Contro il cyberfascismo: autodifesa dei diritti digitali e indipendenza tecnologica

Questa è una traduzione del manifesto dall’hackmeeting spagnolo “Contra el ciberfascismo: autodefensa de derechos y soberanía tecnológica“.

Quando hanno rediretto i DNS catalani
non ho aperto bocca
perché non ero catalana.
Quando hanno sequestrato i server agli hacker,
non ho aperto bocca,
perché non ero un hacker.
Quando hanno bloccato gli indirizzi IP ai sindacalisti,
non ho alzato le mani in protesta,
perché non sono sindacalista.
Quando hanno tagliato la connessione ai migranti,
non ho detto una parola,
perché non sono un’immigrata.
Quando infine sono venuti e mi hanno sequestrato il telefono,
non c’era più nessun DNS, IP, servers o connessione che potessi usare, per denuciarli.

Martin Hackmölle

Le immagini della repressione contro le persone che hanno sostenuto il loro diritto a decidere per se stessi, il 1° ottobre in Catalunia, hanno fatto il giro del mondo. Più di 800 cittadini feriti e milioni di persone che ha partecipato al referendum, attestano la durezza repressiva di quel giorno: botte, calci e colpi contro persone che difendevano le urne, più la paura e l’incertezza di non sapere quando arrivano a prenderti.

Quello che NON ha avuto abbastanza attenzione sociale o mediatica è stata la repressione informatica che durante quel giorno e durante le due settimane precedenti ha colpito innumerevoli persone, infrastrutture, scuole, server, connessioni e dispositivi. Un attacco senza precedenti (né nello stato spagnolo né in Europa) e che crea un pericoloso precedente per brutalità e violenza tecnologica, soprattutto quando è occultato o presentato dai media come irrilevante, o perfettamente legittimo in un società democratica. Una violenza coperta dallo stesso sistema giudiziario che non ha esitato a dettare frasi bestiali e assurde come quelle di “cancellare l’identità digitale” di una persona il cui “crimine” è stato quello di insegnare a clonare un sito web. Una violenza praticata in tutti i livelli di Internet: fornitori, gestori di domini, contenuti, IP, DNS, connessioni e dispositivi.

Ecco una sintesi degli eventi repressivi che sono avvenuti in quei giorni:

  • Cambio dei DNS dagli operatori dei domini
  • Reindirizzamento del traffico HTTP
  • Blocco del traffico SSL-to-IP
  • Taglio fisico delle connessioni Internet della Rete Educativa della Regione
  • Chiusura di web hosting delle società di hosting catalane
  • Attacco DDoS all’IP per la registrazione nelle liste del referendum
  • Detenzione e minacce, alle persone che hanno inviato risposte via web, di requisizione dei dispositivi telefonici, computer e cambio della password dell’account Github
  • Monitoraggio degli IP delle istituzioni educative pubbliche
  • Rimozione di un’applicazione informativa dal Play Store (Android – Google)
  • Hanno obbligato i sysadmin a rivelare le password delle applicazioni delle istituzioni pubbliche

Alcune voci hanno descritto questi fatti come “la prima cyberguerra” contro la democrazia. Una guerra asimmetrica, dove un governo e le sue forze armate hanno attaccato con tutti mezzi possibili, mentre altri esseri umani difendevano in forma non violenta le loro infrastrutture e diritti digitali. In larga misura le istituzioni catalane e la società civile sono riuscite ad impedire alla repressione di arrivare al suo scopo. Ma questo tentativo è molto grave e le forze repressive hanno un obiettivo a cui noi abbiamo il dovere di opporci: vogliono attivare e normalizzare il fascismo cibernetico.

Come in tutte le guerre e le forme del fascismo, le prime vittime sono i diritti fondamentali: in questo caso il diritto all’accesso alle informazioni, il diritto di connettersi e il diritto all’espressione
libera.

Purtroppo, se non facciamo niente, il cyber fascismo “da solo” non si fermerà qui. Dalla Ingoberhack, l’Hackmeeting 2017 che è stato a Madrid, vogliamo denunciare i fatti e ricordare che:

1. Soprattutto e al di là di tutte le misure di protezione e di resistenza tecnologica, vogliamo e pratichiamo: il rispetto al diritto di accesso alle informazioni, la connessione e la libertà di
espressione, il diritto a infrastrutture che permettono alla gente di collegarsi, di dialogare e di esprimere i loro desideri, opinioni e affetti.

2. Quando la repressione viene esercitata su infrastrutture di internet, colpisce tutte le persone. È responsabilità di tutta la società denunciare e difendersi da questa repressione.

3. che la garanzia dell’esercizio effettivo di questi diritti, in ultima analisi, risiede in una sovranità tecnologia che ci riguarda in modo identico: nello sviluppo di infrastrutture di connettività libere, come Guifi.net, nello sviluppo e diffusione di sistemi di traffico distribuiti come Tor, nella costruzione e nell’uso di informazioni P2P come IPFS, nella promozione e nella formazione popolare di strumenti di crittografia (come GPG), nella promozione e la difesa del Software Libero.

4. che questa sovranità tecnologica e la libertà di informazione siano la condizione della possibilità di una società libera. Al di là di qualunque altra questione politica, dobbiamo difendere l’uso di questi strumenti che ci permettono di esprimerci e di organizzarci come esseri umani liberi.

Per questo motivo, al di là di specifiche opinioni politiche, lanciamo una chiamata per difendere i luoghi digitali che garantiscono la libertà di espressione tra pari.

Per approfondimenti qui.

Hackmeeting 2016 (0x13)


locandina
Un giorno di parecchi anni fa, mio padre, di ritorno da un viaggio a Roma, mi portò in regalo un’automobilina elettrica.  Una macchina di una qualche polizia americana, con una vistosa calotta di plastica arancione sul tettuccio e con due poliziotti all’interno dipinti di fronte sul parabrezza e di profilo sui finestrini laterali. Era molto colorata e voluminosa e aveva un interruttore sul fondo, vicino allo sportello delle batterie che, una volta posizionato su ON, faceva partire il suono di una sirena e di una musichetta di sottofondo, la calotta arancione iniziava a illuminarsi a intermittenza e la macchina partiva verso una direzione qualsiasi, mai la stessa. Con mio grande stupore e divertimento, l’automobilina quando cozzava conto un ostacolo non si bloccava ma rinculava e cambiava direzione, sempre. Io mi divertivo a posizionarla sotto il tavolo con tutte le sedie intorno, perché tra tutti quei piedi l’automobilina non riusciva mai a venirne fuori. Alla lunga avevo decifrato tutti i suoi movimenti (non molti in verità) e con una serie di ostacoli, ben posizionati, riuscivo a determinare sia il percorso che il punto di arrivo dell’automobilina. Fatto questo (per un bel po’ di volte) ormai quella macchinina non aveva nient’altro da raccontarmi. Non mi restava che smontarla e vedere com’era fatta dentro, quello sarebbe stato il suo racconto più interessante. Nelle mie intenzioni c’era la fretta si smontarla ma anche la preoccupazione di riuscire a rimontarla daccapo. Adottai delle procedure professionali, cercando di imitare mio padre quando smontava gli orologi, e collocai tutti i pezzi smontati uno accanto all’altro, in un qualche ordine che me ne ricordasse la loro posizione originale. Non ricordo bene se il rimontaggio fallì perché la memoria mi tradì o perché l’intervento di mio padre mise fine all’intero esperimento. Ricordo soltanto le parole di sconforto di mia madre che per molto tempo mi ricordò di aver “rotto” un bel giocattolo.

Lo so che questo racconto più che avere a che fare con gli hackers riguarda il normale mondo della curiosità dei bambini, ma un nesso deve pur esserci se ancora oggi, quando smonto e rimonto una lavatrice, un ferro da stiro o un computer, mi viene sempre in mente quella macchinina della polizia americana.

Probabilmente non è un caso il fatto che alcuni studenti del MIT di Boston, cinquantotto anni fa, iniziarono giocando con i trenini elettrici per poi passere a divertirsi con un IBM 704. Furono proprio loro i primi a riutilizzare il termine Hacker e un primo manifesto culturale fu, certamente, la performance di un TX-0  a cui Peter Samson fece suonare la fuga di Bach.  La filosofia di base era estremamente semplice ed esplicativa: “hands on”. Metterci le mani, provarci, ma se possibile condividerne il processo e l’esperienza. Per quale finalità? Conoscenza e divertimento, non necessariamente in questo ordine.

Hacker è il nome di un comportamento, di una cultura, di un’etica, di una filosofia che ha radici molto antiche, risalenti a quelle pratiche umane slegata da attività di produzione, del lavoro e del profitto e corroborate dalle varie correnti dello scetticismo come fluido vitale. Non ha nulla a che fare con nuove etiche del lavoro (quelle che secondo Pekka Himanen mettono in discussione l’etica protestante del lavoro)  ma su di esso ha e continua ad avere forti ricadute sociali. Il problema di fondo è lo spirito del godimento personale, o la passione, lontani non soltanto dal dovere e dalla costrizione ma anche dalla natura stessa del lavoro e della produzione (anche se non alienante).

Il gioco, che come dice Huizinga è precedente allo sviluppo della cultura. ha molta più pertinenza con i prodromi dell’idea hacker di mondo possibile di qualsiasi altra etica. E’ fine a se stesso, è mezzo di godimento individuale e collettivo, è altamente contaminato e contaminabile e la sua socialità non può prescindere dalla condivisione profonda, radicale, di tutte le conoscenze. Non può darsi un gioco collettivo se tutti i giocatori non sono in possesso dello stesso livello di conoscenza. Parliamo del grado non agonistico del gioco, la paidia (gioco libero, spontaneo) che Platone e Aristotele tenevano ben distinto dall’agon (gioco competitivo).

I primi oggetti hackerati sono proprio dei giocattoli creati dal riutilizzo (dissacrazione) di oggetti utilizzati per rituali religiosi o di attrezzi casalinghi e di uso comune.  E’ vero che l’hackeraggio ha avuto e continua ad avere una sua utilità e funzionalità che va al di là del gioco in se, nel senso di far sopravvivere (o reificare) oggetti o dinamiche da lavoro, ma in questo caso il gioco si è tutto consumato all’interno del processo di apertura e trasformazione. In ogni caso l’oggetto iniziale è un nuovo oggetto: non è più quello di partenza poiché ha perso segretezza ed ha aumentato la conoscenza e la comprensione.

Che fosse fondamentale il gioco ce lo svelano anche gli scritti sull’educazione di Rousseau; la riduzione della persona a soggetto logico di Kant, l’antipatia di Hegel per tutto ciò che non fosse sottomissione alla disciplina (unico modo per conseguire il sapere assoluto e universale) e un polimorfo movimento culturale come il dadaismo.

Basta esser curiosi e smaniosi di conoscere infilando le proprie mani negli oggetti che si hanno di fronte, per avere una visione hacker del mondo? Si, è probabile, ma dovrebbe essere essenziale anche la volontà di condividere quel processo o quel sapere acquisito senza innescare profitti e, soprattutto, senza fondare poteri. Questa, forse, è la più grande e sottile differenza che sta alla base di tante iniziative che nel nome ricordano la filosofia hacker ma che, invece, stanno a mille miglia di distanza. Dai tanti variopinti hackathon (addirittura istituzionali o industriali), ai molti inutili HackLab o FabLab che nascondono aziende che producono “dal basso” (?) o hackerspace come fonti di guadagno imprenditoriali.

Questo spirito che conserva in modo originario una filosofia della conoscibilità del mondo è, per ora, ancora ristretto e nella società dell’informazione è messo a dura prova da una piramide (come quella disegnata da Russell Ackoff) che allarga sempre di più la sua base (dei dati). Per fortuna un’idea hacker di approccio anche alle scienze, ma soprattutto alla sua metodologia di trattamento dei dati, come scrive Alessandro Delfanti in “Biohacker”, ci pone di fronte a nuove frontiere e nuovi compiti come quello di “scardinare la ricerca biologica con lo stesso approccio usato un tempo per hackerare un computer” (la svolta open access di Craig Venter, la condivisione sulla viaria di Ilaria Capua, il collettivo DIYbio o la performance di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico).

Il digitale e le nuove tecnologie sono, ovviamente, il terreno da osservare con maggiore scrupolo. Un’indagine critica sulla natura concettuale e i principi fondamentali dell’informazione, comprese le dinamiche collegate alla computazione, alla manipolazione meccanica di dati, al flusso informazionale (processo di raccolta e di scambio delle informazioni) e all’etica legata al suo utilizzo sono, necessariamente, i nuovi oggetti con cui giocare, le nuove teorie e pratiche da penetrare e da comprendere.

Momenti di confronto ce ne sono e quello degli hackmeeting sono fondamentali per indagare il conoscibile.

Come recita l’about del sito hackmeeting.org,  c’è un raduno periodico delle controculture digitali che ogni anno mette insieme tutti coloro che amano “gestire se stessi e la propria vita e che si battono per farlo”.

Quest’anno mediattivisti, ricercatori e semplici appassionati che si riconoscono nella filosofia hacker, si ritroveranno al Polo Fibonacci dell’Università di Pisa, dal 3 al 5 giugno, per l’edizione 2016 di Hackmeeting Italia.HM2

L’incontro annuale delle controculture digitali italiane, delle comunità che si pongono in maniera critica rispetto ai meccanismi di sviluppo delle tecnologie e dell’informazione, si svilupperà su tre giorni di seminari, giochi, feste, dibattiti, scambi di idee e apprendimento collettivo. Si analizzeranno le tecnologie che utilizziamo quotidianamente, come cambiano e che stravolgimenti inducono sulle nostre vite, quale ruolo è possibile all’interno del cambiamento.

L’evento è totalmente autogestito: non ci sono organizzatori e fruitori, ma solo partecipanti.

Qui trovate la mappa del meeting.

La comunità Hackmeeting ha una lista di discussione dove poter chiedere informazioni e seguire le attività della comunità.
Esiste anche un canale IRC (Internet Relay Chat) dove poter discutere e chiacchierare con tutti i membri della comunità: collegati al server irc.autistici.org ed entra nel canale #hackit99.

Per tutto il resto leggetevi l’articolo  di Daniele Gambetta, di eigenLab Pisa e ne capirete di più.