La santa crociata del porco

Un breve racconto tratto dal libro “La santa crociata del porco” di Wolf Bukowski che, come dice lo stesso autore, parla dell’uso che razzisti e fascisti fanno del maiale; dell’uso che il capitalismo fa delle prescrizioni alimentari religiose e del maiale in carne e ossa, ovvero della macellazione industriale.
E’ interessare, anche, vedere come una notizie nasce e viene riportata e come nasce una bufala razzista.

Il 30 dello stesso settembre del 2015, a Rovereto, gli operai posizionano e cementano a terra un dondolo nel giardino dell’asilo comunale di via Saibanti. E’ a forma di maiale. Per permettere alla base di saldarsi prima che cominci l’assalto dei bambini («Un maialino! Prima iooo! L’ho visto prima iooo!») lo trincerano spostando due panchine.
Quando le maestre vedono il nuovo dondolo, restano perplesse per le sue dimensioni. In effetti, nonostante il nome da catalogo sia maialino Piggy (modello xfarm 15), a giudicare dalle foto che si trovano in rete si tratta di un verro di tutto rispetto. Cosi’ le insegnanti decidono di telefonare all’ufficio comunale competente: «I nostri bambini vanno dai due ai sei anni, e se poi si fanno male? Quel maiale ci sembra tanto grande!».  L’ufficio promette di approfondire la questione e scrive alla Holzhof, produttrice di arredi urbani e fornitrice di Piggy. Giovedi’ 1 veberdi’ 2 passano tra il fissaggio del cemento, la telefonata e la richiesta di verifica del Comune. Albeggia appena sabato 3, e il giornale locale Trentino (che nel 2015 fa ancora parte del gruppo editoriale L’EpressoRepubblica), pubblica un articolo a firma di Giancarlo Rudari:

Scuola materna, il maialino “condannato: i genitori musulmani […] fanno togliere il gioco perche’ offenderebbe la loro religione. C’è un maialino rosa, sorridente e paffutello che diverte i bambini dell’asilo. E’ soltanto un gioco, ma non per questo riesce ad evitare la “condanna a morte”: via quel dondolo dagli occhi e dalle innocenti tentazioni dei bambini che vogliono giocare perche’ offende la religione musulmana, via il maialino rosa perche’ i bambini non devono farsi contaminare da quell’animale impuro (per la religione del profeta Maometto) anche se e’ di plastica. E allora meglio oscurarlo con le panchine in attesa che venga rimosso. Succede questo alla scuola materna di via Saibanti: genitori che protestano per il gioco installato nel giardino qualche giorno fa, la direzione della scuola che chiama il comune e ne sollecita la rimozione. La scuola e i genitori che protestano vengono accontentati e, questione di giorni, addio al maialino a molla.

La sola fonte citata nell’articolo è un anonimo genitore che inanella perle come il classico: «dove vogliamo arrivare se andiamo avanti di questo passo?»; oppure: «si parla tanto di integrazione, si fanno grandi discorsi su confronto e accoglienza e qui siamo tutti d’accordo. Ma poi […] si va a cedere ad una richiesta assurda. E la richiesta,a questo punto, diventa imposizione…».
Ebbene, chiunque abbia figli sa che i momenti di attesa davanti a scuola, o ai giardinetti, producono una quantità incredibile di pettegolezzi e calunnie. Mentre i bambini giocano innocentemente, mamme e papa’ e nonne e zii, che tra loro magari si odiano segretamente, fanno capannello e inventano storie razziste, discriminatorie, grondanti odio malriposto; poi le ripetono, le rielaborano e nel giro di pochi minuti le eleggono a vere. Di frasi come quelle attribuite al genitore ne ho sentite io stesso piu’ e piu’ volte, negli anni in cui attendevo mia figlia davanti a scuola o al parco pubblico. Sono frasi riferite a tutto, a niente, a qualcosa di inventato, a qualcosa di travisato. Non sono spiegazione ne’ commento di nulla. Sono sintomi del vuoto, di sofferenza non riconosciuta e delle enormi difficolta’ che si hanno a fare i genitori in una societa’ ostile, che si finge amica dei bambini solo per nascondere l’odio verso l’umano che pervade. Non che questo giustifichi il pronunciarle, ovviamente. Ma cosi’ e’.
Poi pero’ quelle stesse parole basta stamparle sul giornale perche’ facciano un salto di qualita’ e si tarsformino in armi. Armi che subito qualcuno corre a impugnare. Come fa il giorno stesso, con prosa sgangherata su Facebook, il consigliere provinciale Claudio Civettini, ex leghista poi eletto nella lista “Civica trentina”:

Dopo presepi, crocefissi, feste del papa’ o della mamma, ecco che la contaminazione dell’impurita’ arriverebbe per i mussulmani, dalla presenza di un dondolo a forma di maialetto e nel nome di un’integrazione al rovescio, ecco che le autorita’ privano i bimbi trentini a un gioco candido e puro, per integrarli al credo di altre religioni che a casa loro hanno il diritto di gestire, ma che in terra trentina, è un’indicazione ridicola […] di questo passo dovremo noi subire imposizioni di qualsiasi genere, anche davanti alla banalita’ di un animaletto simpatico […] dimenticandoci che ogni male, nasce dai comportamenti delle persone – uomini e donne – che nel 2015 per motivi religiosi sanno arrivare a sgozzare animalesticamente persone o farsi saltare come kamikaze per guadagnarsi la morte del paradiso! [sic].
Le prime preoccupazioni del consigliere provinciale Filippo Degasperi, invece, sono nientemeno che per la costituzione, l’illuminismo e la tutela dei beni comuni. Ci sono cinque stelle a rischiarare il suo cielo, e si vede!
In primis, vi e’ un atto unilateralmente oscurantista che non fa parte della nostra tradizione giuridica e che calpesta la Costituzione, che come sappiamo garantisce il diritto a manifestare e alla liberta’ di espressione;
In secundis, vi e’ un problema di danneggiamento del patrimonio pubblico Trentino, che ha reso non utilizzabili ai cittadini un gioco e due panchine;
In tertiis, vi e’ un problema piu’ vasto e forse maggiore allarme sociale. Parliamo spesso di integrazione e crediamo che sia un aspetto molto importante per regolare in maniera ottimale quella che e’ la trasformazione demografica in atto nel Trentino. Tuttavia la domanda e’ chi deve integrare cosa. Sono i nuovi italiani a integrarsi con quelli che sono gli usi e i costumi del Trentino, oppure sono i Trentini a doversi integrare con quelli che sono gli usi e i costumi dei “nuovi italiani”?

Ogni argine e’ ormai travolto: lo dice il giornale locale, lo dicono i rappresentanti istituzionali. La bufala razzista è diventata verita’. (si noti come il ruolo dei social, nella vicenda, sia di mera amplificazione. Anzi, la credibilita’ e’ attestata da un media di eta’ veneranda, quasi obsoleto: il giornale quotidiano). Ormai, come una valanga lanciata giu’ dai duemila metri del monte Stivo, la mistificazione si autoalimenta, cresce su se stessa.
Lunedi’ 5 ottobre Mary Tagliazucchi su Il Giornale riferisce che «molte famiglie musulmane si sono […] lamentate e […] hanno richiesto la disinstallazione» del porcellino; lo stesso giorno Matteo Salvini a Porta a Porta (Rai 1) delinea la controffensiva: «Non ti piace la giostra col maialino? Torna al tuo paese! Vai sul dondolo a forma di giraffa, di canguro, di serpentello: tor-na-al-tuo-pa-e-se!».
Intanto, fuori da questa slavina di cazzate, la Holzhof ha risposto: il maialino Piggy, presentando una seduta avvolgente, e’ da considerarsi adatto a «bimbi di eta’ da due-sei anni, […] come gia’ esposto sul sito internet e sul catalogo ufficiale della scrivente».
Il Comune, dopo aver ricordato di non aver ricevuto alcun tipo di pressione in merito al maialino, informa che considera il dondolo sicuro, e quindi non ci sara’ alcuna rimozione.

perlomeno fino a che, dopo un periodo di sperimentazione, non si valuti diversamente. Infatti, al di la’ delle certificazioni, ci possono essere valutazioni di poca idoneita’ che provengono dall’esperienza diretta dell’utilizzo del gioco da parte dei bambini, in particolare dei più piccoli.
(Comunicato stampa, 5 ottobre 2015)

Ma gli islamofobi vogliono giocare sporco anche nell’ultima mano, accreditandosi il merito di aver costretto il Comune a un dietrofront, e di aver quindi sventato l’allarme che loro stessi avevano procurato. «Un porcello vittoriosa bandiera di liberta’», scrive Il Giornale del  6 ottobre; mentre Maurizio Crippa, giornalista di scuola ciellina, il 7 ottobre su Il Foglio si augura «che la riscossa, se non dal crocefisso o dal presepe, avvenga nel nome del maialino. A dondolo».

La Cura. Ritrovare la sintonia con l’universo

E’ appena uscito in libreria (da qualche giorno anche in ebook) “La cura”, l’ultimo libro di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico pubblicato da Codice Edizioni.

Un libro straordinario, come dice Biava nella prefazione, per ciò che ci insegna e rappresenta, e  per il coraggio e la volontà mostrati dai due autori nel percorrere una via nuova e completamente ignota in una situazione drammatica e pericolosa, che solitamente si conclude in modo triste e doloroso.

Ne parlo con gli autori per i quali, in rete, c’è una infinità di definizioni, ma a me piace vederli semplicemente come due hackers che di questa filosofia (alcuni direbbero etica) ne hanno fatto l’unico modo di vedere e vivere il mondo.

Salvatore, partiamo dalla scoperta della malattia e dalla ribellione verso lo status di malato.

Un banale incidente in piscina nel 2012 si trasforma in un incubo: facendo lastre e accertamenti mi diagnosticano un cancro al cervello. Da lì nasce una riflessione immediata: appena avuta la diagnosi ed entrato in ospedale sono scomparso. L’essere umano Salvatore Iaconesi svanisce, rimpiazzato da dati medici, immagini, parametri corporei. Il linguaggio cambia, e subentra una separazione netta, sia nei dottori che nelle persone, amici e parenti: divento a tutti gli effetti la mia malattia. Nessuno parla più di te, ma dei tuoi dati, che oltretutto non sono per te. Un giorno, mentre ero in ospedale, ho chiesto una immagine del mio cancro, perché volevo vederlo, parlarci, stabilirci un rapporto. È stato difficilissimo ottenerla. Ma deve pagare un ticket per ottenerla? E la privacy? Ci deve firmare una liberatoria? E cosa succede se gli diamo una immagine del “suo cancro” e poi esce fuori che non si trattava, dopotutto, di un tumore e poi ci denuncia? E tanti altri problemi. L’immagine del mio corpo non era per me. Come tutti gli altri dati. Era un segnale della mia scomparsa: Salvatore Iaconesi messo in attesa, rimpiazzato dal paziente X, entità amministrativo-burocratica destinatario di servizi e protocolli di cura.
Questa sospensione, questa separazione dall’essere umano dal mondo, dalla società, mi sembrava una cosa gravissima.
Per ottenere la mia cartella clinica digitale mi sono dovuto dimettere dall’ospedale. Mi sono dimesso da paziente.
Appena ricevuta la cartella, qualche giorno dopo, ho avuto una sorpresa amara: il paziente X mi aveva seguito fino a casa. Aprendo i file ho scoperto che erano in formato DICOM, un formato che è tecnicamente aperto, ma che non è per persone ordinarie: è per tecnici, radiologi, chirurghi, ricercatori. Non è qualcosa che posso usare in maniera semplice e accessibile dal mio computer, che posso inoltrare in una mail o condividere sui social network. È un file per tecnici: per aprirlo devo installare software differenti, imparare i linguaggi e le pratiche della medicina. Semplicemente, di nuovo, le immagini del mio corpo non erano per me: era il paziente X, destinato ad essere amministrato dai tecnici.
In questi due momenti, la richiesta dell’immagine del mio cancro e l’arrivo della cartella clinica, è iniziata La Cura. Ho aperto i file, li ho tradotti in formati “per esseri umani” e li ho pubblicati online, aprendo la cura a tutti. L’atto di tradurre quei file in formati per “esseri umani”, per le persone comuni, cose che puoi mandare via mail, o condividere sui social network, è corrisposto al riappropriarmi della mia umanità, all’uscire dalla separazione e a far rientrare la malattia nella società.

Chi vi conosce sa che la Cura va oltre la storia personale, anzi è una piccola cassetta degli attrezzi per facilitare la comprensione di un dislivello di potere.

Noi la chiamiamo performance partecipativa aperta, nel senso che il suo scopo è il creare uno spazio sociale interconnesso, usando le tecnologie, le reti, ma anche la prossimità, la solidarietà, le relazioni umane, in cui abbia senso costruire soluzioni collaborative per i problemi del mondo. In questo caso è il mio cancro, ma potrebbe essere applicato a tanti altri, come mostrano ad esempio i nostri altri lavori in questo senso.
Il libro, in questo senso è un elemento fondamentale, perché è non è solo una storia, ma anche uno strumento.
La cura è una piattaforma per l’immaginazione, per aumentare la percezione di ciò che è possibile, per costruire senso, nella società. E le persone hanno compreso perfettamente: è difficile contare quanti sono stati e quanti sono ad oggi i contatti che abbiamo avuto, che sono avvenuti in centinaia di modi differenti, dalla rete, al venirci a bussare a casa e tutto quel che c’è nel mezzo, ma si parla di circa 1 milione di persone.

Continuate a occuparvi di osservazioni delle dinamiche sociali all’interno delle comunità, in che senso è un “ecosistema”?

Per noi diventa sempre più difficile capire cosa sia lavoro e cosa sia “vita”. Certo è che con l’una costruiamo significato per l’altro e viceversa. In tutto questo il concetto di “ecosistema” assume un ruolo fondamentale. L’ecosistema è il luogo della coesistenza. L’ecosistema non è lo spazio/tempo in cui tutti vanno d’accordo, ma il contesto in cui tutti si rappresentano e in cui, attraverso i conflitti e le tensioni tramite cui ci si posiziona nel mondo, si creano le dinamiche per la coesistenza. In qualche modo si può dire che ogni cosa che facciamo, che sia un progetto o un’opera d’arte, sia dedicata allo studio degli ecosistemi. Anche La Cura è un ecosistema: è il contesto in cui la malattia viene tirata fuori dall’ospedale e aperta alla società, in modo che tutti possano rappresentarsi e rappresentare, sviluppando discorsi e interazioni da cui possa essere costruito il senso: la malattia, qui, diventa un ambiente aperto, in cui tutti partecipano alla cura, che siano medici, artisti, ingegneri, hacker o altri tipi di persone. Proprio come non ci si ammala da soli – perché quando ci ammaliamo la vita cambia per i nostri amici e parenti, i datori di lavoro, i commercianti presso cui andiamo a fare la spesa, la previdenza sociale e, quindi tutta una nazione – non ha senso cercare la cura solo all’interno dell’ospedale. Sarebbe ingenuo e incompleto. Ha molto senso, invece, cercarla nell’ecosistema, nella società, con la partecipazione di tutti. Non solo ha senso, crea senso, con la possibilità di scoprire nuove forme di solidarietà e collaborazione, trasformando la cura da qualcosa che compri in qualcosa che fai, con gli altri.

Foucault parla di biopolitica riferendosi al potere del capitale sulla vita, sul corpo umano (come specie) e sul suo controllo, voi parlate di biopolitica dei dati.

I dati sono una cosa complessa. Abbiamo, ormai, imparato a parlarne con toni e atteggiamenti che in altre epoche si dedicavano agli argomenti religiosi. Stiamo diventando molto ingenui quando si parla di dati, presupponendo che valga in qualche modo una equivalenza tra dati e la realtà. Ovviamente, non è così. I dati sono tra le cose meno obiettive che conosco. In sociologia si dice che il dato è “costruito”, indicando il fatto che raccogliere dati corrisponde ad effettuare delle scelte: quali sensori scegliere, dove posizionarli, quali domande fare, quali dati catturare, quali scartare, come interpretarli, come visualizzarli. Sono scelte, non verità di qualche genere. Operando su questi parametri è possibile, in linea di principio, osservare lo stesso fenomeno e generare dati anche diametralmente opposti, in contrasto. E qui interviene la biopolitica, ovvero l’insieme di modi in cui i poteri operano per esercitare il controllo e per determinare corpi e soggetti. Il controllo avviene per classificazioni: classificando determino la realtà. Decido se stai bene o male, se puoi guidare o meno, se puoi fare un certo lavoro o no, se sei a rischio o meno, quanto paghi l’assicurazione, se puoi avere un conto in banca o acquistare una casa. Tutte queste cose hanno a che fare con i dati: pochi soggetti, dotati di potere, scelgono parametri e soglie e, in questo modo, definiscono la realtà. La cosa incredibile è che nulla di tutto ciò ha a che vedere con le persone, con le relazioni umane, con la società. La salute è particolarmente evidente in questo: qualcuno stabilisce dei protocolli e delle soglie per i parametri corporei in modo da determinare se sei malato o no. Io magari ho un valore di 1.4 per un certo parametro di misurazione del mio corpo, e la soglia della malattia è a 1.5. Se, domani, dovessero cambiare la soglia e impostarla a 1.3, io, senza che sia intervenuto alcun cambiamento nel mio corpo, diverrei ufficialmente malato. Sarei la stessa persona di ieri. Non mi farebbe male una spalla, un braccio o il fegato. Non sarebbe cambiato nulla in me. Ma, per i dati, io sarei malato. Sperando oltretutto che chi varia la soglia non lo faccia solo per “generare” potenzialmente milioni di “malati” aggiuntivi, per poter piazzare prodotti e servizi.
Questo è un potere enorme. E questi processi avvengono di continuo: nella scuola, nel lavoro, nella salute, nella finanza, nelle banche, nelle assicurazioni, con i prezzi di cibo, acqua, medicine, energia, su Facebook e Google, dovunque.
Il dato diventa uno strumento di controllo, di definizione della realtà per poterla controllare, in modo algoritmico. Questa è la biopolitica del dato.

Qual è il racconto di Oriana?

Nel libro la storia (della performance) è raccontata da due punti di vista, come vedere la stessa stanza ma da due inquadrature differenti, naturalmente tutto cambia anche se la stanza è la stessa. Non racconto una storia differente, è la mia “posizione” a essere diversa.
Nel corso della scrittura siamo arrivati a definire mano mano la struttura: il libro della Cura è diviso in sezioni (7 a voler essere precisi). Ogni sezione è divisa in tre tipologie di capitoli, contrassegnati da tre icone. Quelli “S” sono la storia dal punto di vista di Salvatore, quelli “O” di Oriana, gli “R” sono la ricerca: attraversando discipline e argomenti molto differenti fra loro, affrontano i temi che emergono attraverso la storia. Infine ci sono le parti “W”, come workshop: non dei capitoli, piuttosto dei box, degli inserti che contengono una sintetica descrizione dei workshop che completano la sezione. Ogni workshop è collegato a un link che rimanda su Github, dove è possibile trovare i materiali di approfondimento, discutere e creare nuovi workshop o versioni diverse dello stesso workshop: tutto questo è accessibile dal sito alla sezione “Conoscenza“.
Tornando alla tua domanda, nel libro abbiamo moltiplicato i punti di vista per due (“S”+”O”). In realtà gli “autori” del racconto della Cura, come ogni storia o ogni evento, potrebbe essere moltiplicati all’infinito, almeno per quanti sono stati i partecipanti: nel nostro caso partiamo da una base di 1.000.000 di autori.
Nella forma libro (sequenziale e basata su una economia della scarsità) questo tipo di moltiplicazione è impossibile (e tutto sommato indesiderabile). E’ vero il contrario quando la narrazione può esplodere nella forma rizomatica, ubiqua, polifonica ed emergente della rete: non siamo più tecnicamente di fronte al “libro” della galassia Gutenberg, ma senz’altro a forme narrative e di pubblicazione. Già nel 2012 il sito della Cura conteneva visualizzazioni in tempo reale sulla vita della performance: stiamo lavorando ad una nuova e più articolata versione che sarà presto visibile.
In sintesi, Salvatore e Oriana non sono e non saranno i soli autori di questa storia, come non lo sono mai stati.

Quale sarà il futuro dell’informazione nelle nostre comunità?

Non mi piace fare previsioni, o pensare al “futuro” al singolare: preferisco “futuri”, plurale.
Certo è che, ora e a breve, ci troveremo costretti a cercare e implementare modi per costruire senso. Siamo invasi dall’informazione e dalle opportunità di informazione, tanto che il “contenuto” sta perdendo senso (se non l’ha già perso) e l’unica cosa che diventa importante è capire come costruire senso, possibilmente insieme a comunità di persone, se non insieme a tutta la società.
Questa ricerca potrebbe andare a finire in tanti modi differenti, lungo due direzioni principali. Da un lato l’algoritmo. Dall’altro la fiducia e la relazione. Da un lato l’intelligenza artificiale e la possibilità di comprendere algoritmicamente le informazioni e le persone e, di conseguenza, di suggerire alle persone cosa potrebbe essere rilevante per loro, cosa avrebbe senso. Dall’altra parte la possibilità di conoscersi, fidarsi, stabilire relazioni significative e, di conseguenza, poter stabilire processi in cui la costruzione del senso possa avvenire nella società delle relazioni, costruendo capitale sociale oltre che servizi.
A me interessa più questa seconda interpretazione. Oltretutto la prima direzione potrebbe molto convenientemente essere messa al servizio della seconda. Questo è, per me, lo scenario più desiderabile.

Ci sono una serie di iniziative, spesso messe in campo dai governi istituzionali, che scimmiottano la cultura hacker. E’ come se volessero dimostrare che il senso del “buono” è stato già recuperato e ciò che resta è cattivo o controproducente. Penso a esperienze consumate intorno a idee di produzione e industrializzazione collegate a startup e a fablab che ripropongono, in definitiva, nuovi modelli di capitale.

Nel mondo del digitale, dell’immateriale, della globalizzazione ogni industria diventa per forza di cose una industria culturale. Quando il focus non è più sulla produzione di prodotti, ma nella costruzione di idee, l’industria ha un solo prodotto: la creazione della percezione del futuro, di che forma avrà il mondo, del senso. In questo la “trasgressione”, intesa come l’oltrepassare i confini del “normale”, gioca un ruolo importantissimo: sono i “trasgressori” gli unici a essere capaci di innovazione radicale. Per questo l’industria deve imparare ad avere a che fare con i “troublemakers”, come li chiamava Enzensberger, e con l’”Excess Space”, come lo definisce Elizabeth Grosz. I modi sono tanti, inclusa la cooptazione, l’assunzione, il mettere hacker e “rivoluzionari” (secondo la narrativa di “cambieremo il mondo”) sul palco o in esposizione, o l’appropriazione di linguaggi e immaginari (come è avvenuto e sta avvenendo per gli hacker).
Noi, per esempio, puntiamo a modelli differenti per assicurare un ruolo alla “trasgressione” negli ecosistemi dell’innovazione. Prendendo in prestito un fraseggio da Massimo Canevacci Ribeiro la potremmo chiamare “indisciplina metodologica”, e la attuiamo con la metafora del “giardino”, alludendo al Terzo Paesaggio di Gilles Clément.

A proposito di Clément, a Potenza qualche tempo fa, sono state sperimentate forme di “giardino in movimento” come spazio possibilistico.

In tutta quest’ottica Clément cerca risposta a una domanda fondamentale: “com’è fatto il giardiniere di un giardino senza forma?”
È una domanda difficile e richiede non solo di trovare strumenti e saperi adatti (com’è fatto un giardiniere che invece di usare il rastrello usa il vento? che mestiere fa?), ma anche e soprattutto nuove sensibilità e nuove estetiche: occorre imparare a riconoscere il “bello” in ciò che interconnette e in ciò che crea la “differenza”, come diceva Bateson.
In questo senso può essere di aiuto Marco Casagrande che, quando descrive la sua città di Terza Generazione parla delle “rovine” come di qualcosa da riscoprire: la città di Terza Generazione è la “rovina organica” della città industriale, e diventa “vera” quando la città riconosce la propria conoscenza locale e permette a sé stessa di essere parte alla natura. È una idea nuova di architettura e di pianificazione urbana, in cui l’architetto e l’urban planner assomigliano al giardiniere di Clément: non decisori, normatori o progettisti, ma soggetti capaci di “farsi piattaforma” perché emergano i desideri, l’immaginazione e le visioni delle persone, che diventano a tutti gli effetti co-progettisti.
Questo è anche un parallelo incredibilmente potente con La Cura: la cura è un prodotto sociale, che emerge dalla capacità dei membri della società di autorappresentarsi, osservare sé stessi, e di costruire significato interconnettendosi, che si sia medici, ragionieri, artisti, ingegneri, ricercatori, politici o commessi al supermercato.

Ritornando a “La Cura”, possiamo dire che la condivisione e l’open source, funzionano anche e soprattutto con la medicina?

Nel libro ci siamo trovati a dover avere a che fare con tante discipline differenti per rispondere a questo tipo di domanda. È questo il senso delle sezioni di ricerca del volume. È interessante come l’”apertura”, l’”interconnessione” e la “differenza” siano concetti fondanti in questo genere di processo. Sono le porte che aprono la via ad una innovazione differente, capace di tanti tipi di tempo (non solo la ipervelocità che, ingenuamente, pensiamo di dover assumere per essere competitivi), di pensiero, di atteggiamento, e di orientare verso la possibilità per la coesistenza di tutti questi approcci differenti, di trasformarli in opportunità, in una nuova sensibilità, in una nuova estetica, capace di riconoscere la bellezza dell’interconnessione e della relazione, dell’alterità, della differenza (e, quindi, anche del conflitto).
Occorre rivoluzionare l’immaginario.
Questo è funzionale a tutti i settori, inclusa la medicina.
La “crisi” è innanzitutto una crisi di immaginario, della progressiva impossibilità di immaginare e desiderare modi radicalmente diversi di operare.

Che ne è stato di quel progetto di legge che si ispirava al vostro progetto artisopensource?

Quello che era originato dall’interrogazione parlamentare sulla Cura e sui formati aperti per i dati medici? Non se ne è saputo più nulla nel dettaglio, ma sono anche cambiate tante cose. Ad esempio La Cura costituirà un caso rilevante nel position paper presentato dagli Stati Generali dell’Innovazione alla Commissione Interparlamentare sull’Innovazione. Ed è solo l’inizio.

Laura Gelmini ha scritto che la vostra iniziativa “è un esempio importante del rapporto fra un sistema sociale, la medicina, e un altro: l’arte.” Qual è il legame?

Come dicevamo nell’altra domanda, il ruolo dell’arte è fondamentale e forte. E non siamo i primi a immaginarlo. Già Marshall McLuhan vedeva l’artista come la persona capace di creare ponti tra l’eredità biologica e gli ambienti creati dall’innovazione tecnologica. O come Derrick de Kerckhove, che attribuisce agli artisti la capacità di predire il presente. Roy Ascott che descrive l’artista come IL soggetto capace di confrontarsi con un mondo in cui significati e contenuti sono progressivamente creati tramite relazioni e interazioni, in modo instabile, mobile e fluttuante. O come Gregory Bateson, che vede nell’arte il solo modo possibile per soddisfare la necessità di trovare soluzioni attraverso cambiamenti radicali nel nostro modo di pensare e di conoscere.
Ma anche rimanendo nel business: già Pine e Gilmore nel loro libro in cui introducevano per la prima volta il concetto di Experience Economy, descrivevano l’arte come una necessità.
Nell’arte scienza, tecnologie, ambiente e società trovano il sensore e l’attuatore per introdurre nuovi immaginari, nuovi modi di leggere il mondo, di costruire significati e di agire, insieme.

Ultima domanda. Se dovessi proporre un tema o un warmup per l’Hackmeeting che si terra a Pisa dal 3 al 5 giugno?

“Trasgressione e Innovazione!”

Al palo della morte: intervista a Giuliano Santoro


Giuliano Santoro è un giornalista che collabora con il manifesto e con il Venerdì di Repubblica. È autore, tra l’altro, di Un Grillo qualunque (Castelvecchi, 2012), Guida alla Roma ribelle (Voland, 2013) e Cervelli sconnessi (Castelvecchi, 2014).
suduepiedi.net è il suo blog, nato per descrivere in diretta la camminata di trenta giorni che ha compiuto lungo la Calabria. E’ partito il primo luglio del 2011 da Cavallerizzo (paese franato a causa del dissesto idrogeologico), dove la protezione civile di Bertolaso ha costruito una «new town», per arrivare il 30 luglio a Montalto d’Aspromonte, il luogo in cui, nel 1969, una grande riunione delle ‘ndrine interrotta dalla polizia finì in sparatoria, segnando il passaggio di scala della ‘ndrangheta da banda locale a impresa globale.
L’ultimo lavoro di Santoro è Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia, edito dalla Edizioni Alegre, ed è proprio di questo libro che abbiamo parlato con l’autore.

«…ci vediamo là, ar palo da morte» dice Enzo, il coatto interpretato da Carlo Verdone nel suo esordio alla regia. Verdone è un buon interprete di personaggi ma ha bisogno di Sergio Leone per raccontare la periferia romana. E’ evidente che questa citazione di “Un sacco bello” debba fare da controcanto alla storia di Shahzad. E’ una storia, una brutta storia, il cui racconto diventa necessario, anzi indispensabile a far chiarezza sulla morte di un pakistano nella periferia gentrificata della capitale.
La sera del 18 settembre 2014 il giovane Shazad, viene ammazzato a calci e pugni da un minorenne romano e dal padre che lo incita a commettere l’omicidio.
Questa morte è sicuramente il prologo dei pogrom razzisti della destra romana e italiana in generale.
Il libro di Santoro si muove con precisione nello spazio e nel tempo. Ricostruisce con pazienza e accuratezza la storia di Shahzad e anche quella di Tor Pignattara che da vecchio quartiere antifascista diventa periferia meticcia e teatro di un omicidio predeterminato.

Partiamo dal cinema. Perché “Un sacco bello” è un evento fondativo della romanità postmoderna?

«Al Palo della Morte» parte da un fatto di cronaca – l’omicidio di Shahzad – e da come questo viene raccontato per smontare, contestualizzare, decostruire il linguaggio. Da questo punto di vista è una specie di reportage sula lingua e sulle dinamiche materiali che queste innescano. Ragionando attorno all’iconografia pop di Roma e del «coatto» romano mi sono imbattuto anche in «Un sacco bello», film che ha avuto come ghost-director Sergio Leone, dal quale eredita un certo respiro epico. I tre episodi che compongono l’esordio di Carlo Verdone raccontano le storie di tre persone che, come Shahzad, cercano di fuggire dalla metropoli e dalle sue miserie e che rappresentano le tre sfumature del romano: il fricchettone Ruggero in fuga dalla famiglia, l’ingenuo mammone Leo che deve andare a Ladispoli e il coatto Enzo, che deve incontrare il suo compagno di viaggio per andare a Cracovia, carico di calze di nylon e penne biro. Si danno appuntamento «al palo della morte» che rappresenta la frontiera della metropoli.

Per esempio a me, quando sento parlare della marana, mi vengono in mente le scene di «Un americano a Roma», anche se nel libro citi «Una vita difficile», «Lo scopone scientifico»…

Parlando di Roma e immaginario popolare non potevo citare anche Alberto Sordi. Sono rimasto molto affascinato dal libro che Tatti Sanguineti ha dedicato a Rodolfo Sonego, l’autore di Sordi. Albertone era un reazionario, un andreottiano, un italiano medio conformista anche un po’ pavido. Ma ebbe il coraggio e l’intelligenza di affidarsi ad un autore di sinistra, ex partigiano. Questa ambivalenza si vede nella storia del giornalista comunista di «Una vita difficile», personaggio che ha segnato il percorso artistico di Sordi e che non poteva essere più lontano dalla sua vita. E la carica allegorica de «Lo Scopone Scientifico» rappresenta come pochi altri film lo scontro tra centro e periferia, tra la Roma delle baracche e quella dei palazzi. Che è un altro dei temi del libro.

Il libro sembra una sceneggiatura, ecco perché c’è tanto cinema?

Sicuramente è un montaggio di tante scene, procede per frammenti. Douglas Rushkoff, teorico della cultura digitale, sostiene che nell’era della connessione eterna, della frammentazione delle identità e della proliferazione dei tempi dei social, ci sono due modi per raccontare una storia. Per spiegarli fa riferimento a due film, usciti nello stesso anno peraltro: «Forrest Gump» e «Pulp Fiction». Nel primo si assolutizza la figura del protagonista, se ne forza la centralità fino a renderlo testimone di qualsiasi evento storico. È ovviamente un’iperbole, una scelta paradossale, ma rappresenta l’ipertrofia della prima persona che spesso e volentieri il web alimenta. Al contrario, «Pulp Fiction» rappresenta il rimontaggio dei tempi, la circolarità degli eventi. È un altro modo di approcciare la complessità. Diciamo che mi sono rifatto più allo schema di Tarantino che a quello di Zemeckis.

Per inquadrare le origini multietniche di Tor Pignattara parti dal 1900.

Ho chiesto a un testimone diretto, un migrante pakistano della prima ondata per quale motivo pakistani prima e soprattutto bengalesi poi avessero scelto di vivere a Tor Pignattara. E lui mi ha risposto che avevano scoperto la Casilina per via dell’occupazione della Pantanella, il grande pastificio abbandonato a ridosso di Porta Maggiore che venne occupato dai migranti per diversi mesi. Migliaia di persone ci andarono a vivere e ci accorgemmo dell’esistenza dei migranti e della loro carica conflittuale. Dalla Pantanella, col trenino delle ferrovie laziali, arrivarono a Tor Pignattara. La storia della Pantanella è davvero straordinaria e merita di essere rievocata, perché esiste pochissima bibliografia e rischia di venire dimenticata. Contiene le lotte ma anche le speculazioni, la nascita di nuovi linguaggi ma anche l’invenzione della «emergenza» che poi avrebbe prodotto il modello di Mafia Capitale.

Il fil rouge del racconto è fatto anche dall’apertura linguistica e socio-politica di concetti come emergenza, contagio, degrado, decoro.

Nei giorni in cui Shahzad viene ucciso, Tor Pignattara – ma è lo stesso per altri quartieri di Roma e altre città d’Italia e d’Europa – veniva investita da campagne securitarie e contro il degrado. Chi invoca il «decoro» spesso e volentieri si prefigge lo scopo di impedire l’uso dello spazio e si arroga il diritto di decidere che tempi debbano scorrere nella metropoli. È un circolo vizioso: più svuoti gli spazi e contingenti i tempi più la città diventa tetra, ci si barrica dietro i sacchetti di sabbia posti alla finestra per difendere i propri millesimi. La città da spazio della vita in comune diviene una specie di condominio gigante. E si sa, nelle assemblee di condominio tutti si guardano in cagnesco, hanno l’unico obiettivo di difendere il proprio bene rifugio (la casa) e di presidiare lo squallore del pianerottolo. Col decoro, in nome della lotta al fantomatico «degrado», la qualità della vita urbana peggiora drasticamente.

Poi ci sono le leggende metropolitane.

La paranoia securitaria, l’incertezza della crisi, generano racconti cospirazionisti e leggende metropolitane straordinarie, interessantissime. È un tema che mi ha affascina fin da ragazzino. Ho scritto libri molto diversi ma il tema delle leggende metropolitane, intese come la narrazione popolare di eventi mai accaduti che però sono la spia dell’inconscio collettivo, è ricorrente in ognuno di essi. In questo caso ho scelto di riportare un paio di leggende che circolano a proposito di razzismo e migranti. Quelle storie fanno parte del paesaggio che ho cercato di raccontare.

Chi come me abita in una piccola provincia, difficilmente riesce a calarsi fino in fondo nei racconti di vita della città dentro la città.

Se ci pensi bene c’è molto anche della provincia. Con l’Unità d’Italia prima e col fascismo poi si vuole fare di Roma lo specchio dell’Italia, la vetrina dell’orgoglio nazionalista. E invece Roma diviene sì lo specchio del paese, ma anche delle sue contraddizioni. Quindi dentro la storia di Roma, e soprattutto dentro la storia delle sue periferie, c’è la storia di altri luoghi, anche dei villaggi sperduti.

Io che sono un amante, un appassionato, di ciò che è digitale (anche quando si perdono delle sonorità dell’analogico), volevo dirti che quando uscì il libro, scrissi un commento sotto un tuo post su Facebook, chiedendoti della versione in ebook. Mi rispondesti secco: solo carta. Centra poco con tutto quanto raccontato finora ma volevo conoscere meglio la tua idea al riguardo.

Da qualche giorno Alegre ha messo online gli ebook!

I 99 Posse, la Basilicata e i centri sociali

Curre curre guagliò. Storia dei 99 PosseNell’aula magna del campus universitario di Macchia Romana, giovedì 7 febbraio a Potenza c’è stata la presentazione del libro autobiografico dei 99 Posse, scritto da Rosario Dello Iacovo, e del videoclip “Stato di emergenza“, realizzato da Rocco Messina.  L’aula magna era piena sia di giovani interessati che di meno interessati agronomi in attesa dei due crediti formativi messi a disposizione dall’Ordine dei dottori agronomi e forestali della Provincia di Potenza (il dubbio sul motivo della loro sponsorizzazione all’evento resta intatto anche dopo la lettura del loro comunicato).

Stato di emergenza

Sulle note di uno dei 18 brani dell’ultimo disco dei 99 posse (Curre curre guagliò 2.0) si appoggia il video realizzato da Rocco Messina tra i vicoli e le stradine di Brindisi di Montagna.  Il paesaggio è indubbiamente protagonista, forse un po’ meno il gruppo. Molti personaggi, interpretati da amici e abitanti del posto, sono visibilmente forzati in una piccola recitazione (compreso il sindaco del paese, a ragione imbarazzato da un look texano) ma con un effetto piacevole che dona un senso di realistica normalità. Anche la fotografia non è male, anche se nel complesso ho avuto l’impressione che l’idea di riferimento fosse orientata alle ambientazioni di Vince Gilligan, o qualcosa di simile.  Cosa non mi è piaciuto? La sua storia e la grammatica retorica che attraversa tutto il video.  Troppo distaccato e improbabile (oltre che astorico) il ruolo dei 99 Posse che come angeli percorrono le stradine del paese tra l’ignoranza di abitanti vistosamente “paraocchiati”.  Il focus è tutto qui: il gruppo, in abiti bianchi, rappresenta la coscienza di un popolo ignaro che infine vede la luce e insegue quella visione addirittura in processione (manco fosse Bocca di Rosa).  Certo il testo della canzone dice altro, ma che importa.   La retorica cade solo a fine proiezione quando, riaccese le luci, alla domanda sulla scelta della location, il sindaco di Brindisi di Montagna parla di investimento e vocazione turistica del paese.

Curre curre guagliò. Storie dei 99 Posse

Il libro è una bella biografia dei 99 Posse che Dello Iacovo descrive come “atipica”. In realtà non è focalizzata su un personaggio, una situazione o un luogo ma si sviluppa a raggiera. Da un humus comune di musica e politica si divincolano storie di esperienze personali e collettive che poi ritornano e si intrecciano inesorabilmente.  Il luogo è Napoli ma non solo Napoli; c’è una società viva e complessa, anzi una parte di società, meglio ancora, il margine sinistro di una società e una urbanità. Tante storie, tanti viaggi raccontati in prima persona da Luca (Zulù), Massimo, Marco, Sacha  e tanti altri che hanno condiviso pezzi e percorsi di vita. C’è tutta l’esperienza dei centri sociali (Officina 99 in particolare), della pratica antagonista militante  e di una coscienza politica che fa da corollario a quella canzone simbolo o bandiera che è ” Curre curre guagliò”.  Un libro che ti prende subito e ti coinvolge.  Anche se di autonomi, anarchici, squatter, posse, no global, ne hai solo sentito parlare in TV, conviene considerarlo come un approfondimento e una seria testimonianza storica.

Perché in Basilicata non ci sono centri sociali?

A fine presentazione è già tardi e il gruppo deve scappare a Brindisi di Montagna dove prosegue la serata ma, come promesso, si chiede al pubblico se ha delle domande. Una ragazza davanti a me chiede al gruppo  il perché in Basilicata non ci fossero centri sociali.  Dello Iacovo tenta una risposta immaginando che dipenda, fondamentalmente, dallo scarso numero di abitanti e dal fatto di non avere urbanità complesse e compresse. Può darsi che sia così… e mentre rientravo a casa continuava a balenarmi in testa sempre questa domanda (perché in Basilicata non ci sono centri sociali?).  Probabilmente il quesito è meno ingenuo di quanto possa sembrare e, quindi,  credo che valga la pena di svilupparlo in un post successivo.

The Three Percent Problem

Si chiama Three Percent il blog dedicato alla letteratura tradotta negli USA curato da Chad Post che è anche il direttore di Open Letter, una casa editrice che pubblica esclusivamente opere in traduzione, e anche autore del libro “The Three Percent Problem“.

Il “tre per cento” è un problema perché soltanto tale quota dei libri pubblicati negli USA (ma anche nel Regno Unito) è tradotto da altre lingue.  Addirittura la traduzione di opere di narrativa scendono allo 0,7%, mentre in Italia circa il 20% dei libri pubblicati sono tradotti da altre lingue.

Chi ce ne parla è Silvia Pareschi (una traduttrice che vive a San Francisco e che ha tradotto i libri di Don DeLillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, Denis Johnson) in un bellissimo post pubblicato su Nazione Indiana.

Io vi consiglio di leggervi il post ma voglio sottolineare almeno due concetti conclusivi:

1.  negli USA i traduttori, a fronte di una percentuale così piccola, sono sostenuti anche dalle istituzioni mentre in Italia il numero si inverte e a diventare piccolo è il sostegno del Ministero per gli Affari Esteri (“25.000 euro – ferme restando le attuali disponibilità di bilancio”) che però viene erogato agli editori e non ai traduttori;

2. alla domanda della Pareschi se avesse mai ricevuto una sovvenzione dal governo italiano per una traduzione, Anne Appel risponde: “Noi siamo sempre in cerca di libri da pubblicare, eppure sentiamo parlare piuttosto raramente di quelli italiani, perché gli organismi che sostengono e promuovono la letteratura tedesca e francese, per esempio, non esistono per quella italiana. Molti editori non ci mandano neppure i loro cataloghi.

La carta nella testa

E’ noto a tutti che le “scritture” sono in continuo aumento è meno noto, però, l’incremento delle “letture”.  Del primo ne siamo coscienti perché abbiamo visto come il digitale abbia incrementato la comunicazione scritta, del secondo non riusciamo ad afferrarne la portata poiché restiamo legati a un’idea di lettura concettualmente analogica. Tutto il peso del concetto ricade sulla “quantità compattata” di righe scritte.

Se date uno sguardo alle statistiche ISTAT gli indici sono fatti per libri di carta, audiolibri, ebook e giornali. Sappiamo, per esempio, che nel  2010  gli italiani avevano letto mediamente  3 libri a testa (con un incremento di un punto percentuale rispetto al 2009) e che coloro che possiamo definire “lettori voraci” erano soltanto il 15,1%  con una dozzina di libri letti nell’anno. A questa “quantità” di righe scritte e dichiarate come lette, si affiancano i dati sulla vendita (sia di libri che di giornali) che abbassano ancora di più la media.

Il problema è che sono gli analisti a considerare la scrittura come letta solo se appartenente a unità concettualmente “analogiche” di testo: libri, giornali, e-book, ecc….  e non si capisce il perché non si consideri letto ciò che invece è stato considerato come scritto: sms, chat, e-mail, social network, giochi, ecc….  Si è disposti a considerare il web o l’html come scrittura ma non come lettura.

Un esempio semplice di questa stortura mi è balzata agli occhi quando ho ragionato sul fatto che mio figlio, che sta affrontando gli esami di stato, legge e trova sul web tutto ciò che gli serve e contemporaneamente invia e/o riceve link interessanti dai suoi compagni. Quante righe avrà letto mio figlio? Boh e chi lo sa… intanto, statisticamente non è neanche un lettore accanito, anzi è addirittura sotto la media perché al rilevatore che gli chiederà “quanti libri hai letto quest’anno” (a parte quelli scolastici) sicuramente risponderà poco o nulla. Forse nemmeno lui considererà come lette le migliaia di righe su Wikipedia e sui vari siti specializzati. Io alla sua età ero considerato un lettore accanito soltanto perché leggevo un quotidiano e correvo in biblioteca per ogni piccola ricerca scolastica, eppure il mio camp0 di riferimento era ristretto alle capacità di una piccola biblioteca UNLA e a quelle di qualche enciclopedia  più o meno esaustiva.

Probabilmente guardiamo/usiamo il digitale e pensiamo/vediamo l’analogico. Una metafora immediata di questo paradosso è ben rappresentato da tanti ebook reader (l’iPad ad esempio) che simulano lo sfogliare della pagina di carta.

Anche quando ci liberiamo le mani dalla carta la cellulosa ci rimane in testa.

Vuoto a rendere a sinistra

Conosco Biagio De Giovanni perché agli inizi degli anni ‘80, quando frequentavo l’Istituto Orientale di Napoli, fu mio professore di Storia delle dottrine politiche e me ne innamorai quasi subito per la bellezza dei suoi ragionamenti e la lucidezza delle analisi. Confesso che, in qualche modo, non ho smesso di seguirlo e ricordo ancora con una discreta freschezza la sua analisi sullo “svuotamento del sistema egemonico della sinistra” dopo le elezioni del 2008.
In un’intervista pubblicata su L’Espresso nel maggio 2009, in occasione della presentazione del suo libro “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra“ (qui un’interessante presentazione), De Giovanni affermava che la destra italiana aveva ormai piantato le radici di un sistema che sarebbe durato almeno vent’anni, perché aveva ”saputo imporre una nuova interpretazione della storia d’Italia” (demitizzazione della Resistenza e della Costituzione; rovesciamento della questione meridionale e della spesa pubblica -elementi strategici dei comunisti e dei democristiani- nella “questione settentrionale” posta dalla Lega e “nazionalizzate” da Forza Italia).
Nel un suo ultimo libro (ma neanche tanto recentissimo), “Sentieri interrotti, lettere sul Novecento”,  De Giovanni continua in quella sua analisi precisa dello “svuotamento” della sinistra, confrontandosi con Marcello Montanari (suo ex allievo oggi docente di filosofia all’università di Bari) parlando di Stato, di comunismo e di Gramsci (che Montanari esalta e invece De Giovanni de-valorizza).
Ne parlo perché stamattina questa notizia è appuntata sia sul “Corriere del Mezzogiorno” che su “Italia Oggi”. Non so quanta eco potrà suscitare la riflessione del professor De Giovanni nei sinistrorsi italiani ma certamente farà bene parlarne: la sinistra non è più uguale a quella del passato e non lo sarà certamente a quella del futuro.
Cosa c’è in mezzo? (domanda kantiana). Sicuramente povertà ideale e progettuale da cui ne discende una mancanza ancora più grave: qualcosa che somigli a una struttura.
In una società sempre più accelerata, “questi” son come viaggiatori finiti nel carro-bestiame che pur sapendo che più avanti ci sono le “carrozze” di prima e seconda classe e più avanti ancora la motrice, non sanno proprio cosa inventarsi per venirne a capo… figurarsi a mandare in soffitta Gramsci?!

Basilicata excellente

Avevo già sbirciato questi dati qualche giorno fa ma dopo il rilancio della notizia da parte della TGR ho deciso di condividere lo sconforto per realizzare a mio modo un “mezzo gaudio”.

Si tratta dei dati statistici rilevati dall’ISTAT sulla lettura dei libri (dell’anno 2009) dai quali ne vien fuori che in Italia “soltanto”  il 45% della popolazione (dai sei anni in su)  dichiara di aver letto almeno un libro.

La percentuale dei lettori italiani è inversamente proporzionale all’età anagrafica: il 65% de i lettori hanno 14 anni mentre il 23% ne ha 75.  Di questi le donne leggono più degli uomini (il 51,6% rispetto al 38,2%) con una punta massima di giovani lettrici (tra i 20 e i 24 anni) al 66%.

Sorvolando sugli elementi che influiscono di più sulla scelta o l’abitudine di leggere un libro (titolo di studio, condizione professionale, ecc…) resta impressionante il divario tra tra nord e sud.

Indagine su 100 persone per regione che hanno letto almeno un libro nell'anno 2009

La nota di sconforto è vedere la nostra regione classificarsi quartultima con il 35,8%.

Ma se in generale noi italiani siamo un popolo di “lettori deboli” (leggiamo al massimo 3 libri in un anno), noi lucani lo siamo ancora di meno.

E se gli italiani divenissero lettori della domenica come i francesi a noi, al massimo,  ci resterebbe l’ombrellone.

Allora può essere utile interrogarsi sulla natura della formazione delle idee politiche e chiedersi su quale strato culturale si sostanziano le scelte collettive?

 

Le parole che si impigliano nella rete

Francesco Forlani in un post su Nazione Indiana di qualche tempo fa a proposito di Dublinesque, l’ultimo libro di Vila-Matas, parla della rete e delle parole che vi si impigliano (nella rete appunto).

Nel citare il personaggio del romanzo di Mila-Matas ( che  “entra in molti blog per informarsi su quanto si dice dei libri che ha pubblicato. E se trova qualcuno che dice qualcosa di minimamente fastidioso, manda un post anonimo tacciando di ignorante o imbecille la persona che lo ha scritto.”) giunge a alla conclusione, semplice, che quello che era roba da critici oggi lo si fa con un un semplice commento. Praticamente, dice Forlani, è quanto accade su Anobii, dove dominano i “lettori critici amatoriali” i quali instaurano una “dittatura terribile quella dei lettori critici“: “per intenderci, si possono trovare I fiori del male o Aspettando Godot, quotati con una sola stellina di gradimento.

E meno male che a Forliani non è nota l’evoluzione delle social-librerie; chissà cosa ne avrebbe pensato del “salto quantico” descritto da Giuseppe nel passaggio a Goodreads.

Ma giustamente, ci suggerisce Dublinesque, il funerale (se proprio di morte si deve parlare) al massimo potrebbe essere dei libri non certo della letteratura che è “qualcosa di più dei libri“. In fondo, il destino del libro è  “un oltre”…..

L'illuminismo dei mondi virtuali

Peter Ludlow, uno dei maggiori filosofi della tecnologia, sostiene che i “mondi virtuali” (tutte le nuove forme di cultura,  di comunicazione, di informazione e di incontro on-line) stanno diventando sempre più decisivi nell’orientamento dell’opinione pubblica.

Nel suo ultimo libro, “Il nostro futuro nei mondi virtuali” edito da 40k Books, sottolinea come questi mondi virtuali, con le loro leggi e la loro diffusa influenza culturale stanno velocemente cambiando il mondo reale.

Ma cosa accadrà quando gran parte del web si sarà tramutato in mondi virtuali ?

Ludlow, rispondendo alle domande di Francesco Longo su “L’Espresso” del 21 ottobre, sostiene che bisognerà fare i conti con la costituzione di questi social network i quali essendo amministrati in forma dittatoriale (è il gestore che decide il bello e il cattivo tempo, se bandire qualcuno dalla community, ecc..), conseguono il risultato di essere meno democratici delle società reali.
Dunque,  “possono essere manipolati per servire gli interessi di un individuo invece che del gruppo” e quindi esiste il concreto “rischio che i mondi virtuali ci rendano avvezzi a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti quei diritti frutto di secoli di lotte, progresso e conquiste civili. In altre parole, le dittature on line ci rendono più passivi nei confronti di un dittatore nel mondo reale”.

Ludlow suggerisce “una sorta d’illuminismo dei mondi virtuali, dove i gestori offrano nuovi strumenti per condurre esperimenti di democrazia”.  Insomma una governance dei social network che dovranno essere visti come vere e proprie “nazioni” più che come  aziende private.

Linguaggi digitali per il turismo

Un po’ perchè ero presente a quel convegno organizzato a Matera dall’APT e un po’ perchè partecipai a “L’esperienza del territorio in Second Life
condotta da  Giovanni Boccia ArtieriLaura GeminiValentina Orsucci, che accolgo con grande piacere la pubblicazione degli atti a cui parteciparono:   Derrick de Kerckhove, Bruce Sterling, Giuseppe Granieri, Mauro Lupi, Sergio Maistrello, Roberta Milano, Antonio Sofi, Giovanni Boccia Artieri e  tanti altri.

Ne parla qui Sergio Maistrello per pubblicizzare il libro,  Linguaggi digitali per il turismo a cura di Giuseppe Granieri e Gianpiero Perri, che raccogliendo tutti gli interventi ne costituisce una raccolta di atti importanti per continuare a riflettere sulla promozione del turismo in rete.