Tsipras: tra europeismo e trasformismo

La linea maggioritaria di Syriza (o semplicemente quella governativa) continua a contare nuovi fronti di opposizione: dalle dimissioni di Varoufakis alla scissione dell’ala radicale (che con 25 deputati hanno dato vita a “Unione Popolare”), dalle dimissioni di Giorgos Romanias da segretario dell’Istituto per la Previdenza Sociale (che su Mega Channel ha dichiarato di non voler tradire le promesse elettorali e di non volersi prendere la responsabilità di varare una controriforma delle pensioni) fino alle ultime dimissioni  di Tasos Koronakis, segretario del partito che accusa Tsipras di aver deciso di andare al nuove elezioni contrariamente a quanto deciso nel Comitato Centrale.

via Wikipedia
via Wikipedia

Considerando l’alta eterogeneità politica di Syriza (vedi la bella tabella di Wikipedia) probabilmente c’era da aspettarselo, infatti gran parte degli osservatori parlavano da tempo di una bomba a orologeria. Così come era dato per certo che  Tsipras scartasse (o driblasse) le posizioni estremiste del partito in favore di quelle più moderate e maggioritarie e di una linea collimante con la sua filosofia europeista.

Eppure molti (anche io), hanno creduto nel fronte dell’OXI come trampolino della rivalsa alle imposizioni tedesche, addirittura sperando di andare fino in fondo. E anche se, da italiani, dovremmo essere abituati all’idea che i referendum non vengano rispettati, siamo rimasti interdetti, stupiti. L’inversione della rotta e la proposta peggiorativa di Tsipras rispetto a quella di Juncker non poteva che lasciarci l’amaro in bocca. Che avessimo mal compreso o enfatizzato troppo le parole spese in campagna referendaria?

Invece era tutto così elementare e secondo Manolo Monereo  si chiama semplicemente “trasformismo” (“instrumento para ampliar la clase política dominante con los rebeldes, con los revolucionarios, asumiendo algunas de sus reivindicaciones a cambio de neutralizar y dividir a las clases subalternas”). La strategia usata è quella della cooptazione dei leader popolari per convincere la base dell’inesistenza di alternative reali e praticabili.

Poi chissà se l’idea di promuovere politiche economiche differenti da quelle di Bruxelles, impersonificando la protesta contro l’inefficacia dell’austerità, faceva parte di una reale piattaforma politica o era, fin dall’inizio, solo un finto contrappeso della trattativa. Chissà se fin da principio l’obiettivo principale era garantire un neoliberismo di fatto.

Cosa c’è adesso?

Un’alleanza ancora più stretta con la destra e con l’ala più moderata di Syriza in modo da assicurarsi una vittoria alle prossime elezioni. La costruzione di una maggioranza più coesa intorno al progetto europeista iniziale. Raggiungere definitivamente l’obiettivo principale: racimolare migliori condizione dalle trattative con la troika.

Ecco che le elezioni invocate da Tsipras non appaiono più come un richiamo alla democrazia, alla consultazione della base, ma come un semplice espediente, una strategia politica, per far emergere il dissenso interno all’esterno del movimento, schiacciarlo nella prova elettorale e uscirne vincitore senza passare per alcun dibattito interno.

Il 20 settembre Tsipras vincerà e sarà confermato quale unico leader greco e la strada dell’austerità europea farà il suo percorso.

Che ne sarà della sinistra?

Forse si riprenderà e si riorganizzerà; forse ci vorrà del tempo… ma una cosa è certa: almeno il trasformismo sarà spezzato.

 

Ma cos'è quest'Europa

Come dicono Ballerin e Vannuccini su L’Espresso “la cosa preoccupante è che i media abbiano preso l’abitudine di pattinarci sopra come se fosse la superficie piana e liscia dell’ovvia normalità”.

E’ come se tutti noi ci fossimo abituati all’idea che l’Europa non è proprio come l’avevamo immaginata.  Cioè, non un’unione di stati paritari, indipendentemente dalla loro forza economica, ma una semplice congrega in cui pochi soggetti, la Germania in particolare, controllano e bilanciano esclusivamente interessi economici.

Insomma dopo l’entrata dell’euro, la storia ci consegna un’Europa con una moneta forte che, in questi anni, ha soltanto impedito svalutazioni “terapeutiche”, costringendo diversi paesi a diventare poco competitivi sul mercato estero e troppo deboli su quello interno.

Mentre in Italia, per esempio, si utilizzava la svalutazione monetaria nei periodi di crisi per favorire l’esportazione, in Germania si adottavano politiche economiche e fiscali che risanavano i mercati interni. Politiche che sarebbero poi servite per stabilire dei parametri generalizzati a Bruxelles.

Ecco che, per esempio in Grecia, al di là della corruzione, l’evasione, ecc…, il forte euro ha abbassato notevolmente gli afflussi turistici in favore di altri paesi con moneta più debole (Tunisia, Egitto, Giordania, ecc…)  ed ha aperto il mercato interno a prodotti che nel 70% dei casi è di origini tedesche.

Quindi, di fatto, la Germania è diventata quasi concorrente di se stessa nella zona euro.

In sostanza (e il referendum greco questo può significare) non soltanto l’euro si è dimostrato come uno strumento di fallimento ma anche il modello sociale che si è tentato di esportare è fallimentare. E questo lo sa pure la Germania che in tutto questo clima di crisi ha mirato soltanto a portare a casa il grosso bottino ma senza neanche voler diventare l’unica potenza che guida l’Europa.

L’Italia, la Grecia e tutti gli altri stati deboli non possono svalutare alcunché per riprendersi e devono, in alternativa, adottare un modello austero che attraverso un capitalismo di sottosviluppo erode progressivamente lo stato sociale.

Che fare?

Mai come adesso non ci resta che “investire in democrazia”, come dicono Vattimo e Pisani,  appropriandoci dello spazio della politica.

Razza europea un tanto al chilo

euroSyriza decide di capire cosa ne pensa il popolo greco della proposta europea e i commentatori, i critici, gli specialisti e puritani si sprecano in ragionamenti di carattere tecnico.
La questione è invece assai semplice ed è più che etica: capire se la linea di opposizione alla decisione europea, che Tsipras definisce come “ricatto della Troika”,  è condivisa dal popolo greco.  In parlamento la decisione è stata votata con una discreta maggioranza (179 voti a favore e 120 contro) così come nel paese c’è una timida conferma se si prende per buono il sondaggio di Kapa Research che da al “SI” un 47%.

Ecco il perché di un referendum. Perché quando un fardello diventa insostenibile, prima di appesantirlo ulteriormente, bisogna chiedere a chi lo porta se ha ancora voglia di caricarsi.

La Grecia ha un rapporto debito/PIL  del 175%, l’Italia del 132,6%, mentre la media europea è del 87,4% e dunque chiaro il contesto entro cui ragionare: accettare di annegare una società e di affamare un popolo fin troppo umiliato dall’Europa. Del perché si sia arrivati a questo i greci lo sanno fin troppo bene e la sola risposta è PASOK e Nea Demokratia.

Non si tratta di una “finta democrazia”, come dice Ernesto; qui il problema non può esser visto con un’ottica open (se i documenti si reperiscano o meno facilmente) dal momento che da mesi non si parla d’altro: dalla TV alla stampa, per finire ai bar e ai barbieri della penisola ellenica. La stragrande maggioranza dei greci sa benissimo che questo è lo sforzo di un governo che cerca di salvare la dignità di un popolo e l’etica di quel progetto  contenuto nel Manifesto di Ventotene.  Anzi, come sostenuto da Krugman, l’eventuale vittoria al referendum conferirebbe ancora più legittimità democratica al governo Tsipras.

L’idea di Syriza è quella di rimanere in Europa nella piena autonomia di scelte politiche che non facciano decadere i livelli sociali al di sotto delle realistiche possibilità di vita. Ma non sembra essere questo l’interesse di Bruxelles. Se amate i numeri è bene sapere che la Grecia ha una spesa pubblica che è quasi il 43% del PIL e quella tedesca supera tale percentuale, con la differenza che in tutti questi anni critici la Germania è l’unico paese dove il PIL è comunque continuato a crescere. Allora, forse, ha ragione Adriano Manna quando insinua su quella strana somiglianza tra lo statuto della BCE e quello della Banca Centrale tedesca.