Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo?

Se vi chiedete, come fanno i bambini curiosi, quanto è lungo l’universo rimarrete sorpresi nel sapere che non si sa.

Ignoriamo quasi completamente cosa sia in realtà e facciamo soltanto delle buone ipotesi su quanto sia esteso quello  “osservabile“.

Sappiamo, dice Amedeo Balbi, di poter guardare al massimo fino all’orizzonte e  che, siccome la luce viaggia con una velocità finita, quel limite sta a 13,7 miliardi di anni-luce (che è l’età dell’universo) moltiplicata per la sua velocità di espansione. Dunque  approssimativamente il suo raggio potrebbe essere di 50 miliardi di anni luce.

Se vi va di trastullarvi in altre teorie intorno all’universo c’è quella interessante sulla sua  forma  e  quella sulla sua fine; ma ciò che mi ha colpito (per cui la ragione del post) è il fatto che al momento non disponiamo delle conoscenze adatte per approssimare un ragionamento oltre l’osservabile e mi chiedo il perché.  Forse che la tecnologia non ci supporti ancora abbastanza?

Oppure è probabile che non possiamo farcela noi ma un “altro-uomo”, come immagina Vernor Vingederivante da nuove interfacce con il  computer e con un’intelligenza di molto superiore a quella umana attuale.

Arrivati a quel punto saremmo in grado anche di creare energia pulita e curare malattie secolari.

Io ci ho fantasticato su che ero ancora un ragazzino mentre leggevo “L’ultima domanda” di Asimov  e poi quando, per studi accademici, mi sono occupato (anche) di “transumanesimo“.

Jason Pontin sbotta dicendo che:

«Il meraviglioso potere della tecnologia doveva essere impiegato per risolvere i nostri grandi problemi. Ma guardando il presente, che cosa è accaduto? Le app per telefoni cellulari è tutto quel abbiamo raggiunto?»

Chissà….  “forse si e forse no”, ma io concordo poco con questi ragionamenti sostanzialmente heideggeriani.  C’è una cosa, però, che mi sento di sottolineare ed è quella  “necessità di un presa di coscienza” di cui parla Nicola Palmarini : il fatto che non v’è alcuna ragione per non capire che siamo noi oggi e non qualcun altro domani a dover agire per migliorare il mondo.

Quei robot come noi

jetson robotPer Aristotele esistono tre tipi di uomini: il primo è  quello che possiede la piena statura morale e vive nell’apertura della ragione e dello spirito; il secondo pur non essendo così completo da ascolto a chi ha l’autorità e il terzo invece oltre a non avere il dominio di se stesso neanche ascolta l’autorità altrui.
Per Asimov c’è un solo tipo di robot che però ubbidisce a tre leggi.
E’ possibile concludere che i tre uomini di Aristotele fabbricano quel robot e stabiliscono le tre leggi ma, ovviamente, anche no.
Un’altra ipotesi potrebbe essere che i robot si autocostruiscano (lasciando da parte questioni del tipo prima l’uovo o la gallina) e se ne freghino completamente dell’uomo.
Ecco, tutti quelli che sono propensi a quest’ultima ipotesi nel leggere di Sverker Johansson hanno sicuramente pensato a scenari apocalittici e hanno fatto bene, perché quei robot vivono con noi e tra noi e crescono con noi.
Quelli più complicati e sofisticati li riconosciamo facilmente perché fanno il “lavoro sporco”.
Chiedetelo al ragazzino che gioca a Unreal Tournament o a Call of Duty; al vecchio costruttore di siti che semina esche per i Crawler; o a qualcuno che ha a che fare con certi centri di ricerca.  A quelli più semplici, o comuni, non ci badiamo più, sono ormai mischiati a noi come ultracorpi, e neanche riusciamo più a immaginare un’altra esistenza senza di loro.
Se non la prendiamo troppo da lontano (il primo utensile) e neanche troppo da vicino (Curiosity), restando sul pezzo, possiamo chiederci in quanti usino un correttore ortografico,  non clicchino per cercare sinonimi o non si facciano ancora guidare da quel vecchio T9.
Sono questi i nostri robot e pure Johansson ha trovato a chi far fare quel maledetto “lavoro sporco”.  Si chiama Lsjbot ed è un piccolo robot che per lui ha scartabellato milioni e milioni di informazioni digitali (database e fonti varie) per poi confezionare nuove voci su Wikipedia.
I puristi con la penna d’oca possono stare tranquilli perché tutte le voci create in modo automatico sono ben evidenziate da Wikipedia che crea anche elenchi di testi creati da bot in attesa di correzione.

Certo gli errori non mancano mai. Per esempio aver utilizzato, nella programmazione di Lsjbot, solo informazioni registrate in alfabeto latino ha fatto scartare al bot tutte le informazioni, pur molto pertinenti, scritte in cirillico.
Ma si sa, gli errori possono capitare e se “errare è umano” ecco che anche i bot sbagliano.

Tra viaggio e metaviaggio

«Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore»
(Robert M. Pirsig – Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta )

Kerouac map

Per capirsi è sempre, o quasi sempre, meglio intendersi sulle basi comuni di partenza. Di partenza e non di arrivo ci si preoccupa, quindi, quando si è in procinto di mettersi in viaggio con la mente o con il corpo. E di viaggio si parla sia nell’uno che nell’altro caso. O che abbia veramente fatto la valigia o se sto semplicemente iniziando un ragionamento con un amico oppure se ho soltanto superato la prima di copertina di un libro, sto compiendo il mio viaggio.

Certo, se qualcuno mi parla di viaggi a me vengono in mente tante cose ma quelle che suscitano di più la mia attenzione sono i racconti di un viaggio; le impressioni del viaggiatore, i suoi punti di vista diretti o obliqui sul mondo.

Non dimenticherò mai l’entusiasmo di un mio amico nel cercare di farmi comprendere, a gesti e urla, l’esagerata smodatezza dimensionale  di un’America raccontandomi della grandezza dei rubinetti delle vasche da bagno degli hotel, o di quella delle confezioni di latte o succhi di frutta  nei supermarket di New York.  Dai racconti se ne ricava sempre qualche massima e la sua fu che l’America è grande anche nelle cose piccole.

In sostanza o si viaggia per raccontare o si legge (o si ascolta) per viaggiare.

Per questo fin da bambino in viaggio non riuscivo a leggere se non di notte; il giorno anche soltanto appiccicato con il naso a un finestrino  assaggiavo con gli  occhi tutti i posti che mi scivolavano davanti. Immaginavo con la velocità di un flash istanti di vita di un mondo che sarebbe potuto essere o divenire concreto nella realtà ma sempre assai dissimile dalla mia enciclopedia familiare.  Ma quei micro viaggi lasciavano ben presto il posto a immagini macroscopiche che avrebbero occupato a vita la mia memoria. Se penso, per esempio,  ai primi viaggi verso Roma o Venezia o Milano o Parigi ricordo bene il Colosseo, piazza san Marco,  il Duomo e la Tour Eiffel ma ho completamente cancellato i particolari del viaggio di andata. Probabilmente se fossi stato un scrittore avrei appuntato tutte le impressioni del viaggio anche se forse le avrei scartate in seguito, ma solo in seguito. Un po’ come quando, in epoca analogica, scattavamo centinaia di fotografia senza mai stamparne i negativi.

Un tragitto diventa viaggio attraverso il racconto e con il racconto quel viaggio  diventa metaviaggio.

Chi non ricorda “I viaggi di Gulliver”,  “Il milione” oppure l’inferno di Dante (anche senza le illustrazioni di Dorè)  o anche le accurate descrizioni manzoniane dei viaggi di Renzo ? Insomma, a conti fatti, abbiamo più viaggiato stando fermi che prendendo treni o autobus.

Ecco perché vorrei mettere 4 pietre miliari in un percorso compiuto in gioventù, attraverso quei libri che mi hanno fatto viaggiare o spinto più lontano possibile.

Il primo fu “On the road”  di Kerouac che lessi attentamente con un maniaco interesse  per le tappe geografiche (alla “google maps”).  Ricordo che disegnai una piccola cartina degli Stati Uniti su cui indicai i percorsi che DeanSal compievano sulle highways che dall’America portavano in Messico.

Fantastic Voyage”, diventato “allucinante” nella traduzione italiana sia del libro che della versione cinematografica,  di Isaac Asimov ha rappresentato invece  l’esperienza del viaggio impossibile poiché non  al di fuori ma al di dentro di un corpo umano non come percorso metaforico ma fisico-biologico.

Quello tratto dalle memorie di Woody Guthrie, “Questa terra è la mia terra” (“Bound for glory”), è il percorso-fuga degli hoboes lungo le strade ferrate dell’America della depressione; tutto raccontato sulle corde di una chitarra su cui era inciso “Questa macchina ammazza i fascisti!”.

L’ultimo, “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig, è forse la sintesi degli itinerari  da dentro a fuori e da fuori a dentro. Un percorso in motocicletta dal Minnesota al Pacifico che diventa viaggio degli occhi e della mente.  Come recita la quarta di copertina “Qual è la differenza fra chi viaggia in motocicletta sapendo come la moto funziona e chi non lo sa? In che misura ci si deve occupare della manutenzione della propria motocicletta? Mentre guarda smaglianti prati blu di fiori di lino, nella mente del narratore si formula una risposta: «Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore».