Precarius Job

Il primo maggio del 2001 Berlusconi, in un pubblico comizio a Napoli, promise un milione di posti di lavoro in più entro il 2006 (300 mila posti all’anno).

La ricetta era molto semplice: dei 5 milioni di imprenditori italiani sarebbe bastato che soltanto 1 milione di loro avesse assunto un lavoratore.
L’unico problema fu che gli imprenditori italiani, nella realtà, erano 400 mila e non 5 milioni (l’Istat ne rilevava 400 mila nel 2004 con tendenza in diminuzione) e quindi se anche un quinto di loro avesse assunto un lavoratore i posti in più sarebbero stati solo 80 mila.
E’ inutile ricordare che la promessa di Berlusconi non si avverò.

Pochi giorni fa il ministro del lavoro Padoan ritorna sul tema e ne promette 800.000 in tre anni (160 mila all’anno).

A differenza di Berlusconi Padoan è ancora più subdolo o, se volete, fa il famoso gioco “delle tre carte”.   Da un lato si promettono non dei veri e propri posti di lavoro ma la stabilizzazione dei contratti precari e dall’altro la si rende  solo apparente con gli effetti della legge Poletti, approvata a maggio, con la quale si liberalizzano i contratti a termine ponendo il limite massimo di 5 anni per il loro rinnovo; peccato che i rinnovi si applicano soltanto alla mansione e non al lavoratore, quindi basta modificare la mansione per far restare quel lavoratore precario a piacimento.

Se poi aggiungete a tutto questo il nuovo “contratto a tutele crescenti“, con il quale il datore di lavoro può licenziare senza motivazione, nei primi tre anni (niente articolo 18), il gioco è completo: il lavoratore si ritroverà con un 3 anni di prova e un lungo futuro da precario e da ricattato.

Diteglielo a quelli di sinistra che questa non è sinistra…. è sinistro!

Articolo diciotto e modernità

via Vauro

A parere del Governo “di tecnici” la riforma del lavoro è un’operazione abbastanza vasta e vitale per l’Italia tanto da metterla in campo come un grimaldello che sollevi il paese dall’impasse economica e renda il nostro mercato più moderno. Il meta-grimaldello della proposta Fornero è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Ecco 2 parole-chiave: modernità e articolo 18, l’una chiave dell’altro e viceversa.

L’articolo 18 dello “Statuto dei Lavoratori” è quello che disciplina i casi di licenziamento illegittimo del “singolo” lavoratore nelle aziende con più di 15 dipendenti. Un datore di lavoro può “giustamente” licenziare un singolo dipendente se dimostra, al Giudice del Lavoro, la fondatezza del suo provvedimento, in caso contrario sarà obbligato a reintegrare (non riassumere ex novo) il lavoratore il quale, per sua scelta, potrebbe anche optare per un equo indennizzo.

L’idea di Fornero è quella di liberare le aziende dall’imposizione di “reintegrare” il lavoratore e, anche in caso di illegittimo licenziamento, obbligare i datori di lavoro soltanto al semplice indennizzo. Secondo il  “tecnico” si tratta di un allineamento dell’Italia alle politiche del lavoro maggiormente diffuse in Europa ma, soprattutto, riprendere quell’idea di modernità cara alla “destra italiana” e tracciata nel 2002 da Biagi con il “libro bianco”.

I contrari pensano che le aziende di cui parliamo anche quando decideranno di fare dei licenziamenti collettivi sceglieranno il licenziamento “individuale” (nel senso di licenziare i lavoratori uno alla volta) perché  la strada è più facile e perché “i licenziamenti individuali sono molto costosi e quelli collettivi molto più convenienti”.

La CGIL è l’unico sindacato che rimane fermo nell’opporsi alla “la libertà di licenziamento”, mentre la CISL ritiene che l’accordo raggiunto è “un compromesso onorevole“, poiché rafforza la protezione dei lavoratori.
La UIL per sua natura deve tentennare un po’ e prima sostiene che “la proposta del Governo e di Confindustria sull’art.18 è inaccettabile” e poi,  invece, si accoda alla CISL.
Il PD, che come al solito si divide su tutte le scelte fondamentali, presenta un asse Fassina-Bersani che parla di “un passo indietro molto ampio” contrapposto ad uno Veltroni-Ichino che parla di “tabù dell’art.18” e di ottima azione governativa.

Inutile citare la posizione di Lega e Forza Italia che furono già artefici della legge Biagi (citata prima) mentre l’IdV si lancia su posizioni ultracgillista annunciando “guerriglia” in parlamento.

E il nodo dov’è? E’ proprio nel senso della parola modernità e lo stesso Monti lo sottolinea più volte nei suoi interventi: modernità non è solo riforma del mondo lavorativo ma anche “ri-stabilire” i rapporti nelle trattative. Con le parti sociali ci si confronta ma non ci si accorda,  solo alla politica spetta l’ultima parola e la decisione finale. Insomma la modernità trasforma anche il significato di trattativa o concertazione che diventa semplice “consultazione”: ti ho ascoltato con interesse, grazie ma adesso faccio da me.

Ecco dove ci si divide, sulla modernità e tale concetto, banalmente, dipende dall’angolazione con la quale si guardano le cose; ancora più banalmente da come i propri interessi politico-economici sono coinvolti nelle scelte.

Continuando con le banalità c’è chi si chiede se la modernità sia di sinistra o di destra ma credo che sia meglio cercare di capire se sia invece cosa per i molti o per i pochi.  Prendete ad esempio l’art.18, se eliminarlo è moderno allora serve ai pochi se mantenerlo è moderno allora serve ai molti (è una garanzia per i molti ma è un freno per i pochi).  Allora è bene capire da che parte si sta: da quella dei molti (democrazia) o da quella dei pochi (oligarchia). Se la modernità è democrazia allora deve necessariamente tendere all’interesse “diretto” dei molti (dico diretto perché intravedo già coloro i quali cercano di spiegarti che l’effetto indiretto è per i tutti; proprio come quei soldi prestati alle banche europee all’1%  di interesse!); se è l’oligarchia ad essere moderna vuol dire che le cose stanno andando per il verso giusto.  Insomma… basta intendersi.