Venite alla tenda (racconti di natale)

Credo di aver avuto all’incirca una decina d’anni quel giorno che in paese arrivò un gruppo di predicatori stranieri che vennero velocemente etichettati come “olandesi”.  Questi piantarono un grande tendone sulla “collina dell’Angelo” (così si chiamava quella parte alta del paese dove d’estate si praticava il calcio amatoriale e in autunno si svolgeva la grande fiera degli animali e del fango) e iniziarono a girare per le strade e le case del paese predicando in modo diverso un messaggio differente. Promettevano anche miracolose guarigioni a coloro che si fossero uniti alle loro “funzioni” religiose oltre a qualche piccolo regalo a chi si fosse recato “alla tenda”.

Noi ragazzini, perennemente affamati di buone e gratuite occasioni, ci precipitammo sulla collina per infilarci in quel gran tendone.

Le prime file di sedie erano già occupate da un po’ di signori anziani e qualche casalinga mentre lungo un fianco del tendone, opposto al nostro, c’erano assiepati un folto gruppetto di ragazzi,  abitanti del vicino quartiere, che da quando eravamo entrati ci guardavano in cagnesco.  Si, proprio come guardano e ringhiano quei cani che difendono il proprio osso.  

Sapevamo che era normale quell’astio nei nostri confronti. Non si era soliti sconfinare, senza ragione, nei quartieri altrui e per molto meno si scatenavano guerre. Ad ogni ragazzo era concessa grande autonomia e padronanza di movimenti soltanto nel proprio quartiere o in alcune aree franche come la piazza del paese. C’erano palizzate e confini invisibili da non valicare tranne che per alcune zone e in alcuni momenti della giornata come la mattina per le scuole o negli orari delle messe per le chiese, tutto il resto era tabù. A meno ché non si fosse accompagnati da qualche adulto e allora le cose cambiavano, il lasciapassare era assoluto.

Ma noi ce ne stavamo buoni buoni, accovacciati su un lato e molto vicini all’uscita così, se le cose si mettevano male, avremmo avuto un buon vantaggio nella corsa.

 Intanto un olandese alto e biondo, come del resto tutti gli altri, parlava, parlava e parlava in un italiano sgrammaticato e ogni tanto, indicando qualche spettatore seduto in prima fila,  diceva che era andato lì con qualche male e che dopo aver ricevuto l’influsso benefico della tenda  “era tutto passato“.  

Indicò, quindi, un anziano con il bastone seduto proprio davanti a lui e disse:

questo vecchio avere male al ginocchio, ma venuto alla tenda e tutto passato.

A quel punto il vecchio col bastone alzò il dito indice per chiedere la parola e l’olandese fece un cenno di assenso.

Si è vero m’è passato proprio tutto, disse il vecchio,  però devo dire la verità….  ho preso anche una pillola.

Non ricordo più quale fu la reazione degli olandesi che dopo qualche giorno tolsero le tende e andarono via, ma il fatto che a noi veniva da ridere e che non riuscivamo a trattenerci, quello si lo ricordo ancora.

 

Il social verticale (da Fiorello alla Canalis)

Già da un po’ di tempo era stata avvistata la presenza di star (in genere televisive) all’interno del Twitter nostrano e probabilmente la prima grande star  a lanciare i suoi primi tweet  è stata Simona Ventura. Poi pian piano tutti a seguire fino al caso eclatante di Fiorello che, in pochi mesi (o forse giorni), ha portato il fenomeno alla ribalta: se oggi al bar e negli uffici si parla anche della tweettata tra @mehcadbrooks e la @canalis (e si conosce perfino il significato di hashtag ) è sicuramente merito suo.

Il fenomeno è stato analizzato in modo serio da Giovanni Boccia Artieri al quale, ovviamente, rimando per approfondimenti vari e mi fermo, com’è il mio solito, sottolineando interrogativamente alcune questioni: 1) perché le star si infilano sui social network ?  2) Cosa ne viene ai social?

Sulla prima questione sono convinto che la “colpa” (non in senso negativo) stia tutta stipata nelle tecniche di questa nuova leva di esperti in comunicazione i quali consigliano, nelle loro strategie, di stare dentro i fenomeni sociali e di battere il ferro finché è caldo.  Si tratta di una “nuova” cultura (un nuovo vangelo che sulla scia delle vecchie sperimentazioni condotte negli USA, pone in cima alla check list la parola “marketing”) tutta incentrata sulla comunicazione pubblicitaria che, semplicemente, vede il “prodotto” come una volpe che deve abitare il pollaio (“il cliente”) e che, quindi, quando piomba nel social network deve poterne tirare fuori soltanto il succo interessante.

Sulla seconda questione, invece, credo che ai social ne vengano fuori due cose a prima vista antitetiche ma che in definitiva sono strettamente collegate tra loro. La prima è resa benissimo nel finale del post di Giovanni («la forza dirompente della Rete sta nell’aver reso i rapporti orizzontali [e che] pensare a nuove verticalità sarebbe un triste passo indietro»),  ovvero: il social sembra subire una corruzione di natura spaziale, l’orizzontalità che tende alla verticalità. La seconda è che proprio questa tendenza alla verticalità rende più popolari i social rafforzandoli proprio nella loro natura sociale proprio quando da elitari (o semi elitari) divengono popolari. Credo che il caso di Facebook spieghi meglio di mille parole quello che cerco di dire.  Il social ne vien fuori bene e meglio da queste iniezioni di “verticalità” poiché cedendo piccolissime  quote orizzontali ne riguadagna tantissime altre e con una forza propagatrice pari a quella delle onde sonore.

La morte normale

Nei primi anni ottanta studiavo  Horacio Quiroga per un seminario di letteratura iberoamericana.  Ricordo che alla fine di quel seminario ciascuno di noi studenti elaborò un breve saggio sull’autore e sui suoi racconti.   Io scrissi lungamente (con la mia piccola Olivetti) analizzando il personaggio della morte in tutti i racconti contenuti in “Cuentos de amor, de locura y de muerte“.  Sostenni che la morte, pur apparentemente in antitesi, altra ed estranea era, ossimoricamente, vitale nei suoi racconti: un po’ per fatti biografici (il padre morto in un incidente di caccia, il patrigno suicida,  due fratelli morti per la febbre tifoidea,  un amico ucciso per errore dallo stesso Quiroga e poi la moglie, lui stesso e due figli tutti  suicidi) e un po’ per genere letterario (era nota la sua ispirazione a Poe) la morte era probabilmente la vera protagonista dei suoi  racconti; ma era una morte normale che si accompagnava alla natura delle cose e degli uomini e come tale era accettata e mai rifuggita.

Queste cose mi son tornate alla mente alla notizia della morte di Lucio Magri e ho pensato (come Valentino Parlato) che certo «avevamo bisogno di lui della sua intelligenza e del suo impegno» ma che era giusto così.  Quella morte voluta e cercata  proprio come si cerca qualsiasi altra cosa.  Diceva un amico l’altro giorno: “ma cosa gli mancava? Non stava bene?”…  Ma perché bisogna essere disperati per desiderare di morire? Perché non si può voler morire semplicemente perché non si vuol più vivere? Perché siamo un “Paese di bigotti”, come dice Puxeddu: uno può impiccarsi o gettarsi giù da un ponte ma sempre con un gesto disperato. Noi riusciamo a digerire soltanto l’anormalità che rientra nella norma; la morte razionale, la morte voluta e cercata con normalità, senza disperazione facciamo fatica a comprenderla.

Certo tutto questo ragionamento diventa duro e difficile da assimilare quando chi sceglie la morte è una persona vicina, cara, amata. Ti resta la rabbia: una rabbia assurda che non riesci a spiegarti e che forse…. non è normale.

Gioca con chi vuoi ma lascia stare santi e fanti

La notte del 19 novembre la statua di San Gerardo, posta in un tempietto nel centro storico di Potenza, viene “profanata” da ignoti vandali che sradicano il bastone in ferro-battuto dalla mano della statua e lo buttano nella sottostante via del Popolo.

Il giorno seguente leggo la notizia sulla stampa locale  e nel pensare agli atti vandalici che accadono ogni sabato notte, soprattutto nel centro cittadino, li collego, mentalmente,  ai soliti giovani brilli  che si divertono con tutto quello che capita.

Qualcuno che dice “ma si, so’ ragazzi…” lo si trova sempre ma questo, ovviamente,  non diminuisce la gravità dell’intolleranza che traspare da atti del genere, sia che si tratti di un’effige religiosa che di un’auto  parcheggiata (dipende spesso solo dalla “vicinanza” del soggetto con l’oggetto danneggiato).

Come si pongono i giornali di fronte a questo tipo di notizie ? Come si rapportano a questi atti di palese intolleranza sociale?

Grossolanamente in un solo modo: redigono le loro consuete righe di cronaca  e spesso gridano al sacrilegio con un coro da tragedia attica, non rinunciando anche a qualche tinta sociologica di passaggio. Sostanzialmente lo sfondo unanime è quello etico-morale di ammonimento e richiamo.

Ma c’è chi ha fatto di più; c’è chi ha risposto con l’intolleranza all’intolleranza; c’è chi ha indossato la mimetica da soldatino ed è sceso nella battaglia.

Il telegiornale RAI di Basilicata nel servizio del 21 novembre (che qui sotto potete guardare e ascoltare) dopo l’accorata indignazione in stile “radiomaria” lancia l’avvertimento vendicativo attraverso le parole finali di una canzone  popolare  (“San Gerarde protettore, de Putenza generale: gnara piglià lu male a chi l’hadda desprezzà” – Un brutto male colpirà chi avrà disprezzato San Gerardo).

Insomma ragazzi state attenti, scherzate con i fanti altrimenti…. à la guerre comme à la guerre!

[bloggo uno] Pellegrini e il suo blog

C’era un tempo in cui esistevano i blogroll, essì perché tra tutti quelli che si dimenavano nella scrittura di un diario in digitale non ci voleva molto a tenerli insieme in una lista. Oggi chi se lo sognerebbe?
Nell’indecisione se continuare a tenere aperto questo spazio (e questo dominio) mi chiedo cosa siano diventati oggi i blog.
Ma le domande potrebbero essere più di una (servono ancora? Hanno un senso e un ruolo?) e siccome risposte non ne ho cercherò di trovare ispirazione da qualche altra parte lasciando qui e la qualche appunto.
Nella mia esplorazione random trovo il blog di Federica Pellegrini dove la nuotatrice mondiale annuncia il divorzio dal suo allenatore con la pacifica constatazione che “non e’ semplice lavorare tranquillamente convivendo cn tutto il circo mediatico che mi gira attorno…“.

Che altro dire del suo blog? Beh, che l’italiano non vive nell’acqua.  🙂