Netstrike (HowTo e sciopero sociale)

pugno-redAccade in questi anni, in questi giorni, che un complesso mondo costituito da quasi 4 milioni di lavoratori “senza volto” (atipici o astabili che neanche i sindacati riescono a rappresentare o anche solo ad averne una visione d’insieme), rivendichi il proprio diritto di esistenza.
E capita che in tempi di crisi si faccia spazio quell’incapacità, tutta istituzionale, nel non saper rispondere alle richieste emergenti dalla società.  Anzi, solitamente, questa incapacità viene accompagnata da una “reazione” violenta, spesso di tipo preventivo, tendente a disarticolare le forme di associazionismo derivanti.
Questo mondo-altro, a un certo punto, decide di auto-riprodurre la propria identità attraverso la rappresentazione, anonima e dissenziente, del  malessere e del disagio.
La domanda che questi si rivolgono è:  chi l’ha detto che lo sciopero è una macchina di esclusivo appannaggio sindacale?
Ed ecco proclamato lo sciopero sociale del 14 novembre, con l’obiettivo di esprimere un secco, ma forte, no al Jobs Act di Poletti-Renzi e alla loro fabbrica della precarietà.
L’evento fa esultare Bascetta, su Il Manifesto,  intorno a una “coalizione di intel­li­genza” che, liberandosi dai modelli categoriali del neo­li­be­ri­smo, può riunire il lavoro dipen­dente alle “atti­vità senza nome e senza reddito“.
La cosa ancor più interessante, per chi come me ha sempre un occhio attento al digitale e ai social media, sono i podromi dello sciopero sociale: l’intenzione di occupare anche gli spazi della comunicazione impersonale che si sono moltiplicati nella società post moderna.
Anzi, per dirla con le parole di Eigen-Lab, “rovesciare il tavolo dello spazio di dibattito offerto e creato dai social networks per prenderlo dall’interno, per trasformarlo in spazio politico“.2014-10-10_165730
Con l’idea che  “batte il tempo dello sciopero sociale” ci sono già stati dei primi avvicinamenti ai social con prove tecniche di Tweetstorm.  Prove  che hanno portato il 10 ottobre, in preparazione e diffusione dello sciopero sociale, a lanciare  una “guerrilla tag”  con l’hashtag  #socialstrike  che ha scalato la classifica dei trending topic  e in soli 12 minuti ha raggiunto il secondo posto, per assestarsi al terzo per circa tre ore  (il primo posto sarà giustamente tenuto dall’hashtag sull’alluvione a Genova).
L’evento viene ripetuto nuovamente  il giorno prima dello sciopero sociale del 14 novembre con l’hashtag #incrociamolebraccia  e  anche questa volta si scala la classifica e si raggiunge la quinta posizione.
Insomma è importante che si stiano studiando i meccanismi che rendono più visibili gli argomenti in discussione attraverso la riappropriazione degli algoritmi che sono alla base dei social network.  L’operazione è immane e importante perché tende ad 10734005_1546081938965218_3448433219448854954_n-e1417027657349intaccare il potere di chi decide il valore dei contenuti che riempiono il web.  Occupare gli spazi e condizionare i contenuti vuol dire ribaltare i rapporti di forza all’interno dei social che per definizione dovrebbero avere un alto valore in basso.  Dunque, immaginare delle pratiche collettive di sciopero che attraversino la rete è la dimostrazione che un modo, per certi versi autoestraneizzatosi dai social,  può e vuole riappropriarsi di tutto quanto riversato, giorno per giorno, istante per istante, in questi colossi digitali di vita sociale .

E’ ovvio che tutto dovrà essere  migliorato, affinato, digerito e certamente nel prossimo futuro si riuscirà a mettere in piedi anche un vero e proprio NetStrike.
Di sicuro la strada è tracciata e le basi di un nuovo linguaggio comune sono state gettate.
Non resta che riempire di idee e contenuti quell’ipotesi di  “coalizione di intelligenza” di cui parlava Bascetta, anche attraverso la riunificazione dei movimenti che in tal senso già operano da anni, come lo storico Hacktivism, poi tutto il resto è il presente.

 

L'università deformata

Marco Bascetta, su “Il Manifesto” del 24 luglio, introduceva il concetto di deformazione per parlare dei mali dell’Università italiana.  Secondo il giornalista gli unici colpevoli dell’involuzione universitaria sono “i cosiddetti liberisti di sinistra“; quelli che hanno inventato le lauree brevi (spesso con fantasiose intitolazioni) e moltiplicato a dismisura corsi di laurea, master e specializzazioni. Se non si è accecati dall’ideologia -dice Bascetta-  è chiaro che «l’Università italiana non è stata devastata da un’assenza di riforme, ma da una sovrabbondanza di cattive riforme».  Questa sovrabbondanza di cui parla Bascetta partirebbe, probabilmente, dalla riforma Ruberti, passando attraverso Zecchino-BerlinguerMoratti e in giù fino alla Gelmini. Più o meno tutto quanto è stato necessario per deformare e piegare i saperi al mercato produttivo in diverse forme, ma senza mai interrogarsi se fosse stato il caso di adeguare il mercato del lavoro all’università, alla ricerca e alla sperimentazione (ma queste son cose che oggi sembrerebbero del tutto aliene dalla realtà).

Questo stato di cose aderisce, come una pellicola trasparente, alle vicende dell’Università della Basilicata e in particolar modo a quanto è accaduto alla Facoltà di Lettere e Filosofia.  Dopo le proteste, le chiacchiere e i vari impegni viene fuori il fattibile, il possibile: al posto dei quattro corsi di laurea triennale (“Lettere”, “Lingue e culture moderne europee”, “Operatore dei beni culturali”, “Scienze della comunicazione”) se ne aprono due (“Studi letterari, linguistici e storico filosofici”  e “Operatore dei beni culturali” che viene confermato) e i tre corsi di laure specialistica (“Linguistica, filologia e letteratura”, “Nuove tecnologie per la storia e i beni culturali” e “Teoria e filosofia della comunicazione”) ne diventano quattro (“Archeologia e studi classici”,  “Scienze del turismo e dei patrimoni culturali”, “Scienze filosofiche e della comunicazione” e “Storia e civiltà europee”).

In sostanza gli studenti lucani non troveranno più uno dei corsi più antichi, quello  di Lingue e nemmeno il più frequentato in assoluto, Scienze della comunicazione. Mentre il secondo ritorna nel nome di una specialistica (Scienze filosofiche e della comunicazione) il primo sparisce completamente dall’Università di Basilicata.

Fin qui niente di nuovo, è stato annunciato, masticato e anche completamente digerito e nessune ne vuole più parlare, neanche adesso che sono aperte le iscrizione ai nuovi corsi.

La novità è nel disprezzo che l’Unibas dimostra per i propri laureati in Scienze della Comunicazione (confermando così quel nomignolo di “scienze delle merendine” tanto ingiusto quanto popolare). Fino allo scorso anno accademico questi laureati avevano un corso di laurea specialistica a cui iscriversi “senza debiti” oggi, invece, sono costretti a recuperare 35 CFU pur provenendo dalla stessa facoltà, con gli stessi professori e gli stessi insegnamenti.

A qualcuno sembrerà anche un’inezia ma se riflettiamo per un po’ non ci sembrerà proprio una cosa da poco che i professori che hanno laureato centinaia di studenti sono gli stessi che oggi ammettono di aver preparato poco e male.

Insomma è come se l’Unibas ammettesse ufficialmente le colpe di una “mala educazione” e riconoscendo, per parte dei suoi laureati, lo stato di “figli illegittimi” voglia cancellare il passato (il proprio) con un colpo di spugna, incentivando, anche, l’emigrazione verso altre università.

Questo è il grande ponte “deformato” che l’università di Basilicata ha saputo creare tra vecchio e nuovo. E questo è soltanto uno sfogo isolato perchè la cosa interessa veramente poche persone, pochi studenti, nessun politico e nessun giornalista.

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