La carta nella testa

E’ noto a tutti che le “scritture” sono in continuo aumento è meno noto, però, l’incremento delle “letture”.  Del primo ne siamo coscienti perché abbiamo visto come il digitale abbia incrementato la comunicazione scritta, del secondo non riusciamo ad afferrarne la portata poiché restiamo legati a un’idea di lettura concettualmente analogica. Tutto il peso del concetto ricade sulla “quantità compattata” di righe scritte.

Se date uno sguardo alle statistiche ISTAT gli indici sono fatti per libri di carta, audiolibri, ebook e giornali. Sappiamo, per esempio, che nel  2010  gli italiani avevano letto mediamente  3 libri a testa (con un incremento di un punto percentuale rispetto al 2009) e che coloro che possiamo definire “lettori voraci” erano soltanto il 15,1%  con una dozzina di libri letti nell’anno. A questa “quantità” di righe scritte e dichiarate come lette, si affiancano i dati sulla vendita (sia di libri che di giornali) che abbassano ancora di più la media.

Il problema è che sono gli analisti a considerare la scrittura come letta solo se appartenente a unità concettualmente “analogiche” di testo: libri, giornali, e-book, ecc….  e non si capisce il perché non si consideri letto ciò che invece è stato considerato come scritto: sms, chat, e-mail, social network, giochi, ecc….  Si è disposti a considerare il web o l’html come scrittura ma non come lettura.

Un esempio semplice di questa stortura mi è balzata agli occhi quando ho ragionato sul fatto che mio figlio, che sta affrontando gli esami di stato, legge e trova sul web tutto ciò che gli serve e contemporaneamente invia e/o riceve link interessanti dai suoi compagni. Quante righe avrà letto mio figlio? Boh e chi lo sa… intanto, statisticamente non è neanche un lettore accanito, anzi è addirittura sotto la media perché al rilevatore che gli chiederà “quanti libri hai letto quest’anno” (a parte quelli scolastici) sicuramente risponderà poco o nulla. Forse nemmeno lui considererà come lette le migliaia di righe su Wikipedia e sui vari siti specializzati. Io alla sua età ero considerato un lettore accanito soltanto perché leggevo un quotidiano e correvo in biblioteca per ogni piccola ricerca scolastica, eppure il mio camp0 di riferimento era ristretto alle capacità di una piccola biblioteca UNLA e a quelle di qualche enciclopedia  più o meno esaustiva.

Probabilmente guardiamo/usiamo il digitale e pensiamo/vediamo l’analogico. Una metafora immediata di questo paradosso è ben rappresentato da tanti ebook reader (l’iPad ad esempio) che simulano lo sfogliare della pagina di carta.

Anche quando ci liberiamo le mani dalla carta la cellulosa ci rimane in testa.

Basilicata excellente

Avevo già sbirciato questi dati qualche giorno fa ma dopo il rilancio della notizia da parte della TGR ho deciso di condividere lo sconforto per realizzare a mio modo un “mezzo gaudio”.

Si tratta dei dati statistici rilevati dall’ISTAT sulla lettura dei libri (dell’anno 2009) dai quali ne vien fuori che in Italia “soltanto”  il 45% della popolazione (dai sei anni in su)  dichiara di aver letto almeno un libro.

La percentuale dei lettori italiani è inversamente proporzionale all’età anagrafica: il 65% de i lettori hanno 14 anni mentre il 23% ne ha 75.  Di questi le donne leggono più degli uomini (il 51,6% rispetto al 38,2%) con una punta massima di giovani lettrici (tra i 20 e i 24 anni) al 66%.

Sorvolando sugli elementi che influiscono di più sulla scelta o l’abitudine di leggere un libro (titolo di studio, condizione professionale, ecc…) resta impressionante il divario tra tra nord e sud.

Indagine su 100 persone per regione che hanno letto almeno un libro nell'anno 2009

La nota di sconforto è vedere la nostra regione classificarsi quartultima con il 35,8%.

Ma se in generale noi italiani siamo un popolo di “lettori deboli” (leggiamo al massimo 3 libri in un anno), noi lucani lo siamo ancora di meno.

E se gli italiani divenissero lettori della domenica come i francesi a noi, al massimo,  ci resterebbe l’ombrellone.

Allora può essere utile interrogarsi sulla natura della formazione delle idee politiche e chiedersi su quale strato culturale si sostanziano le scelte collettive?

 

Povertà

Tengh’ la capa vlozz’ vlozz’ nun pozz’ magnà mi manca nu vrazz’…

Iniziava così una poesia intitolata “il Poveruomo” di zio Peppino Viggiano che rappresentava, per me, una sorta di archetipo del povero di paese.

Ma che cosa è la povertà ?
E’ facile per chiunque comprendere il concetto di povertà identificandola con una situazione di indigenza economica, è una tautologia, e ricercare la parola povertà da qualche parte non ci illumina più di tanto. Perchè conosciamo bene l’opposizione “avere non avere” è dentro di noi, fa parte della nostra cultura “lievitazionale”. Ovunque, qualsiasi popolazione del globo, differenzia l’esistenza sociale tra chi ha (e/o può avere) e chi non ha (e/o non può avere). Ecco perchè ci scandalizza così poco parlare di povertà e non sappiamo andare oltre l’argomento retorico. Anche la complessa idea di Paolo di Tarso che tutto ci è stato dato in uso e non in proprietà, non è potuta mai diventare comandamento ma consiglio, invocazione, missione.
Ed è proprio il concetto di proprietà (e la sua contraddizione) ad essere la base di tutti i conflitti ideologici e sociali della civiltà.
Sradicare la ricchezza non è diventata mai una idea radicale di massa perchè proprio il concetto di povertà (e di proprietà) è assai complesso. Pensiamo al fatto che in persiano, per esempio, esistono più di 30 termini per indicare un povero; in Africa si usano da tre a cinque termini e nella Torah se ne usano otto.
Quindi, chi sono i poveri ?
Sulla quantità approssimativamente si può dire che i poveri sono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, non foss’altro per reggere il concetto di ricchezza. Identificare un povero, invece, è più arduo. Majid Rahnema, dice che nel mondo ci sono tanti poveri e tante percezioni della povertà quanti sono gli esseri umani.
Quindi possiamo dire che ciascuno di noi ha una propria idea di povertà il che porta a pensare che potremmo non essere in grado di identificare i poveri della nostra collettività o anche della nostra famiglia. L’ISTAT parla di povertà assoluta e povertà relativa defininendo la prima come classe di individui che non sono in grado di acquistare il “paniere” di beni e servizi e l’altra come famiglia composta da due persone con un consumo inferiore a quello medio pro capite.

Se poi guardiamo i numeri di questi ultimi anni (quelli italiani) vediamo che la percentuale delle famiglie che dichiara di avere almeno un problema nell’acquisto di alcuni beni e servizi essenziali, come cibo, gas, luce, telefono e cure mediche, è salito vertiginosamente. Trovarsi oggi in condizioni di povertà combacia sempre più con la privazione che l’individuo subisce nei confronti dei consumi medi della sua comunità.

Da ciò poi partono a raffica meccanismi complessi e tragici per i quali le famiglie si indebitano eccessivamente perchè non riescono ad acquistare prodotti attraverso la propria dotazione finanziaria.

Se dovessimo chiedere ad un passante quanto deve guadagnare un cittadino per non essere considerato povero, per l’ISTAT questi dovrebbe rispondere 1.300 euro per un single e 1.800 euro per una coppia (le famiglie numerose dovrebbero guadagnare più di 2.000 euro mensili).
Provate invece a chiederlo anche voi ai vostri conoscenti, ai vostri colleghi e se volete a qualche passante e verificherete di persona l’aderenza o meno della stima sulle percezioni, io so di certo che una larga maggioranza di precari, pensionati e famiglie monoreddito vivono con molto, ma molto meno, se poi non lo percepiscano come povertà è un altro paio di maniche.