Forse non tutti sanno che le sagre hanno una storia, tutto sommato, recente. Fu il fascismo a innalzarle a strumento retorico-folkloristico del regime e da allora sono diventate un fenomeno culturale-economico che caratterizza tutta l’Italia. Ogni estate si nota un significativo aumento della notorietà delle sagre esistenti e una buona diffusione di nuove feste che in qualche modo tentano di promuovere il territorio attraverso la sua identificazione con un prodotto.
Se io dovessi immaginare un’app estiva sul tipo AroundMe e/o Foursquare (ne parlavamo qui) penserei proprio alla mappatura delle sagre. Più che far visualizzare ciò che ci circonda, suggerirei dei veri e propri percorsi il cui orientamento è di tipo “sagro-geografico”. Unirei quel ragionamento, semplice e logico, di “unire i puntini” che faceva Roberta Milano alla mappatura in stile Open Street Map.
Ne verrebbero fuori dei percorsi interessanti che potrebbero funzionare sia per il turista che per l’economia locale e la promozione del territorio.
Ma questo è solo un pensiero di passaggio sul quale, probabilmente, val la pena di insistere in futuro.
Lo stimolo che invece sostiene questo post è un altro e anche se ha a che fare con le sagre, riguarda più i loro organizzatori e i consumatori.
Partiamo da quell’immaginario collettivo che fa delle sagre paesane un’occasione da non perdere sia per il semplice gusto della festa che per la concentrazione di convenienze derivanti dalla somma di localismo, genuinità ed economicità.
E’ facile pensare di poter trovare un prodotto genuino, caratteristico che difficilmente si trova altrove se non a un costo superiore. Se penso di andare alla sagra di Sarconi mi immagino di trovare quei caratteristici fagioli a un prezzo inferiore di quelli che vende l’alimentare sotto casa.
Ricordo, per esempio, quando andai in vacanza nel sud della Francia e capitai in una fiera del vino dalle parti di Narbonne dove tutti bevevano gratis o compravano bottiglie e damigiane a prezzi incredibili.
Ora se pensate di aver fatto un affare con il menù dell’ultima “Sagra del Baccalà” di Avigliano forse rimarrete delusi. Non per la qualità, ovviamente, ma per il prezzo.
I ristoranti locali che aderivano alla sagra (La Strettola, La Nuova Dolce Vita, Osteria Gagliardi, La Pietra del sale e Nerolà) avevano tutti lo stesso tipo di menù:
a) primo+bibita € 6;
b) secondo+bibita € 7;
c) menù completo € 13.
Come avete notato il menù completo (semplice somma di a+b) più che incentivare alla spesa puntava soltanto a soddisfare una diversa gradazione di appetito. Forse quelli della sagra non hanno una buona dimestichezza con il concetto di convenienza, ma poco male.
Il vero problema nasce quando un amico mi fa notare (documentazione fotografica alla mano) che, per esempio, l’Osteria Gagliardi a giugno offriva lo stesso menù (a, b e c) ma quello completo costava € 12.
Resto perplesso e penso che nel frattempo, forse, i prezzi sono aumentati…. Invece no: proprio l’Osteria Gagliardi, a pochi giorni di distanza dalla sagra, per la festa della CGIL di Basilicata, nel suo stand gastronomico offre un menù simile ma a prezzi molto più modici (primo+bibita € 5, secondo+bibita € 7, menù completo € 11).
Che conclusione possiamo trarne?
Provo a suggerirne qualcuna:
1) che la CGIL è forte e impone i suoi prezzi;
2) che i ristoratori aviglianesi della sagra hanno fatto cartello;
3) che in quei giorni ad Avigliano si è sviluppata una strana epidemia che ha contagiato tutti gli avventori della sagra trasformandoli in baccalà e senza che questi si accorgessero di essere loro il prodotto tipico.