del legno per quello della terracotta, sapremo vivere i nostri rapporti presenti.
I nostri lenti ma inevitabili passi in avanti saranno fatti anche se il futuro non riusciremo a raggiungerlo mai (starà sempre più avanti e non solo per definizione).