I 99 Posse, la Basilicata e i centri sociali

Curre curre guagliò. Storia dei 99 PosseNell’aula magna del campus universitario di Macchia Romana, giovedì 7 febbraio a Potenza c’è stata la presentazione del libro autobiografico dei 99 Posse, scritto da Rosario Dello Iacovo, e del videoclip “Stato di emergenza“, realizzato da Rocco Messina.  L’aula magna era piena sia di giovani interessati che di meno interessati agronomi in attesa dei due crediti formativi messi a disposizione dall’Ordine dei dottori agronomi e forestali della Provincia di Potenza (il dubbio sul motivo della loro sponsorizzazione all’evento resta intatto anche dopo la lettura del loro comunicato).

Stato di emergenza

Sulle note di uno dei 18 brani dell’ultimo disco dei 99 posse (Curre curre guagliò 2.0) si appoggia il video realizzato da Rocco Messina tra i vicoli e le stradine di Brindisi di Montagna.  Il paesaggio è indubbiamente protagonista, forse un po’ meno il gruppo. Molti personaggi, interpretati da amici e abitanti del posto, sono visibilmente forzati in una piccola recitazione (compreso il sindaco del paese, a ragione imbarazzato da un look texano) ma con un effetto piacevole che dona un senso di realistica normalità. Anche la fotografia non è male, anche se nel complesso ho avuto l’impressione che l’idea di riferimento fosse orientata alle ambientazioni di Vince Gilligan, o qualcosa di simile.  Cosa non mi è piaciuto? La sua storia e la grammatica retorica che attraversa tutto il video.  Troppo distaccato e improbabile (oltre che astorico) il ruolo dei 99 Posse che come angeli percorrono le stradine del paese tra l’ignoranza di abitanti vistosamente “paraocchiati”.  Il focus è tutto qui: il gruppo, in abiti bianchi, rappresenta la coscienza di un popolo ignaro che infine vede la luce e insegue quella visione addirittura in processione (manco fosse Bocca di Rosa).  Certo il testo della canzone dice altro, ma che importa.   La retorica cade solo a fine proiezione quando, riaccese le luci, alla domanda sulla scelta della location, il sindaco di Brindisi di Montagna parla di investimento e vocazione turistica del paese.

Curre curre guagliò. Storie dei 99 Posse

Il libro è una bella biografia dei 99 Posse che Dello Iacovo descrive come “atipica”. In realtà non è focalizzata su un personaggio, una situazione o un luogo ma si sviluppa a raggiera. Da un humus comune di musica e politica si divincolano storie di esperienze personali e collettive che poi ritornano e si intrecciano inesorabilmente.  Il luogo è Napoli ma non solo Napoli; c’è una società viva e complessa, anzi una parte di società, meglio ancora, il margine sinistro di una società e una urbanità. Tante storie, tanti viaggi raccontati in prima persona da Luca (Zulù), Massimo, Marco, Sacha  e tanti altri che hanno condiviso pezzi e percorsi di vita. C’è tutta l’esperienza dei centri sociali (Officina 99 in particolare), della pratica antagonista militante  e di una coscienza politica che fa da corollario a quella canzone simbolo o bandiera che è ” Curre curre guagliò”.  Un libro che ti prende subito e ti coinvolge.  Anche se di autonomi, anarchici, squatter, posse, no global, ne hai solo sentito parlare in TV, conviene considerarlo come un approfondimento e una seria testimonianza storica.

Perché in Basilicata non ci sono centri sociali?

A fine presentazione è già tardi e il gruppo deve scappare a Brindisi di Montagna dove prosegue la serata ma, come promesso, si chiede al pubblico se ha delle domande. Una ragazza davanti a me chiede al gruppo  il perché in Basilicata non ci fossero centri sociali.  Dello Iacovo tenta una risposta immaginando che dipenda, fondamentalmente, dallo scarso numero di abitanti e dal fatto di non avere urbanità complesse e compresse. Può darsi che sia così… e mentre rientravo a casa continuava a balenarmi in testa sempre questa domanda (perché in Basilicata non ci sono centri sociali?).  Probabilmente il quesito è meno ingenuo di quanto possa sembrare e, quindi,  credo che valga la pena di svilupparlo in un post successivo.

The Three Percent Problem

Si chiama Three Percent il blog dedicato alla letteratura tradotta negli USA curato da Chad Post che è anche il direttore di Open Letter, una casa editrice che pubblica esclusivamente opere in traduzione, e anche autore del libro “The Three Percent Problem“.

Il “tre per cento” è un problema perché soltanto tale quota dei libri pubblicati negli USA (ma anche nel Regno Unito) è tradotto da altre lingue.  Addirittura la traduzione di opere di narrativa scendono allo 0,7%, mentre in Italia circa il 20% dei libri pubblicati sono tradotti da altre lingue.

Chi ce ne parla è Silvia Pareschi (una traduttrice che vive a San Francisco e che ha tradotto i libri di Don DeLillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, Denis Johnson) in un bellissimo post pubblicato su Nazione Indiana.

Io vi consiglio di leggervi il post ma voglio sottolineare almeno due concetti conclusivi:

1.  negli USA i traduttori, a fronte di una percentuale così piccola, sono sostenuti anche dalle istituzioni mentre in Italia il numero si inverte e a diventare piccolo è il sostegno del Ministero per gli Affari Esteri (“25.000 euro – ferme restando le attuali disponibilità di bilancio”) che però viene erogato agli editori e non ai traduttori;

2. alla domanda della Pareschi se avesse mai ricevuto una sovvenzione dal governo italiano per una traduzione, Anne Appel risponde: “Noi siamo sempre in cerca di libri da pubblicare, eppure sentiamo parlare piuttosto raramente di quelli italiani, perché gli organismi che sostengono e promuovono la letteratura tedesca e francese, per esempio, non esistono per quella italiana. Molti editori non ci mandano neppure i loro cataloghi.

La carta nella testa

E’ noto a tutti che le “scritture” sono in continuo aumento è meno noto, però, l’incremento delle “letture”.  Del primo ne siamo coscienti perché abbiamo visto come il digitale abbia incrementato la comunicazione scritta, del secondo non riusciamo ad afferrarne la portata poiché restiamo legati a un’idea di lettura concettualmente analogica. Tutto il peso del concetto ricade sulla “quantità compattata” di righe scritte.

Se date uno sguardo alle statistiche ISTAT gli indici sono fatti per libri di carta, audiolibri, ebook e giornali. Sappiamo, per esempio, che nel  2010  gli italiani avevano letto mediamente  3 libri a testa (con un incremento di un punto percentuale rispetto al 2009) e che coloro che possiamo definire “lettori voraci” erano soltanto il 15,1%  con una dozzina di libri letti nell’anno. A questa “quantità” di righe scritte e dichiarate come lette, si affiancano i dati sulla vendita (sia di libri che di giornali) che abbassano ancora di più la media.

Il problema è che sono gli analisti a considerare la scrittura come letta solo se appartenente a unità concettualmente “analogiche” di testo: libri, giornali, e-book, ecc….  e non si capisce il perché non si consideri letto ciò che invece è stato considerato come scritto: sms, chat, e-mail, social network, giochi, ecc….  Si è disposti a considerare il web o l’html come scrittura ma non come lettura.

Un esempio semplice di questa stortura mi è balzata agli occhi quando ho ragionato sul fatto che mio figlio, che sta affrontando gli esami di stato, legge e trova sul web tutto ciò che gli serve e contemporaneamente invia e/o riceve link interessanti dai suoi compagni. Quante righe avrà letto mio figlio? Boh e chi lo sa… intanto, statisticamente non è neanche un lettore accanito, anzi è addirittura sotto la media perché al rilevatore che gli chiederà “quanti libri hai letto quest’anno” (a parte quelli scolastici) sicuramente risponderà poco o nulla. Forse nemmeno lui considererà come lette le migliaia di righe su Wikipedia e sui vari siti specializzati. Io alla sua età ero considerato un lettore accanito soltanto perché leggevo un quotidiano e correvo in biblioteca per ogni piccola ricerca scolastica, eppure il mio camp0 di riferimento era ristretto alle capacità di una piccola biblioteca UNLA e a quelle di qualche enciclopedia  più o meno esaustiva.

Probabilmente guardiamo/usiamo il digitale e pensiamo/vediamo l’analogico. Una metafora immediata di questo paradosso è ben rappresentato da tanti ebook reader (l’iPad ad esempio) che simulano lo sfogliare della pagina di carta.

Anche quando ci liberiamo le mani dalla carta la cellulosa ci rimane in testa.

Basilicata excellente

Avevo già sbirciato questi dati qualche giorno fa ma dopo il rilancio della notizia da parte della TGR ho deciso di condividere lo sconforto per realizzare a mio modo un “mezzo gaudio”.

Si tratta dei dati statistici rilevati dall’ISTAT sulla lettura dei libri (dell’anno 2009) dai quali ne vien fuori che in Italia “soltanto”  il 45% della popolazione (dai sei anni in su)  dichiara di aver letto almeno un libro.

La percentuale dei lettori italiani è inversamente proporzionale all’età anagrafica: il 65% de i lettori hanno 14 anni mentre il 23% ne ha 75.  Di questi le donne leggono più degli uomini (il 51,6% rispetto al 38,2%) con una punta massima di giovani lettrici (tra i 20 e i 24 anni) al 66%.

Sorvolando sugli elementi che influiscono di più sulla scelta o l’abitudine di leggere un libro (titolo di studio, condizione professionale, ecc…) resta impressionante il divario tra tra nord e sud.

Indagine su 100 persone per regione che hanno letto almeno un libro nell'anno 2009

La nota di sconforto è vedere la nostra regione classificarsi quartultima con il 35,8%.

Ma se in generale noi italiani siamo un popolo di “lettori deboli” (leggiamo al massimo 3 libri in un anno), noi lucani lo siamo ancora di meno.

E se gli italiani divenissero lettori della domenica come i francesi a noi, al massimo,  ci resterebbe l’ombrellone.

Allora può essere utile interrogarsi sulla natura della formazione delle idee politiche e chiedersi su quale strato culturale si sostanziano le scelte collettive?