La scuola che ci meritiamo

numeriChissà perché ogni volta che vado a prendere un caffè alla pasticceria Salza di Pisa, non mi viene in mente niente della scuola, sarà che non prendo il tè o che non mi intervistano, fatto sta che l’idea di Carrozza mi ha fatto correre un piccolo brivido lungo la schiena. Sono quei piccoli e stupidi brividi che per un attimo m’impensieriscono: non è la febbre e neanche il freddo o la stanchezza ma un pensiero anzi, una preoccupazione.
Mentre discuto su Facebook con un’amica ho pensato a come si intervistassero tra loro Gentile e Lombardo Radice tra il 1922 e il 1923.
La scuola è una brutta rogna e ne sanno qualcosa tutti i precari, gli abitanti delle graduatorie a macchia di leopardo, i docenti, gli studenti e tutti quelli che nel bene o nel male ci girano intorno anche solo collateralmente nel periodo di vita scolastica dei propri figli. Ecco perché la Carrozza avrà pensato di chiedere a loro cosa ne pensano e come la vedono…
Non è proprio una gran cosa venirsene fuori con una customer satisfaction; invece che 10 domande sarebbero bastate 3 risposte chiare: un salto all’indietro a prima della riforma Gelmini (recuperando anche i tagli di quel genio di Monti) e intraprendere una via di uscita dai danni delle riforme di Berlinguer e della Moratti, e anche di D’onofrio.
E’ poco? Allora aggiungo che le università devono essere il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese.

Era questa la scuola che ci meritavamo?

L'università deformata

Marco Bascetta, su “Il Manifesto” del 24 luglio, introduceva il concetto di deformazione per parlare dei mali dell’Università italiana.  Secondo il giornalista gli unici colpevoli dell’involuzione universitaria sono “i cosiddetti liberisti di sinistra“; quelli che hanno inventato le lauree brevi (spesso con fantasiose intitolazioni) e moltiplicato a dismisura corsi di laurea, master e specializzazioni. Se non si è accecati dall’ideologia -dice Bascetta-  è chiaro che «l’Università italiana non è stata devastata da un’assenza di riforme, ma da una sovrabbondanza di cattive riforme».  Questa sovrabbondanza di cui parla Bascetta partirebbe, probabilmente, dalla riforma Ruberti, passando attraverso Zecchino-BerlinguerMoratti e in giù fino alla Gelmini. Più o meno tutto quanto è stato necessario per deformare e piegare i saperi al mercato produttivo in diverse forme, ma senza mai interrogarsi se fosse stato il caso di adeguare il mercato del lavoro all’università, alla ricerca e alla sperimentazione (ma queste son cose che oggi sembrerebbero del tutto aliene dalla realtà).

Questo stato di cose aderisce, come una pellicola trasparente, alle vicende dell’Università della Basilicata e in particolar modo a quanto è accaduto alla Facoltà di Lettere e Filosofia.  Dopo le proteste, le chiacchiere e i vari impegni viene fuori il fattibile, il possibile: al posto dei quattro corsi di laurea triennale (“Lettere”, “Lingue e culture moderne europee”, “Operatore dei beni culturali”, “Scienze della comunicazione”) se ne aprono due (“Studi letterari, linguistici e storico filosofici”  e “Operatore dei beni culturali” che viene confermato) e i tre corsi di laure specialistica (“Linguistica, filologia e letteratura”, “Nuove tecnologie per la storia e i beni culturali” e “Teoria e filosofia della comunicazione”) ne diventano quattro (“Archeologia e studi classici”,  “Scienze del turismo e dei patrimoni culturali”, “Scienze filosofiche e della comunicazione” e “Storia e civiltà europee”).

In sostanza gli studenti lucani non troveranno più uno dei corsi più antichi, quello  di Lingue e nemmeno il più frequentato in assoluto, Scienze della comunicazione. Mentre il secondo ritorna nel nome di una specialistica (Scienze filosofiche e della comunicazione) il primo sparisce completamente dall’Università di Basilicata.

Fin qui niente di nuovo, è stato annunciato, masticato e anche completamente digerito e nessune ne vuole più parlare, neanche adesso che sono aperte le iscrizione ai nuovi corsi.

La novità è nel disprezzo che l’Unibas dimostra per i propri laureati in Scienze della Comunicazione (confermando così quel nomignolo di “scienze delle merendine” tanto ingiusto quanto popolare). Fino allo scorso anno accademico questi laureati avevano un corso di laurea specialistica a cui iscriversi “senza debiti” oggi, invece, sono costretti a recuperare 35 CFU pur provenendo dalla stessa facoltà, con gli stessi professori e gli stessi insegnamenti.

A qualcuno sembrerà anche un’inezia ma se riflettiamo per un po’ non ci sembrerà proprio una cosa da poco che i professori che hanno laureato centinaia di studenti sono gli stessi che oggi ammettono di aver preparato poco e male.

Insomma è come se l’Unibas ammettesse ufficialmente le colpe di una “mala educazione” e riconoscendo, per parte dei suoi laureati, lo stato di “figli illegittimi” voglia cancellare il passato (il proprio) con un colpo di spugna, incentivando, anche, l’emigrazione verso altre università.

Questo è il grande ponte “deformato” che l’università di Basilicata ha saputo creare tra vecchio e nuovo. E questo è soltanto uno sfogo isolato perchè la cosa interessa veramente poche persone, pochi studenti, nessun politico e nessun giornalista.

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Che fare dopo il 30?

Me lo chiede qui Astronik e invece di rispondere al commento provo a fare un post di incitamento.

Il decreto Gelmini sarebbe stato approvato comunque e questo, quelli un pò più lungimiranti, lo sapevano da un pezzo. Sia perché il governo avrebbe rischiato una brutta crisi e soprattutto perchè la finanziaria, di cui quel decreto è figlio, era già approvata da un pezzo.

Ma che fare da domani in poi ?

Secondo me sono percorribili soltanto due strade:

1) tornare in buon ordine nei propri banchi e ai propri posti di lavoro e sperare che qualcosa cambi o migliori sotto la spinta dell’azione dell’opposizione in parlamento (qualcosa del genere accadde dopo l’approvazione della “riforma Moratti”) e di qualche regione come questa.

2) Continuare con la protesta e spingere fino in fondo senza guardare indietro. Ricordiamoci di qualche anno fa quando i giovani precari francesi hanno assediato Parigi contro il “ Contrat première embauche”. Anzi allargare la protesta, come sostengo da tempo, alle rivendicazioni contrattuali ragionando e stimolando la discussione sui posti di lavoro al di fuori dei binari sindacali (anche perchè CISL e UIL sembrano favorevoli all’accordo).

Insomma, come urlato nel post precedente, mio caro Astronik, “ce n’est qu’un debut continue le combat !

ce n’est qu’un debut continue le combat !

Gli studenti conoscono con precisione la riforma Gelmini, lo si capisce dalle forme di protesta e dagli slogan urlati in piazza: “noi non pagheremo la vostra crisi”.
C’è un governo, o meglio un pensiero politico,  che vuole tagliare tutto ciò che ritiene sterile,  improduttivo e che non risponde alle logiche di mercato (salari, pensioni, servizi pubblici, stipendi, organico, precari, ecc.) e vuole incrementare tutte le spese che salvaguardino l’arrembaggio privato all’economia di stato (appalti inutili, spese militari, sostegno al capitale, salvataggi alle banche, ecc.). Praticamenten la politica è questa: privatizziamo i profitti e socializziamo le perdite.

E’ ovvio, non dovrei neanche dirlo, che chi deve pagare il prezzo di tutto questo sono i lavoratori,  i precari, i pensionati e gli studenti.

Le manifestazioni di questi giorni oltre a dare, come già detto, un preciso segnale in direzione della comprensione di questo solito e diabolico meccanismo stanno (finalmente) anche accrescendo  lo spirito critico, l’indignazione, la rabbia, e anche quel vecchio fenomeno che anni fa si chiamava “coscienza di classe“  e che oggi potremo definire sociale, politica, democraticadelle, ecc….

Berlusconi, poi Cossiga (quello con la k e le S runiche) e infine Gelmini dicono che c’è poco da discutere.

Si ma, dico io, discutere di cosa ?

C’è solo da fare: o si blocca la riforma oppure  (dopo il voto di mercoledì in parlamento) si continua la lotta, con un vecchio ma sostanzioso grido: “ce n’est qu’un debut continue le combat !“.

Anzi direi che sarebbe proprio il caso di estendere il “movimento”  anche ai lavoratori  (che poi sono in parte  genitori) unificando quelle vertenze contrattuali che dovrebbero vedere in piazza i lavoratori dal 30 ottobre al 14 novembre.

Tanto la controparte è la stessa.