Un conflitto lungo un secolo e al centro un territorio.
E’ il 1880 e nello stesso territorio convivono 150 mila arabi e 24 mila ebrei sotto l’impero Ottomano. La popolazione è quasi tutta contadina o meglio bracciante al servizio di proprietari terrieri che controllano la gran parte del paese. Soltanto Gerusalemme gode di una piccola autonomia perché è l’antica città sacra agli abramitici.
Con la fine dell’impero Ottomano, dopo la prima guerra mondiale, tutta quell’area passa sotto il controllo inglese (grazie all’accordo Sykes-Picot). Gli arabi sono entusiasti di questo nuovo protettorato perché, essendosi impegnati nella lotta agli ottomani, si aspettano che venga rispettata quella promessa di uno stato arabo indipendente.
Così non sarà, anzi gli inglesi continueranno a favorire l’insediamento di colonie ebraiche (con l’idea del “focolare nazionale“) incrementando sempre di più la loro presenza.
Grazie agli investimenti esteri attraverso l’Agenzia Ebraica e anche alle persecuzioni naziste, gli ebrei nel 1945 sono oltre 500 mila e acquistano sempre più territorio da dove devono, ovviamente, cacciare gli arabi che sono ancora più di un milione.
Agli arabi non gli andrà bene neanche durante la seconda guerra mondiale, quando appoggeranno i tedeschi nella speranza di liberarsi degli inglesi. Infatti, nel 1948, viene proclamato lo stato di Israele che scatenerà una lunga scia di conflitti e aggressioni militari e una continua e sistematica espulsione di palestinesi dalla propria terra (quasi 1 milione).
Dopo lo stato di Israele stiamo assistendo da 50 anni a un unico sterminio inframezzato da finte tregue e indignazioni.
Dalla guerra dei 6 giorni, al tentativo di Sadat e al trattato di Washington; dall’invasione del Libano, e il massacro di Sabra e Shatila, alla ripresa dello scontro con Sharon; il tutto condito da 15 mila vittime, come se niente fosse.
La cronaca di questi giorni non è un imprevisto o un accidente ma sempre questa stessa storia che continua incessante il suo percorso; l’unica differenza è la nostra stanchezza, la nostra noia e il nostro disinteresse che ci porta a spostare tutto più lontano, da noi. Allora da qualche parte bisogna ripartire e, come dice Emiliano Vaccaro, forse è il caso di “tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi“.