Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?

«Ets italià? Parles italià!».  Questo mi rispose un tizio in una birreria a Barcellona, alla mia richiesta di informazioni.  All’epoca stavo frequentando il biennio di spagnolo all’università e ricordo di esserci rimasto male. Pensai che il mio spagnolo era talmente brutto che anche le mie semplici frasi non meritassero una degna risposta. Peggio, forse m’era capitato soltanto a Parigi dove, se eri fortunato, ti correggevano. Ben presto mi resi conto, invece, che non era la mia pronuncia ma il mio “castigliano” a non meritarsi una risposta. Era l’estate del 1981 ed erano passati solo pochi anni dall’approvazione della nuova Costituzione spagnola con il suo famoso articolo 3:

El castellano es la lengua española oficial del Estado. Todos los españoles tienen el deber de conocerla y el derecho a usarla.
Las demás lenguas españolas serán también oficiales en las respectivas Comunidades Autónomas de acuerdo con sus estatutos.
La riqueza de las distintas modalidades lingüisticas de España es un patrimonio cultural que será objeto de especial respeto y protección.

Dunque i catalani, dopo la dura dittatura franchista che aveva abolito l’autonomia e proibito la loro lingua, riprendevano con forza le tradizioni, la storia e la lingua e io me ne stavo, appena, rendendo conto.  E’ un ricordo che mi è venuto in mente in questi giorni mentre assistevo al gran bailamme di cazzate, o di pressapochismi, intorno alla questione del referendum catalano.  Si tratta infatti di una vera e propria questione” con radici profonde che va oltre le semplici rivendicazioni territoriali o separatiste alla “Lega Nord”, tanto per intenderci.

Precisiamo, per chi non sa come funzionano le istituzioni spagnole, che la Spagna è suddivisa in diciassette comunità quasi del tutto autonome e alcune di loro, come i Paesi Baschi e la Catalogna, hanno anche una dinamica politica molto marcata, con dei propri partiti regionali.

La maggioranza dei catalani, per esempio, poco si identificano con l’attuale governo del Partido Popular  anche per via di un’idea di repubblica e di democrazia completamente diversa.

C’è una forte volontà di dire la propria. Una voglia di esprimersi su una questione vitale che coinvolge trasversalmente tutta la comunità, dai conservatori alla sinistra, per finire agli anarchici.

Al di là di discutere o decidere sull’utilità o meno del separatismo, bisognerebbe capire, intanto, perché il governo di Rajoy ha fatto di tutto per impedire questo referendum?

La repressione e la violenza da un lato e la forza e la determinazione dall’altra danno un senso alla misura delle cose, e queste non possono appartenere a una semplice idea di unità nazionale, debbono invece far parte di una diversa visione, più ampia e più complessa, della società in generale. Una visione che cozza frontalmente con uno stato che ha dimostrato tutta la sua rude deriva autoritaria.

Le misure repressive applicate (divieto del diritto di assemblea e di manifestazione in tutto lo stato; accuse di sedizione; arresti di funzionari pubblici e rappresentanti politici; minaccie di sospensione a 700 sindaci; perquisizioni delle sedi di giornali, media e partiti; sequestro del materiale per il voto; siti web oscurati e chiusura della connessione internet nella giornata delle votazioni) ne hanno chiarito definitivamente la natura, semmai ce ne fosse stato bisogno.

Soltanto una vera paura, un serio timore per la propria conformazione istituzionale, poteva mettere in moto, come molti hanno sostenuto, la forma dello Stato d’eccezione.

E’ uno scontro istituzionale (potere locale contro potere centrale) che non ha precedenti, con la complicità dei socialisti del PSOE che nulla hanno fatto per impedire che la mano “franchista” del governo Rajoy si abbattesse sull’intera comunità; anzi lo spirito collaborazionista ha indotto gli pseudo-socialisti spagnoli a ostacolare anche la proposta di Podemos di concordare un legittimo referendum.

 

Ma, come dicevo prima, lasciando da parte la questione dell’indipendentismo, resta tutta intero un semplice interrogativo: perché e a chi può far paura la domanda: “Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?”.

L'astensione, la retorica e il centrosinistra

da Polisblog.it

Rocco Albanese dice su Commo che “il governo Renzi sta letteralmente smantellando l’Italia in un contesto di (apparente) unanimismo servile, che fa sembrare mosche bianche le voci critiche.”

Io credo che invece stia smontando, più semplicemente, il PD e il centrosinistra, almeno quello che ne resta.

Giovanna Cosenza scrive un post, nel quale fa una sorta di teoria della mente dei renziani (trascrivendo quasi esattamente quello che i renziani pensano  e, soprattutto, vedono quando guardano il loro leader; perchè a loro piace che gli venga riconosciuta la familiarità con Berlusconi e il successivo processo di superamento. Come in un buon percorso di apprendimento, dove il legame col proprio maestro viene sciolto con la sua uccisione  -se incontri un Buddha per strada uccidilo, diceva Siddharta), dove dice che Renzi “è proprio bravo”  con un “tanto di cappello”.

E’ bravo perché è “più capace di interpretare le emozioni, i pensieri e gli umori dell’italiano e dell’italiana media”, perché “parla a tutti/e in generale” invece di parlare all’elettorato di centrosinistra.

Parlare a tutti, in politica,  significa “parlare per tutti”, ovvero fare gli interessi di tutti quelli per cui si parla, ed è comunque una vecchia favola retorica alla quale nessuno ha mai creduto e che non sta in piedi né logicamente né praticamente.

Per ascoltare/parlare a tutti, un pover’uomo, dovrebbe mettere su un sistema di ascolto tale da non farsi sfuggire assolutamente nulla, neanche i bisbigli in percentuali minori; poi dovrebbe inventarsi un altro sistema per poter instaurare un dialogo uno-a-uno per scambiarsi le opinioni e infine mettere insieme tutti gli interessi, riuscire a rappresentarli senza creare contro-interessi. La storia non ha conosciuto sistemi del genere e il futuro non promette niente di simile. Forse solo qualche capo religioso riesce a parlare a nome di tutti i suoi fedeli ma niente di più.  Una soluzione parziale a questa aporia è stata certamente la democrazia ateniese che si poneva l’obiettivo di amministrare “non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta” (nemmeno la maggioranza).

Ma chi l’ha detto che Renzi volesse ascoltare tutti o un’ampia cerchia di loro? Ha tifato per l’astensione a un referendum proprio per non ascoltare nessuno; si è addirittura vantato e rivendicato come una vittoria personale quella pratica di astensione.

Se avesse voluto ascoltare la maggioranza delle persone, avrebbe invitato tutti a votare; avrebbe insistito, aumentato il tempo dell’informazione, magari intensificato tutte le tecniche comunicative, pur di riuscire ad avere una più ampia cerchia di voci.  Invece si è adoperato affinché quella maggioranza non emergesse, barando poi sull’intercettazione del sentimento dei più che invece non si sono espressi.

E’ vero, c’è una tendente disaffezione al voto, ma è illogico e insensato per un capo di governo (e un ex capo dello Stato) tifare per il non voto.

Ora resta da capire con chi e per chi parla Renzi. Non è interessato ad ascoltare la maggioranza, non parla con e per la sinistra, gli rimane la desta e il solito centro.

Se Renzi parla e ascolta la destra (centro) come capo del governo ma è anche segretario di un partito di (centro) sinistra, la cosa si semplifica e si chiarisce: Renzi sta compiendo un’azione riformatrice non tanto del paese quanto della struttura ideologica del proprio partito. In soldoni, sta ricostruendo, mattone su mattone, il corpo politico della vecchia Democrazia Cristiana scacciando e piegando tutto ciò che resta della vecchia sinistra.

Tutto qui e il resto sarà futuro prossimo.

Le ragioni di un SI

siPartiamo dal fatto che  i partiti, normalmente, si distaccano dai loro programmi elettorali non appena entrano a far parte del governo.

Per alcuni (più di qualcuno) basta anche solo sedersi su una sedia del parlamento.

Io lo ricordo benissimo quando Serracchiani a Monopoli manifestava in piazza contro le trivellazioni, ed era soltanto il 2012. Solo qualche anno prima, per le elezioni del 2008, il PD aveva parlato di “rottamare il petrolio”  e organizzava le “giornate del sole“.

E’ ovvio che poi si prova un certo fastidio nel sopportare  l’idea che tutti gli italiani si esprimano su alcune materie, come quella delle perforazioni per la  ricerca ed estrazione di idrocarburi, per esempio.

Renzi fa addirittura di più e sposa completamente la causa dei petrolieri  concedendo loro la facoltà di avvalersi di un doppio regime legislativo per l’ottenimento dei titoli.

Perchè il referendum di domenica è un voto politico?

Perchè serve per esprimere un parere sulla strategia energetica italiana; serve a bloccare l’arroganza di un governo che si batte sfacciatamente per gli interessi delle lobbies del petrolio anteponendole a quelli dei territori e alla salute delle persone.

Il governo non ha voluto l’election day e ha stabilito, in tutta fretta, la data del referendum (spendendo circa 350 milioni in più) solo per ridurre i tempi dell’informazione e della comunicazione elettorale e, soprattutto, per non tirare la volata contraria al referendum istituzionale su cui Renzi ha dichiarato di giocarsi la poltrona.

Poi non è vero, come sottolinea Roberta Radich del Movimento NoTriv, “che non estraendo petrolio dobbiamo dipendere dall’estero, perché comunque vi dipendiamo lo stesso dal momento che il petrolio e il gas estratti entro le 12 miglia rappresentano rispettivamente l’1 e il 2 per cento del fabbisogno. Solo progredendo con le energie rinnovabili verrà diminuita la dipendenza dall’energia estera.”

Infine c’è anche la questione delle quote annuali (franchigie) sulle quali non si pagano royalty. Ovvero, se una compagnia estrae un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie stabilite per legge (in terra: 20mila tonnellate di petrolio e 25 milioni di metri cubi di gas; in mare: 50mila di petrolio e 80 milioni di gas) non deve versare le royalty allo Stato. Quindi il rallentamento del flusso di estrazione e l’allungamento dei tempi fino a esaurimento dei giacimenti, serve a far risparmiare i soldi delle royalty ma anche quelli per i costi di dismissione, non smantellando le piattaforme ‘zombie’ che restano abbandonate alla ruggine nei nostri mari. Si consideri che la quantità di petrolio e di gas estratti annualmente vengono semplicemente “autocertificate” dai concessionari senza nessun tipo di controllo.

Perchè SI

Con il referendum di domenica 17 aprile si deciderà se abrogare il terzo periodo del comma 17, dell’art. 6 del D.lvo n. 152/2006 (“Norme in materia ambientale”), così scritto: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale“.

Pmappa-trivelle-entro-le-12-migliaerchè  non c’è la questione di “fermare le estrazioni di idrocarburi nelle acque italiane entro le 12 miglia dalle coste“?

Perché quella è già prevista nel comma 17 del decreto e cioè che entro 12 miglia dalla costa non sono possibili nuove attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi di qualunque genere, mentre quelle già in attività oltre a poter giungere alla scadenza della concessione possono essere oggetto di proroga.

Perché l’attività di estrazione va fermata?

Perchè è altamente pericolosa per la saluta e per l’ambiente. Ogni anno vengono sversate nei nostri mari 100/150 mila tonnellate di idrocarburi solo per operazioni di routine e in 22 anni, a causa di 27 gravi incidenti navali, 270 mila tonnellate di idrocarburi sono finite in mare (come quello del 2010, per esempio).  In più, nel solo mar Mediterraneo, il catrame depositato sui fondali è di 38 mm per MQ,  e quello intorno alle trivelle è ricco di metalli pesanti.  Si aggiunga che una riduzione delle estrazioni porterebbe anche a una svolta nella politica energetica nazionale, spingendolo a investire in energie rinnovabili.  In tal modo non cercheremo combustibili fossili e potremmo avvicinarci seriamente all’uso di energia da fonti rinnovabili, come del resto stabilito nell’ultimo vertice mondiale COP21 di Parigi.

Il referendum è un “momento di accumulo positivo di energie sociali, di saperi, di creatività, di veloce incremento di relazioni operative tra reti consolidate”, come sostengono i comitati NoTriv e Renzi lo sa e spinge sull’acceleratore dell’astensionismo; perché con la vittoria del SI l’intera strategia energetica nazionale traballerebbe.

E allora cosa aspettiamo?

Razza europea un tanto al chilo

euroSyriza decide di capire cosa ne pensa il popolo greco della proposta europea e i commentatori, i critici, gli specialisti e puritani si sprecano in ragionamenti di carattere tecnico.
La questione è invece assai semplice ed è più che etica: capire se la linea di opposizione alla decisione europea, che Tsipras definisce come “ricatto della Troika”,  è condivisa dal popolo greco.  In parlamento la decisione è stata votata con una discreta maggioranza (179 voti a favore e 120 contro) così come nel paese c’è una timida conferma se si prende per buono il sondaggio di Kapa Research che da al “SI” un 47%.

Ecco il perché di un referendum. Perché quando un fardello diventa insostenibile, prima di appesantirlo ulteriormente, bisogna chiedere a chi lo porta se ha ancora voglia di caricarsi.

La Grecia ha un rapporto debito/PIL  del 175%, l’Italia del 132,6%, mentre la media europea è del 87,4% e dunque chiaro il contesto entro cui ragionare: accettare di annegare una società e di affamare un popolo fin troppo umiliato dall’Europa. Del perché si sia arrivati a questo i greci lo sanno fin troppo bene e la sola risposta è PASOK e Nea Demokratia.

Non si tratta di una “finta democrazia”, come dice Ernesto; qui il problema non può esser visto con un’ottica open (se i documenti si reperiscano o meno facilmente) dal momento che da mesi non si parla d’altro: dalla TV alla stampa, per finire ai bar e ai barbieri della penisola ellenica. La stragrande maggioranza dei greci sa benissimo che questo è lo sforzo di un governo che cerca di salvare la dignità di un popolo e l’etica di quel progetto  contenuto nel Manifesto di Ventotene.  Anzi, come sostenuto da Krugman, l’eventuale vittoria al referendum conferirebbe ancora più legittimità democratica al governo Tsipras.

L’idea di Syriza è quella di rimanere in Europa nella piena autonomia di scelte politiche che non facciano decadere i livelli sociali al di sotto delle realistiche possibilità di vita. Ma non sembra essere questo l’interesse di Bruxelles. Se amate i numeri è bene sapere che la Grecia ha una spesa pubblica che è quasi il 43% del PIL e quella tedesca supera tale percentuale, con la differenza che in tutti questi anni critici la Germania è l’unico paese dove il PIL è comunque continuato a crescere. Allora, forse, ha ragione Adriano Manna quando insinua su quella strana somiglianza tra lo statuto della BCE e quello della Banca Centrale tedesca.

 

SI Vota

Per dire no (al nucleare, all’acqua privata, al legittimo impedimento) si deve mettere una croce sul Si.

4 Si perché:

Il primo SI sulla scheda rossa è per abrogare la norma che affida la gestione del servizio idrico ai privati.

Il secondo SI sulla scheda gialla serve ad abrogare la norma che prevede che le tariffe idriche siano determinate in base alla remunerazione del capitale investito.

Il terzo SI sulla scheda grigia vuol dire abrogare la norma che prevede la realizzazione di centrali nucleari sul territorio italiano.

Il quarto SI sulla scheda verde abroga la norma che prevede il legittimo impedimento per premier e ministri, che consente a questi di non comparire davanti ai giudici per motivi istituzionali.