Sono in molti quelli che hanno l’impressione che internet sia un mare ingovernabile per natura e che non obbedisca a nessuna legge conosciuta. Se provi a chiedere notizie sulla libera informazione nella rete una buona percentuale risponde che internet è senza censura, per definizione, e che le notizie la attraversano libere e leggere come farfalle.
Poi ci sono quelli che riempiono culturalmente il concetto di “rete sociale” attraverso nuove dinamiche di organizzazione politica. Pensiamo a movimenti come onda viola che hanno usato la rete per veicolare velocemente idee e dibattiti o a chi, come il M5S, ne ha fatto un’impalcatura strutturale del proprio movimento.
Insomma le esperienze sembrano portare verso una certa idea orizzontale di rete o almeno obliqua.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza tecnica con reti e domini sa bene, invece, che la loro struttura è completamente verticale e rispetta un’indispensabile gerarchia a piramide (dall’ISP al rapporto tra server e client). Se ci si addentra nella proprietà e nel controllo delle vie di comunicazione, come fa chi si occupa di geopolitica, la piramide diventa ancora più acuta.
Quindi chi parla di libertà in rete si riferisce, probabilmente, a piccoli fenomeni di dettaglio e tralascia le grandi dimensioni di macro-mediazione. Non a caso c’è che cita il Panopticon per definire il “lavoro sporco” di chi amministra i grandi hub di connessione. Se ci sono padroni si può anche fare come la Cina e se la Cina può spegnere Internet perché non dobbiamo farlo anche noi, hanno detto i democratici americani pensando all’Internet Kill Switch.
Insomma sembra che Internet non sia proprio il paradiso, come sostiene Geert Lovink; sarà il tempo di liberarlo?
Ovviamente non nel senso che qualche multinazionale intende quando pensa al raggio della torta, ma in quello di un possibile allargamento di struttura e sovrastruttura o meglio di una grande diffusione sul territorio di nodi indipendenti di connessione.
Più o meno come qualcosa di cui ho già accennato qui, parlando di reti mash.
Un’idea è già venuta in mente a Eben Moglen, un professore della Columbia University che anni fa ha immaginato una piccola scatoletta che liberasse la connessione. E’ il FreedomBox, un mini server con un chip a bassa potenza che come un piccolo caricabatteria per cellulare si infila nella presa elettrica e trasforma ogni cittadino in un provider di se stesso (ma anche di altri).
Secondo Moglen quando il progetto sarà completo e diffuso ci si renderà liberi con la modica spesa di 29 dollari.
FreedomBox è un progetto collaborativo che grazie alla Debian community sta raggiungendo buoni risultati e fa ben sperare per il futuro.
La Fondazione che sostiene il progetto FreedomBox è guidata, ovviamente, da Eben Moglen con la collaborazione di Bdale Garbee e di Yochai Benkler.