C’è un tema che riguarda l’uomo e le teorie (e le pratiche) intorno alla sua esistenza che, mai come in questo periodo, sembra più impellente che in passato. La sussistenza degli individui, in un modo o nell’altro, è al centro delle preoccupazioni politiche di soggetti diversamente impegnati nel sociale. Lo fa, per esempio, il governo italiano con quei concetti surrettizi che hanno ispirato sia il Jobs act che l’Expo 2015 e che Guido Viale, su Il Manifesto, rubrica sotto la logica del trickle-down. Sono impegnati, ovviamente, anche movimenti, sindacati e partiti che con una grande disparità di argomenti pensano a forme di reddito generalizzate, di inserimento o assistenziali. In qualche modo quasi tutti i ragionamenti messi in campo, ruotano intorno al lavoro e al reddito come conseguenza, ma anche viceversa.
Insomma, il dubbio sembra essere costituito proprio dal nucleo della questione esistenza: puntare sul lavoro per tutti, in ogni modo e ad ogni costo, o sul reddito al di là del lavoro?
In Italia ci sono solo due proposte parlamentari in campo: quella del M5S che prevede un reddito di € 780 per circa 9 milioni di persone e quella di SEL di € 600 a chi ne guadagna meno di 8.000 l’anno.
Qualcosa che in qualche maniera ricorda, più o meno, quel “Reddito minimo di inserimento” già sperimentato in 300 comuni italiani nel 1998 (dal primo Governo Prodi e Livia Turco come ministro delle Politiche Sociali).
Poi ci sono proposte che, superando l’idea dell’ammortizzazione sociale, inseriscono concetti più ampi come la liberazione dal ricatto del lavoro e l’autonomia della propria esistenza.
“Le ragioni del reddito di esistenza universale“, edito da Ombre Corte nel 2014, è un libro nel quale l’idea di reddito di esistenza è vista come capacità di eliminare la tendenza al controllo della vita degli individui. Una vita sempre più legata al mondo della produttività sociale e a concetti di cittadinanza fondati sul diritto di proprietà.
Di questo, e di qualcos’altro, abbiamo parlato con Giacomo Pisani, autore del volume.
Giacomo, Tito Boeri evidenzia una differenza sostanziale tra “reddito di cittadinanza” e “reddito minimo garantito”. Il primo ha costi altissimi e quindi improbabile, l’altro, con costi più contenuti è più praticabile. E, sempre secondo Tito Boeri e Roberto Perotti, un reddito di tipo universalistico, e non selettivo, ha almeno due fattori di sconvenienza: il primo è che nessuno lavorerebbe per meno o poco più del reddito garantito e il secondo che non sarebbe comunque realizzabile “economicamente”, perché anche solo un reddito minimo di € 500 porterebbe a una spesa di circa il 20% del Pil.
Innanzitutto grazie per la possibilità offertami di discutere di reddito e di altre cose che mi stanno particolarmente a cuore. Non sono contrario, in generale, a forme di reddito “ridotte” (redditi di formazione, redditi regionali, ecc…), a condizione che sia mantenuta l’incondizionatezza come principio cardine del dispositivo. Anche in forme di reddito più limitate l’universalità deve costituire un limite ideale fondamentale. Condizionare l’elargizione del reddito al merito, alle capacità ecc può renderlo un fattore di ricatto tremendo. Il reddito universale, invece, è un fattore di emancipazione completamente diverso da qualsiasi reddito finalizzato all’inclusione sociale: esso, liberando gli individui dal ricatto della povertà e del lavoro gratuito e sottopagato, costituisce il presupposto indispensabile per mettere in discussione un mercato del lavoro che fa della precarizzazione dei progetti, del ricatto e dello sfruttamento cognitivo e affettivo i propri dispositivi di assoggettamento privilegiati.
Considerando che il Movimento 5 stelle ha una buona presenza in parlamento, la loro proposta di “reddito di cittadinanza”, unita anche a quella di SEL e di una parte del PD, potrebbe essere un buon inizio?
Sicuramente può essere un buon inizio, ma credo sia importante in questo momento non considerare il reddito di esistenza come un dispositivo isolato, elargito dal governo di turno, ma come uno strumento fondamentale per innescare un processo costituente che ponga la centralità – anche a livello istituzionale – della cooperazione e della produzione cognitiva al di fuori dei dispositivi di privatizzazione e assoggettamento tipici della governance neoliberale. Esiste oggi, soprattutto presso le nuove generazioni, un grande potenziale cognitivo e creativo, continuamente messo a valore in un mercato che spesso non ha neanche la necessità di riconoscere da un punto di vista contrattuale il contributo di ciascuno in termini di produzione. L’esistenza stessa, nella sua dimensione sociale, è messa a valore e neutralizzata nel suo potenziale di conflitto. Per questo c’è oggi la necessità di politicizzare il sociale, costruendo un modo diverso di produrre e cooperare, ponendo al centro la condivisione e le pratiche mutualistiche e rompendo, al tempo stesso, in questa stessa dimensione sociale in cui gioca il capitale, la valorizzazione neoliberale.
La “coalizione sociale”, nata in questi giorni, mi sembra stia costruendo da questo punto di vista un terreno importante da cui partire.
Nietzsche diceva che il lavoro metteva in discussione il senso stesso della vita (“Il lavoro logora una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare”); Marx, nei Grundrisse, ipotizzava un superamento sia del capitalismo che del lavoro; Marcuse e Russell parlavano semplicemente di “non-lavoro” e il gruppo Krisis di “tempo liberato” nel loro “Manifesto contro il lavoro“.
Oggi, quali analisi ti sembrano ancora valide in un mondo che decentra e isola ancor di più?
Continuo a pensare che il lavoro sia il fattore peculiare di differenziazione che trasforma l’uomo da parte integrante della natura a parte specifica di essa. Il lavoro è il momento in cui l’uomo, assumendo la sua esposizione alla storia e ai rapporti sociali, da forma al mondo e si lega ad esso in un rapporto dialettico. Quando parliamo di lavoro, però, parliamo sempre di lavoro storicamente determinato. Il lavoro è un rapporto sociale, non esiste lavoro in astratto. Oggi il rapporto dialettico in cui il lavoro consiste è rotto da dispositivi di ricatto e assoggettamento che fanno dell’individuo un ingranaggio costretto a rincorrere la propria esistenza fra contrattini (spesso senza alcuna attinenza con il proprio percorso di studi e di formazione), stage gratuiti e lunghi periodi di disoccupazione, senza la possibilità di progettare il proprio futuro a lungo termine. Il reddito di esistenza è un fattore di decostruzione che riapre per il soggetto la partita con la realtà e col proprio futuro.
Come si innesta il reddito universale in un modello di società costruita sul “contratto sociale”, con il lavoro tra i suoi principi fondamentali?
Esiste una importante scuola di matrice neo-contrattualista che sostiene il reddito di base, che in parte ho ripreso all’interno del mio libro. Si tratta di una prospettiva molto interessante e con cui è importante dialogare, ma credo sia necessario non perdere di vista i rapporti materiali al di sotto della legge e rispetto a cui il diritto diviene funzionale. Il reddito non è importante perché fa capo ad un qualche diritto fondamentale inscritto nella natura umana, ma perché costituisce un bisogno urgente per una molteplicità di soggetti eccedenti (precari, disoccupati, autonomi a partita iva, freelance, migranti, operai, lavoratori della conoscenza ecc…). Strumento di tutela sindacale, oltre l’insufficienza di un welfare lavorista frutto del compromesso fordista, ma anche dispositivo di rottura e autodeterminazione.
Ma il reddito universale è un punto di arrivo? Basta a fondare di fatto un nuovo modello sociale o, come dice Toni Negri, può essere un mezzo per “inventare il comune”.
Il reddito è tutt’altro che un punto di arrivo. E’ certamente uno strumento per costruire una società fondata sulla cooperazione e sui beni comuni, e quindi di innesco di un processo che è però ancora tutto da costruire. E’ vero, infatti, che la socializzazione dei processi di produzione rende oggi l’astrazione totale, ed ogni processo di autodeterminazione a livello sociale è già un colpo inferto al capitale. Quest’ultimo, però, è ancora vivo e vegeto nella determinazione di rapporti, forme di vita e processi di produzione. C’è quindi l’urgenza di pensare un welfare dal basso che sperimenti pratiche del comune oltre le forme canoniche della rappresentanza istituzionale, e che includa una coalizione ampia di soggetti sociali entro la costruzione di orizzonti di senso che non si sottraggano all’astrazione del mercato per ricercare un’isola di autenticità da cui guardare le brutture del mondo. E’ necessario invece un processo di riappropriazione che, attraverso la condivisione, faccia di quel bagaglio di capacità immateriali di cui si nutre il capitalismo cognitivo la posta in gioco per la creazione di una società nuova.
Cosa non va nella risoluzione del Parlamento europeo del 2010, sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà (2010/2039)?
Quella risoluzione demanda ai singoli stati nazionali l’attuazione del reddito. Oggi che i processi di produzione hanno una dimensione trans-nazionale e la sovranità statale è in forte crisi, mi sembra un’idea di difficile attuazione. Inoltre, non penso che si incida sui rapporti di produzione con un ritorno alla forma-stato, ma portando il conflitto sul piano europeo. Questo è un punto centrale, che non solo il percorso dello “sciopero sociale” ha avuto bene e a mente e sta portando all’interno della coalizione sociale, ma è determinante anche nella prospettiva politica di Syriza e Podemos. E’ necessario costruire un’Europa dei diritti contro l’Europa dei mercati, strappando alla lex mercatoria spazi di progettazione politica che pongano al centro la gestione comune dei beni e dei servizi indispensabile al soddisfacimento dei bisogni fondamentali della molteplicità di soggetti eccedenti che abbiamo citato.
Nel libro concludi citando Martha Nussbaum la quale, tra l’altro, sostiene che i cittadini vanno formati e la strada non è così immediata (in “Non per profitto“).
Credo che la Nussbaum ponga una questione centrale: la capacità è un concetto esigente. E’ necessario che siano disposte le condizioni sostanziali perché possa “funzionare”. La retorica del merito e delle capacità è vuota e astratta, se non si connette con una critica delle condizioni sociali e dei bisogni fondamentali che in esse maturano. Reddito e beni comuni per me vanno in questa direzione: sottrarre al mercato spazi di progettazione della realtà, con il riconoscimento sostanziale dei diritti fondamentali connessi con i bisogni, più che con un qualche modello sociale ideale, costruito a priori. Per questo la battaglia è politica, e ci coinvolge tutti.
Tu sostieni che il postmodernismo (e la sua “fiducia acritica dei media e dei nuovi spazi di comunicazione”) abbia legittimato il riassorbimento delle differenze entro un terreno neutrale, relegando il tutto nella “chiacchiera totalizzante”. Sembra una concezione anni ’80… pre-internet, o sbaglio?
La società dei media e della comunicazione generalizzata, più che favorire la messa in comunicazione degli orizzonti storici locali e la messa in discussione di qualsiasi principio di realtà e di potere, ha immesso i soggetti in un’arena neutra. Qui, deprivati degli strumenti ermeneutici indispensabili per la comprensione e la critica della società, sono stati messi a valore anche attraverso un investimento sempre più ampio sulle forme di vita e di relazione. In questo mondo, che è anche un mondo di affetti e di vita, non c’è però solo neutralità e incapacità di progettarsi. C’è anche un altissimo potenziale eversivo, quello di una generazione in grado di creare continuamente i propri linguaggi e le proprie forme di sopravvivenza. E’ una generazione che vuole riprendere a dire il mondo, e che oggi deve riprendersi tutto.
Giacomo Pisani, classe 1989, laureato in Filosofia, dottorando di ricerca in Diritti e Istituzioni presso l’Università degli Studi di Torino e collaboratore con la cattedra di Sociologia del Diritto del prof. Luigi Pannarale, presso l’Università degli Studi di Bari. Giornalista pubblicista, direttore della rivista “Generazione zero” oltre che collaboratore di numerose riviste, tra cui “Critica liberale”, “filosofia.it” e “Alfabeta2”.
Tra le sue pubblicazioni troviamo: “La scienza nell’età della tecnica”, in M. Centrone, V. Copertino, R. de Gennaro, M. di Modugno e G. Pisani; “La conoscenza in una società libera” (Levante editori, 2011); “Il gergo della postmodernità” (Unicopli, 2012); “Tecnica ed esistenza nella postmodernità”, in A. Nizza e A. Mallamo (a cura di), Polisofia (Nuova cultura, 2012), “Work between fordism and post-fordism”, in “Why human capital is imporant for organizations” (Palgrave, 2014).
Unico relatore italiano alla Conferenza internazionale sul Basic Income che si terra a Firenze il 26 e 27 giugno prossimi.