La banda dell'ultralarga

Ha ragione da vendere Massimo Mantellini quando mette il punto interrogativo sulle “competenze” di Enel, aggiungendo che “Solo un burocrate spericolato chiuso nel proprio ufficio può immaginare che l’infrastuttura digitale del Paese sia in fondo un gingillo tecnologico alla portata di chiunque”.

Stiamo parlando della “banda ultralarga”, annunciata da Renzi qualche giorno fa e che riguarda l’accesso a internet attraverso una connessione minima di 30 Mpbs.

Partiamo da un dato sostanziale: l’Italia è al 25° posto nella classifica dei 28 Stati membri dell’UE, con un accesso alla rete, geograficamente, molto divaricato; ovvero c’è una grande separazione tra le grandi aree urbane dove si accede a internet con la fibra ottica e le piccole aree dove a malapena si raggiungono i 10 Mbps. Se prendiamo come esempio la maggioranza dei comuni lucani, con i loro 2 o 4 Mbps, la velocità scende ancora di più.

Dunque aumentare la velocità delle connessioni e, soprattutto, diminuire (se non annullare) il digital divide, è una priorità imprescindibile.

Anche l’attuale governo se n’è occupato ponendo al centro della proprio proposta politica un’agenda digitale come azione programmatica improcrastinabile. Peccato che in realtà è una semplice bandierina per il marketing politico di Renzi.

Perché dico questo?

Perché non riesco a capire il motivo per il quale si cambia azienda di riferimento, scegliendo una semi-pubblica come Enel, ma si approva un progetto (Enel Open Fiber) che non prevede un intervento capillare sul territorio ma solo in zone economicamente più omogenee (cioè più convenienti dal punto di vista dell’investimento) e quindi con un approccio di tipo privatistico-imprenditoriale.

Il cluster A, quello “con il migliore rapporto costi-benefici, dove è più probabile l’interesse degli operatori privati a investire”, raggruppa le 15 principali città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina, Padova e Trieste) e le loro aree industriali, dove risiede il 15% della popolazione  (9,4 milioni di persone).
Il cluster B, diviso ulteriormente in cluster B1  e cluster B2, è formato da 1.120 comuni nei quali risiede il 45% della popolazione (28,2 milioni di persone).
Il cluster C , 2.650 comuni con il 25% della popolazione (15,7 milioni di persone) rappresenta le aree marginali e rurali a “fallimento di mercato” , sulle quali si prevede l’intervento del privato solo a condizione di un adeguato sostegno dello Stato.
Il cluster D con i restanti 4.300 comuni (in maggioranza al Sud) e il 15% della popolazione (9,4 milioni di persone)  è l’area dove è previsto soltanto l’intervento pubblico.

In pratica il progetto prevede di portare la banda direttamente in casa del cliente finale (FTTH) ma principalmente laddove conviene di più,  e accadrà che Enel si occuperà di portare la rete nei cluster denominati A e B (ma nel frattempo soltanto a 244 comuni l’ultralarga),  mentre gli altri due (C e D) dovranno continuare ad aggrapparsi alla rete cellulare (almeno laddove arriva il 4G); infatti il programma governativo prevede la copertura del 100% entro il 2020 ma limitatamente ai 30 megabit.

Se si considera che i comuni italiani sono 8.085 la copertura in fibra, al momento, interesserà soltanto  il 3% del territorio.

In conclusione, quasi tutto il sud resterà al palo e per la Basilicata le cose non sono certo migliori.
Basta andare sul sito Infratel Italia  per scoprire che i 100 megabit sono previsti  soltanto nelle due città capoluogo, che in 64 comuni è in corso di completamento la 30 Mega e che nei restanti 65 comuni si oscillerà tra i 2 e i 20 mega.

La rete obliqua di FreedomBox

Sono in molti quelli che hanno l’impressione che internet sia un mare ingovernabile per natura e che non obbedisca a nessuna legge conosciuta. Se provi a chiedere notizie sulla libera informazione nella rete una buona percentuale risponde che internet è senza censura, per definizione, e che le notizie la attraversano libere e leggere come farfalle.
Poi ci sono quelli che riempiono culturalmente il concetto di “rete sociale” attraverso nuove dinamiche di organizzazione politica. Pensiamo a movimenti come  onda viola  che hanno usato la rete per veicolare velocemente idee e dibattiti o a chi, come il M5S, ne ha fatto un’impalcatura strutturale del proprio movimento.
Insomma le esperienze sembrano portare verso una certa idea orizzontale di rete o almeno obliqua.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza tecnica con reti e domini sa bene, invece, che la loro struttura è completamente verticale e rispetta un’indispensabile gerarchia a piramide (dall’ISP al rapporto tra server e client).  Se ci si addentra nella proprietà e nel controllo delle vie di comunicazione, come fa chi si occupa di geopolitica, la piramide diventa ancora più acuta.
Quindi chi parla di libertà in rete si riferisce, probabilmente, a piccoli fenomeni di dettaglio e tralascia le grandi dimensioni di macro-mediazione. Non a caso c’è che cita il Panopticon per definire il “lavoro sporco” di chi amministra i grandi hub di connessione. Se ci sono padroni si può anche fare come la Cina e se la Cina può spegnere Internet perché non dobbiamo farlo anche noi, hanno detto i democratici americani pensando all’Internet Kill Switch.
Insomma sembra che Internet non sia  proprio il paradiso, come sostiene Geert Lovink;  sarà il tempo di liberarlo?
Ovviamente non nel senso che qualche multinazionale intende quando pensa al raggio della torta, ma in quello di un possibile allargamento di struttura e sovrastruttura o meglio di una  grande diffusione sul territorio di nodi indipendenti di connessione.
Più o meno come qualcosa di cui ho già accennato qui, parlando di reti mash.
Un’idea è già venuta in mente a Eben Moglen, un professore della Columbia University che anni fa ha immaginato una piccola scatoletta che liberasse la connessione. E’ il FreedomBox, un mini server con un chip a bassa potenza che come un piccolo caricabatteria per cellulare si infila nella presa elettrica e trasforma ogni cittadino in un provider di se stesso (ma anche di altri).
Secondo Moglen quando il progetto sarà completo e diffuso ci si renderà liberi con la modica spesa di 29 dollari.
FreedomBox è un progetto collaborativo che grazie alla Debian community sta raggiungendo buoni risultati e fa ben sperare per il futuro.
La Fondazione che sostiene il progetto FreedomBox è guidata, ovviamente, da Eben Moglen con la collaborazione di Bdale Garbee  e di Yochai Benkler.

Cultura hacker ed ecosistema delle conoscenze

Si è appena concluso l’Internet Festival 2013 e tra i tanti resoconti voglio lasciare il mio, ma minimo, da partecipante parziale.
Sono arrivato a Pisa venerdì 11 e dopo aver corso per non perdermi la presentazione de “L’amore è strano”, ma non per Sterling quanto per salutare un’amica, grazie a mio figlio che studia in questa città, seguo un evento fuori dalla manifestazione in un’aula universitaria di fronte al dipartimento di matematica. Qui il gruppo Exploit ha organizzato la presentazione del libro “Biohaker” con l’autore, Alessandro Delfanti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico,.
Delfanti racconta una nuova visione della ricerca scientifica, dove “nuovo” sta per hacker; una cultura che oggi sta influenzando fortemente l’etica scientifica e in particolare la biomedicina, attraverso l’inclusione dei fondamenti culturali dell’etica hacker e del software free.
Nella società dell’informazione dove la lotta per (l’accesso) l’utilizzo del sapere è fondamentale, la cultura hacker si dimostra fondamentale nel processare una pratica “aperta”.
Basta poco per rendersi conto che senza dati pienamente accessibili non c’è ricerca. Ne sono un esempio il progetto di Craig Venter sul genoma, la messa in rete della sequenza del virus dell’aviaria di Ilaria Capua e la cura open source di Salvatore Iaconesi.
Delfanti e Iaconesi sono certi che l’Open, grazie alla rete  e alle sue capacità di produzione della conoscenza, sia di fatto la più grossa opportunità per realizzare un sapere alternativo.
Si tratta di superare le organizzazioni burocratiche, (università, sistemi sanitari, grandi organizzazioni internazionali) ancora incapaci di comprendere le potenzialità della rete, per valorizzare quell’ecosistema fatto da avanguardie (come ad esempio i biohacker) che praticano la cultura della libera circolazione digitale di dati e di ricerche.
Il ragionamento è continuato (anche se più superficialmente) con un respiro internazionale sabato mattina  alla Scuola Normale in un panel con Delfanti, Ravi Sundaram, Alex Giordano, Jaromil, Adam Arvidsson, Maitrayee Deka, e Carlo Saverio Iorio.
Il concetto fondamentale che qui doveva passare era quello di “societing”: un’idea d’impresa completamente aperta, un vero e proprio network che instauri nuovi e forti legami con il sociale quale unico valore a cui attingere; come, per esempio, il progetto Rural Hub raccontato da Giordano.

Raccontare il passato prossimo venturo [1]

Molti come me, forse, si fermano ogni tanto a ricordare cosa usavano in un certo passato (genericamente remoto), una cosa che i giovani fanno di meno, o per niente, soltanto perché questo esercizio mentale ha una relazione interdipendente con l’età anagrafica. La mia memoria si sveglia quasi sempre con un oggetto sul quale leggo le trasformazioni fisiche e funzionali: confronto quell’oggetto esperito in un passato, direttamente o indirettamente, con quello che sarebbe più o meno il suo corrispondente o quanto meno con la sua corrispondente funzione di oggi.

L’oggetto del mio racconto è un gettone telefonico, ritrovato in uno scatolino dimenticato in soffitta, che mi ha rinverdito il ricordo di quando, da militare, vedevo tutti i miei amici con le tasche piene fare lunghe file davanti alle cabine telefoniche per conversare alcuni minuti con i propri cari.  Io, che invece mi ero accordato per per una sola chiamata quindicinale con mia madre,  telefonavo quando ero in “libera uscita” da un posto telefonico pubblico che utilizzava il contatore di “scatti” (unità di misura tempo/conversazione tutt’ora in uso) così potevo pagare in lire. Qualche inconveniente o incomprensione ogni tanto nasceva ma aveva a che fare più con l’onestà del gestore che con la precisione del contatore.

Per inciso, c’erano dei vecchi telefoni che la SIP stava rimuovendo perché con un piccolo trucco potevi fare chiamate intercontinentali con un solo gettone, ma lì la fila era ancora più lunga e quindi non ne valeva la pena.

Il mio interrogativo, contemporaneo a quell’esperienza, era perché non ci fosse un qualcosa, un sistema, che potesse ridurre o eliminare quel trasporto di gettoni che seppure usati normalmente come monete, rimanevano pur sempre un pesante fardello. L’idea era diventata quasi una “fissazione” e spesso ne discutevo con qualche compagno di nottate sognando scenari alla “Star Trek”. Avevamo immaginato di tutto, dal telefono senza fili ai tele-trasportatori (altro inciso: ci chiedevamo “come mai Kirk e compagni si teletrasportavano dappertutto ma per muoversi sull’Enterprise andavano a piedi tra corridoi e ascensori…) non avevamo pensato alla semplice soluzione che già girava nelle grandi città. Me ne accorsi nella stazione di Napoli, che frequentavo per l’università, quando rimasi incantato di fronte a un nuovo telefono pubblico nel quale bastava inserire una scheda magnetica del valore di circa 10 gettoni.

Proprio quando ero convinto (come per il famoso “teorema della cacca di cavallo”) che dell’evoluzione del “gettone” era inutile occuparsene perché le future forme di comunicazione avrebbero reso inutile il telefono (“al massimo un video-citofono”, dicevamo ridendo a crepapelle, “tanto ci sarà il tele-trasporto”), invece il suo concetto rimaneva inalterato. Anzi l’oggetto-gettone, completamente trasportato nell’idea di “scatto”, si ampliava e recuperava uno spazio anche maggiore: pensate, per esempio,  allo “scatto alla risposta”.

Insomma, da buon sognatore, non coglievo ancora la differenza tra il sostituire la materia o il valore di un oggetto d’uso.

Rimanendo sempre “fissato” sull’idea di rivoluzione delle cose in generale, ho visto i primi cellulari osservandoli da una “piccolissima” finestra sull’America (il perché fosse piccola la finestra, unita al concetto di rivoluzione, la dicono lunga sulla mia formazione social-anarchica) ed ho subito pensato che quello era il segno concreto dell’iniziale rovesciamento dell’idea di telefono. Ma mentre io pensavo alla riduzione della distanza uomo/uomo in termini metrici, quella che invece si riduceva era la distanza uomo/telefono. “Beh”, pensai, “almeno non sarà più necessario correre a casa o in una cabina e poi se cerchi qualcuno lo trovi subito”.

Più o meno in quello stesso periodo, in una delle mie visite ai cugini di Parigi, rimasi “incerto” di fronte a un nuovo apparecchio messo di fianco al telefono: il “Minitel” (che, tra l’altro proprio questo mese chiude definitivamente i battenti). Loro cercarono di spiegarmi l’utilità di quell’oggetto come qualcosa che univa video e telefono in sorta di un fusione “interattiva” (il termine l’ho aggiunto io adesso, ovviamente) e io continuavo a vederci solo una semplice estensione telefonica. Quella sarebbe diventata internet e io continuavo a prevedere la scomparsa del telefono.

Ma chissà, non è mai detto.