Sembra che il primo ad usare l’espressione “Bastian contrario”, sia stato Alfredo Panzini nel suo Dizionario Moderno del 1918.
Io di questa definizione, che da bambino mi ero appiccicato addosso, ne avevo fatto uno scudo impenetrabile. Sarà stato per gioco o per spirito ribelle ma senza accorgermene articolavo rudimenti di ermeneutica. Il campo di applicazione era il fatto (i fatti) e la contraddizione il suo specchio da cui, poi, derivavo un’esegetica pratica.
In sostanza il gioco dell’opposto veniva spinto il più possibile, tanto da poter mettere alla prova una qualsiasi teoria (ingenua o scientifica) che con quell’andare oltre i suoi limiti ci raccontava il conoscibile.
Eraclito, per esempio, pensava che il mondo fosse regolato da una interdipendenza di concetti opposti e che nulla potesse esistere senza il suo contrario (cosa che farà di lui il fondatore della logica degli opposti).
Ma di come si potesse ricavare una conoscenza da questa teoria della contraddizione c’è lo spiegherà, poi, Engels con il “vero senso dell’unità dei contrari“.
E’ così che ho capito che bisognava guardare alla storia della scienza come una storia dove un vecchio errore veniva sostituito da un nuovo errore… ma meno assurdo.
Come fa una freccia a proseguire la sua corsa dopo che l’arco l’ha scoccata?
Aristotele immagina che dipenda dalla densità dell’aria e dal tempo che la freccia impiega a perforarla.
L’alessandrino Filopono ritiene, invece, che non ci sia una così diretta proporzionalità tra densità e mezzo, poiché lo stesso movimento si verifica anche nel vuoto. A parte l’attrito, l’aria non influisce più di tanto, perché l’oggetto cade a causa del suo peso. Questa nuova idea apre la strada, 800 anni dopo, all’Impetus di Buridano.
Quasi 1600 anni per passare da un’idea “ingenua” a una più scientifica? Si ma, attenzione, senza che l’una abbia annullato l’altra. Come ci racconta Dan Sperberg, entrambe le teorie (ingenua e scientifica) si fondono e si sovrappongono in un turbinio indistinguibile del comune sentire quotidiano.
Le teorie ingenue sono concettualizzazioni personali che, mettendo a valore le esperienze dirette, passano da interpretazioni singole a concetti generali.
La psicologia ingenua, per esempio, ci permette di fare previsioni inferendo uno stato mentale dall’osservazione di un comportamento; la fisica ingenua ci fa comprende facilmente la caduta di una mela dall’albero e ci fa stupire per le volute di una foglia.
A partire da Bion e per finire alla Teoria della mente, si ritiene (più o meno) che questi saperi derivino da capacità cognitive, altamente specializzate, deputate proprio all’elaborazione di specifiche informazioni.
Giusto per mettere le mani avanti (e anche perché il post non è un approfondimento scientifico) debbo evidenziare il fatto che, per esempio, uno dei punti di forza della teoria modulare fodoriana è la natura sintattica dei dati, mentre il modulo della psicologia ingenua acquisisce dati in forma semantica senza chiarire in che modo trasforma questa informazione sensoriale... E non me ne voglia la mia amica Carmela appassionata di "metarappresentazioni".
Paolo Bozzi sostiene che tali teorie valorizzano il mondo delle esperienze per formare concetti primordiali che poi si evolvono in concettualizzazioni di grado superiore e, spesso, in nuove modalità di realizzazione di tali concetti.
Come la fisica e l’economia anche la politica ha una sua teoria ingenua sviluppatasi, probabilmente, a partire dalla polis ateniese che, non a caso, Alcibiade definisce come inevitabile follia (“al di fuori di essa possono vivere solo le bestie o gli dei“). Susan Carey ha stabilito che nei primi anni di vita del bambino è già presente una psicologia ingenua e una fisica ingenua, mentre una economia ingenua e una politica ingenua iniziano a svilupparsi solo qualche anno più tardi.
I bambini di 4 anni, per esempio, sanno già cosa è proibito, cosa è possibile e cosa è impossibile; poi, pian piano, iniziano a sviluppare una nozione di autorità, di regola e di obbedienza che faranno da fulcro a elaborazioni più complesse.
Grossolanamente possiamo dire che all’età di dieci anni iniziamo a formarci i primi concetti politici.
Ora il problema è che questa politica ingenua si arricchisce velocemente (con tecniche retoriche e tattiche militari) ma non va oltre il suo stato primordiale; resta, per così dire, fissata nel suo brodo ingenuo, non potendo approdare in niente di scientifico (con buona pace degli studiosi di “Scienze Politiche”). E’ come se fossimo ancora immersi in quell’intermezzo di “crescita” che separò Aristotele da Buridano. Per dirla con una metafora semplice, siamo ancora convinti che il sole ruoti intorno alla terra e ci raccontiamo, soddisfatti, di come si alzi e si abbassi all’orizzonte.
Le leggi della politica codificano l’incertezza e l’irregolarità del presente per compiere semplici e fantasiose previsioni sul futuro. Mischiamo storia, economia e religione per confortarci con le “dottrine” e per conferma continuiamo a osservare ingenuamente la realtà credendo quasi esclusivamente ai nostri occhi. In definitiva, sguazziamo nel regno delle “qualità terziarie”; quelle in cui si attribuisce un carattere soggettivo a quasi tutto. Quel soggettivo che resta il nostro mondo possibile. Chissà quando una rivoluzione concettuale interesserà anche la politica, separando le credenze del senso comune da qualcos’altro che somigli a qualcosa di scientifico. Questo è un mondo che si è dotato di leggi vere e proprie che nessuno si sognerebbe di sminuire (anzi la loro violazione ci è impedita con forza) e sono leggi utili a sfuggire dall’ipotetico errore umano. Sono leggi che servono a farci correre nella grande ruota del sistema senza essere attirati dal dubbio.
Aristotele, per esempio, era convinto che l’errore interessasse solo i fatti periferici e mai il sistema in generale; poi però arrivò Galileo che mise in discussione proprio quel sistema. Ciò che separò i loro mondi possibili fu semplicemente un diverso senso dell’errore.
Ecco, in politica, noi siamo ancora fermi a una concezione aristotelica del mondo.
Nel nostro cervello ci sono delle cellule deputate a rilevare la nostra posizione nello spazio e non come una semplice bussola ma come un vero e proprio sistema di navigazione completo di percorsi, orientamento e memorizzazione delle mappe.
E’ una scoperta, frutto di 30 anni di ricerca, che viene ripagata con il Nobel per la Medicina e la Fisiologia a John O’ Keefe, May‐Britt ed Edvard Moser e che i media, più semplicemente, hanno chiamato “la scoperta del GPS nel cervello”.
Si è vero la metafora del GPS è molto pratica e rende di più l’idea del suo funzionamento, ma al di là di ogni banalità, lo studio dei tre scienziati aggiunge ulteriori tasselli a quel dibattito, che da mezzo secolo impegna la filosofia analitica (e post analitica), sul tipo di calcolo che avviene nel cervello.
Stiamo parlando della teoria computazionale che paragona la mente a un computer, e questa scoperta, in qualche modo, conferma l’esistenza, all’interno della mente, di una struttura di dati che generano rappresentazioni del mondo esterno.
Proprio come il computer, il cervello sembra avere un proprio linguaggio interno, un sistema operativo, delle sotto-strutture e dei codici che consentono alla mente di rappresentare le caratteristiche del mondo esterno come il suono, la luce, l’odore e la posizione nello spazio.
Non sono le immagini o le idee degli oggetti (come racconta la semiotica) a rappresentare il mondo ma un complesso sistema rappresentazionale, formato da strutture simboliche che possiedono una sintassi e una semantica proprie, simili a quelle delle proposizioni del linguaggio naturale.
John O’ Keefe, May‐Britt ed Edvard Moser hanno aperto la strada alle ricerche neuroscientifiche intorno ai codici neurali per la cognizione che, nel prossimo futuro, potrebbero vedere definitivamente insieme la biologia, l’informatica e la filosofia.
Se vi chiedete, come fanno i bambini curiosi, quanto è lungo l’universo rimarrete sorpresi nel sapere che non si sa.
Ignoriamo quasi completamente cosa sia in realtà e facciamo soltanto delle buone ipotesi su quanto sia esteso quello “osservabile“.
Sappiamo, dice Amedeo Balbi, di poter guardare al massimo fino all’orizzonte e che, siccome la luce viaggia con una velocità finita, quel limite sta a 13,7 miliardi di anni-luce (che è l’età dell’universo) moltiplicata per la sua velocità di espansione. Dunque approssimativamente il suo raggio potrebbe essere di 50 miliardi di anni luce.
Se vi va di trastullarvi in altre teorie intorno all’universo c’è quella interessante sulla sua forma e quella sulla sua fine; ma ciò che mi ha colpito (per cui la ragione del post) è il fatto che al momento non disponiamo delle conoscenze adatte per approssimare un ragionamento oltre l’osservabile e mi chiedo il perché. Forse che la tecnologia non ci supporti ancora abbastanza?
Oppure è probabile che non possiamo farcela noi ma un “altro-uomo”, come immagina Vernor Vinge, derivante da nuove interfacce con il computer e con un’intelligenza di molto superiore a quella umana attuale.
Arrivati a quel punto saremmo in grado anche di creare energia pulita e curare malattie secolari.
Io ci ho fantasticato su che ero ancora un ragazzino mentre leggevo “L’ultima domanda” di Asimov e poi quando, per studi accademici, mi sono occupato (anche) di “transumanesimo“.
«Il meraviglioso potere della tecnologia doveva essere impiegato per risolvere i nostri grandi problemi. Ma guardando il presente, che cosa è accaduto? Le app per telefoni cellulari è tutto quel abbiamo raggiunto?»
Chissà…. “forse si e forse no”, ma io concordo poco con questi ragionamenti sostanzialmente heideggeriani. C’è una cosa, però, che mi sento di sottolineare ed è quella “necessità di un presa di coscienza” di cui parla Nicola Palmarini : il fatto che non v’è alcuna ragione per non capire che siamo noi oggi e non qualcun altro domani a dover agire per migliorare il mondo.
Per Aristotele esistono tre tipi di uomini: il primo è quello che possiede la piena statura morale e vive nell’apertura della ragione e dello spirito; il secondo pur non essendo così completo da ascolto a chi ha l’autorità e il terzo invece oltre a non avere il dominio di se stesso neanche ascolta l’autorità altrui.
Per Asimov c’è un solo tipo di robot che però ubbidisce a tre leggi.
E’ possibile concludere che i tre uomini di Aristotele fabbricano quel robot e stabiliscono le tre leggi ma, ovviamente, anche no.
Un’altra ipotesi potrebbe essere che i robot si autocostruiscano (lasciando da parte questioni del tipo prima l’uovo o la gallina) e se ne freghino completamente dell’uomo.
Ecco, tutti quelli che sono propensi a quest’ultima ipotesi nel leggere di Sverker Johansson hanno sicuramente pensato a scenari apocalittici e hanno fatto bene, perché quei robot vivono con noi e tra noi e crescono con noi.
Quelli più complicati e sofisticati li riconosciamo facilmente perché fanno il “lavoro sporco”.
Chiedetelo al ragazzino che gioca a Unreal Tournament o a Call of Duty; al vecchio costruttore di siti che semina esche per i Crawler; o a qualcuno che ha a che fare con certi centri di ricerca. A quelli più semplici, o comuni, non ci badiamo più, sono ormai mischiati a noi come ultracorpi, e neanche riusciamo più a immaginare un’altra esistenza senza di loro.
Se non la prendiamo troppo da lontano (il primo utensile) e neanche troppo da vicino (Curiosity), restando sul pezzo, possiamo chiederci in quanti usino un correttore ortografico, non clicchino per cercare sinonimi o non si facciano ancora guidare da quel vecchio T9.
Sono questi i nostri robot e pure Johansson ha trovato a chi far fare quel maledetto “lavoro sporco”. Si chiama Lsjbot ed è un piccolo robot che per lui ha scartabellato milioni e milioni di informazioni digitali (database e fonti varie) per poi confezionare nuove voci su Wikipedia.
I puristi con la penna d’oca possono stare tranquilli perché tutte le voci create in modo automatico sono ben evidenziate da Wikipedia che crea anche elenchi di testi creati da bot in attesa di correzione.
Certo gli errori non mancano mai. Per esempio aver utilizzato, nella programmazione di Lsjbot, solo informazioni registrate in alfabeto latino ha fatto scartare al bot tutte le informazioni, pur molto pertinenti, scritte in cirillico.
Ma si sa, gli errori possono capitare e se “errare è umano” ecco che anche i bot sbagliano.