La città intelligente è la tua città

Se penso alla mia città nel futuro vedo una piccola città con prestazioni urbane altamente sviluppate, dove l’infrastruttura “forte” cede il passo a una più leggera e più ramificata.

Vedo una città non privatamente astratta, ma socialmente partecipata, con una rete fitta di relazioni che elevano la sommatoria delle proprie conoscenze.

In una sola parola vedo una città “intelligente”.

Quest’immagine, evidentemente, è così generalmente condivisa che l’Unione Europea  ha messo a punto una particolare strategia per favorire la crescita urbana delle città “in senso intelligente”.

Nemmeno l’intelligenza di cui parla la UE è un concetto astratto, ma una precisa direzione di sviluppo per misurare il “quoziente urbano”.  Il futuro smart va su binari precisi e la tecnologia è vitale, perché “permette a tutti i cittadini di interagire in modo trasversale e di auto-organizzarsi”.

In fondo, come ci ricorda Alberto Cottica, “le città sono il nostro futuro come specie”.

Del “perché l’innovazione e il digitale sono una grande occasionesi parlerà a Potenza, dal 14 al 16 febbraio, nel Teatro Stabile della città.

Il programma vedrà la partecipazione, a diversi livelli, di

Giuseppe Granieri,
Carlo Ratti,
Luca De Biase,
Stefano Maruzzi,
Giovanni Boccia Artieri,
Tullio De Mauro ,
Gianni Biondillo
Derrick De Kerckhove.

Ma fantastici de ché?

Se andate sul sito del Partito Democratico troverete questa immagine  qui accanto che imita il famoso  fumetto della Marvel con l’aggiunta del quinto fantastico.   Potrà sembrare comica o curiosa ma l’imitazione de “ I Fantastici 4″ ha sollevato un bel vespaio nel web (e qui la cronaca di twitter sull’incontro).

Ciò su cui voglio riflettere brevemente oggi sono due questioni a mio avviso fondamentali. La prima è di carattere comunicativo, ovvero che tipo di strategia è stata adottata e messa in campo e  la seconda, più seria,  sul tipo di messaggio politico che i candidati sono riusciti a far filtrare .

Premetto di non conoscere la tattica e il disegno (o l’obiettivo) della strategia di marketing che sottende a quest’idea del “fantastico”, ma se fossi stata chiamata a valutarla preliminarmente l’avrei bocciata immediatamente.  Quale può essere  è il messaggio lanciato con i fantastici 5? Forse questo: vedete, elettori della coalizione di sinistra, per spazzare via anni di fantapolitica,  di malvagio immaginifico al potere (nani e ballerine mutati e quintuplicati in veline, anchorman, concubine, escort e olgettine) è necessario una forza ancora più straordinaria capace di vincere sul male in qualsiasi forma esso si presenti. Peccato, però, che questo ragionamento non sia niente di più di un rigurgito che rimane all’interno di quello stesso mondo “fantastico” che si vuol combattere.  Una volta, nel ’77 gridavano “la fantasia al potere” ma il senso era naturalmente opposto, era anti-politico.  Non lo possono gridare i politici di “professione”, è come sputare nel proprio piatto. E poi, per dirla in soldoni, il progetto politica che viene “sventolato” resta completamente all’interno del solco tracciato da anni di berlusconismo.  Dunque la traduzione semplice del messaggio elettorale è quello di non cedere al desiderio del reale ma ad avere “fede” (ricordatevi questa cosa che ritornerà dopo)  in progetti fantastici e in iperboliche soluzioni che,  voi terrestri, al momento, non siete in grado di comprendere.  Ah ci sarebbe pure da aggiungere qualche malfidato lettore di fumetti ha sostenuto che l’investitura di supereroe non avviene per elezione ma per acclamazione, ovvero per riconoscimento delle gesta super eroiche, e che quindi tutto quel che viene pubblicizzato è semplicemente millantato credito. Ma si sa quelli che leggono fumetti son gente cattiva.

Il secondo nodo del ragionamento viene invece fuori dal dibattito televisivo svoltosi ieri sera su Sky TG24 dove i 5 candidati (Bersani, Renzi, Vendola, Tabacci e Puppato) si sono misurati, in perfetto stile USA (in verità più perché costretti dalle regole rigide imposte dall’emittente che per scelta personale), su programmi e proposte con tanto di  fact checking e  appello finale.  Ad un certo punto il conduttore ha chiesto a tutti i candidati di indicare il nome di una personalità ispiratrice e guida; ecco che si chiude il cerchio della comunicazione. Tolti Tabacci e Puppato che, dimostrando di essere a corto di fantasia, indicano De Gasperi, Nilde Iotti e Tina Anselmi; i veri super-eroi citano Mandela, Giovanni XXIII e il Cardinale Martini. Ecco che ritorna quel concetto di “fede” che avevo accennato prima. Cari cittadini- elettori, sembrano dire i tre super-eroi (e unici veri aspiranti) la politica non ha a che fare con la società civile e non c’è niente di materialmente concepibile che possa salvarci. Soltanto la fede rigida nel supereroe può portarvi alla salvazione. Poi se ci scappa pure un miracolo, si vedrà.

Come scrivere un post?

Perché c’è sempre qualcuno che ti dice come scrivere un post?

Ci pensavo mentre leggevo questo che ne elenca 20 di consigli e ho ricordato che nei blog ci si occupa della “questione” da tanti anni.

Se, per esempio, provate a fare questa richiesta a Google, riceverete una grandissima quantità di risultati (nel mio caso circa 157 mila in 0,28 secondi) con un’alta percentuale di pertinenza alla richiesta.

Troverete decaloghi (ma anche cose svelte in tre punti) e consigli che spaziano dalle pratiche ammiccanti alle tecniche stilistiche e di marketing che pretendono anche un rigore scientifico.

L’efficacia è il risultato atteso più pubblicizzato: ovviamente si consiglia di badare all’effetto che il post deve cercare. Anche se è lapalissiano (a cos’altro può badare chi scrive in pubblico?) è quello che consigliano tutti. Massì, la voglia d’esser visitati e di attirare navigatori verso le proprie pagine deve necessariamente essere nella natura stessa del blogger… anche al punto da trascurare i contenuti.  Si, non scandalizziamoci adesso, i contenuti nel web sono aerei, o li acchiappi al volo o niente, o sei sull’onda o sei sommerso: come diceva un vecchio “guru” poi mettere lì la tua più bella idea ma se non te la legge nessuno è ancora così bella?

E’ vero di cattivi consiglieri ce ne sono ma fa parte del gioco.

L’unica cosa antipatica in tutti questi maestri che spiegano ai “dummies” è la ferma certezza binaria: fai così perché accadrà questo e poi questo se vuoi quest’altro.

E’ un linguaggio binario (due stati, due numeri) che si è esteso al comportamento.

Anche i bar camp si sono trasformati da luoghi di discussione autorganizzanti a luoghi di veloce esposizione, dove devi scartare o accettare di primo acchito ciò che vuoi (forse) approfondire.

Tale comportamento non è ovviamente pensiero, non c’è un pensiero umano binario in questi termini, ma è struttura o sovrastruttura. Potrebbe essere l’esasperazione della semplicità, della ricerca delle risposte facili, più probabili, più possibili o più immaginabili. Anche l’esplorazione del web è divenuta banale in cambio di una ricerca efficace e veloce. Ci importa se il nostro motore di ricerca conosce già le nostre domande? Certo che no.

Allora, per ritornare alla domanda iniziale, voglio dare un consiglio anch’io dopo anni da blogger, più o meno effettivi, e voglio farlo in un solo punto, con una piccola domanda e una breve risposta.

Domanda: se sei solo su una barchetta in mezzo all’oceano e non hai nient’altro che le braccia per i remi e la mente per le decisioni che fai?

Consiglio: fai un po’ come cazzo di pare.

Il lettore [digitale] è curioso

Manuel Koppl sull’ultimo numero di “Chip” scrive del lavoro degli Hacker e dei problemi connessi alla nostra sicurezza in rete e per introdurre, simpaticamente o letterariamente, il focus del suo ragionamento adopera come introduzione un fatto di cronaca italiana: il blitz dei carabinieri che catturano il boss Antonio Cardillo.

Koppl racconta di “un mafioso che finisce in una trappola tecnologica” per colpa di “un normalissimo telecomando che, però, invece di azionare il televisore o lo stereo, serve per aprire un mobile a specchio”.

Dopo aver letto velocemente l’articolo ritorno all’introduzione perché mi incuriosisce la vicenda della trappola tecnologica e nel ricercare notizie sulla vicenda scopro che Koppl ha appreso la notizia, come tutti, sulla stampa nazionale (che, parla di “telecomando che non corrispondeva ad alcun apparecchio presente nella casa”) aggiungendovi però di sua iniziativa che si trattava di un normalissimo telecomando per “televisore o stereo”, mentre nessun giornale è così specifico. Invece, se guardate questo filmato, vedrete chiaramente che si trattava di un “normalissimo” telecomando per cancelli automatici. Io credo che proprio per questo i carabinieri hanno insistito nella ricerca: se il telecomando non apriva il cancello di ingresso e neanche un garage, qualche altra porta doveva pure aprirla.

Cosa centra Koppl con tutto questo? Lui non si occupa certo di cronaca nera italiana? Certo che no, ma forse centra con il suo racconto.

Quando un giornalista scrive il suo pezzo (rispettando tutte le sacro sante W)  senza approfondire abbastanza le notizie, anche quelle che servono solo a dare “colore” al pezzo, deve tener conto del fatto che la sua approssimazione verrà sicuramente colmata dal lettore (digitale) curioso.

Penso che questa tendenza a sottovalutare alcune parti del discorso sposi quell’idea di lettore ingenuo che poteva ben funzionare in epoca totalmente “analogica”. Quella che ieri poteva essere una dimenticanza, o “grossolaneria”, oggi è un errore grave che inficia la credibilità dell’intero articolo ed è una cosa che un giornalista, soprattutto se tecnico-scientifico, non può permettersi.

Spesso siamo disposti a sorvolare  su attacchi farciti da errori storiografici ma solo se stiamo leggendo un articolo sportivo; lì, si sa, la metafora campata in aria e l’epica contano più di ogni altra cosa.

Insomma quello che è sfugge a Koppl è che il lettore “digitale”, se non è svogliato, può verificare tutto e non soltanto i dati tecnici o i link che gli sottoponiamo.

Cassanate e altri discorsi

Le “risposte infelici” di Cassano hanno, come al solito, sobillato la rete, ma c’era da aspettarselo. Sono stato tra i primi a mettere l’#Cassano su Twitter dopo essere sobbalzato dalla sedia ieri pomeriggio.  Non si tratta di una “cassanata”, quella sorta di ambito giustificatorio dove possono rientrare quei calciatori che si lasciano sfuggire dalle mani il proprio sentimento privato (come sono “balotellate” quando si menano i giornalisti, “tottate” quando si sputa sull’avversario, ecc….) , ma del pensiero di un uomo che di mestiere fa il calciatore a cui viene semplicemente fatta una domanda. Il calciatore avrebbe potuto non rispondere dicendo di non saperne nulla ma invece dice di non volerne parlare e poi ne parla.

Non è il pensiero di Cassano che mi stupisce, anzi un po’ me l’aspettavo pure; qualsiasi uomo sa che l’omosessualità è il tema principale degli scherzi “tra uomini” (il motto “amici amici ma a tre palmi dal culo” è sempre molto in voga), mi preoccupa di più l’armamentario di elaborazione con il quale sul web si è cercato di chiudere il cerchio della notizia.

Ecco i suoi passi:

1) un giornalista chiede al calciatore se è vera la notizia, riferita da Cecchi Paone, che in nazionale ci siano dei gay. La domanda sembra “impertinente” ma fa parte della libertà del giornalista di porre domande a piacere e non a piacimento (del resto è stato chiamato per fare questo). Anche se il giornalista avesse domandato a Cassano del massacro dei randagi in Ucraina sarebbe stato impertinente.

2) Cassano, che conosce bene il suo ruolo, ci scherza su (l’aveva già fatto prima anche su Balotelli, tra l’altro usando la stessa battuta che aveva usato Gattuso quando ricevette dal Milan il compito di fare da tutor a Cassano) e dice di non voler rispondere ma poi invece dice che se non froci son fatti loro e che spera che non ci siano in squadra. A domanda impertinente risposta impertinente.

3) Tutti i giornalisti sportivi abituati e consapevoli di avere a che fare con il “calcio-pensiero”, seppure indignati, cercano di tenere ben distinti i ruoli e i compiti cercando di continuare a parlare di calcio (e credo che diversamente non si possa fare).

4) La rete invece no, com’è nella sua natura, si scatena (l’hashtag  #Cassano vola su twitter) masticando vorticosamente concetti senza troppa elaborazione (perché se a 140 caratteri di testo non corrispondono altrettanti caratteri di valutazioni e contro-deduzioni mentali le cose si complicano) e tra questi ce ne sono numerosi che sostengono l’ipotesi di un subdolo tranello ordito ai danni dell’ingenuo Cassano.

Ci sono momenti, soprattutto su Twitter, nei quali un buon numero di persone lanciano commenti da “supertecnici” della comunicazione come di chi sta al di sopra delle notizie e di mestiere fa il giudice o il prete. Sono quelli che non riportano alcuna notizia, la danno per scontata e ammiccano a retroscena, a trabocchetti o a orditure appartenenti a grandi o piccoli scenari (che, altrimenti, i piccoli lettori non saprebbero come immaginare).

Insomma su Twitter serpeggia la logica che “la domanda sia stata fatta apposta per scatenare il putiferio mediatico” e la sostengono non pochi, anche qualche amico che seguo e che stimo.

A me, lettore ingenuo, colpisce soltanto il contenuto delle risposte di Cassano che è lì sotto i miei occhi e non posso farci niente. Cosa può importarmi se un giornalista ha posto una domanda di cui conosceva già la risposta? Può mai cambiare il mio giudizio sulle parole di Cassano?

Le persone sono e devono essere responsabili delle parole che proferiscono anche se queste derivano da domande “impertinenti”.  Pensate al classico studente che dopo l’esame accusa il professore per avergli ordito un tranello con domande in-pertineti o a trabocchetto.

5) In serata Cassano fa dietrofront scusandosi per le parole pronunciate.

Massì è una cassanata.

Raccontare il passato prossimo venturo [1]

Molti come me, forse, si fermano ogni tanto a ricordare cosa usavano in un certo passato (genericamente remoto), una cosa che i giovani fanno di meno, o per niente, soltanto perché questo esercizio mentale ha una relazione interdipendente con l’età anagrafica. La mia memoria si sveglia quasi sempre con un oggetto sul quale leggo le trasformazioni fisiche e funzionali: confronto quell’oggetto esperito in un passato, direttamente o indirettamente, con quello che sarebbe più o meno il suo corrispondente o quanto meno con la sua corrispondente funzione di oggi.

L’oggetto del mio racconto è un gettone telefonico, ritrovato in uno scatolino dimenticato in soffitta, che mi ha rinverdito il ricordo di quando, da militare, vedevo tutti i miei amici con le tasche piene fare lunghe file davanti alle cabine telefoniche per conversare alcuni minuti con i propri cari.  Io, che invece mi ero accordato per per una sola chiamata quindicinale con mia madre,  telefonavo quando ero in “libera uscita” da un posto telefonico pubblico che utilizzava il contatore di “scatti” (unità di misura tempo/conversazione tutt’ora in uso) così potevo pagare in lire. Qualche inconveniente o incomprensione ogni tanto nasceva ma aveva a che fare più con l’onestà del gestore che con la precisione del contatore.

Per inciso, c’erano dei vecchi telefoni che la SIP stava rimuovendo perché con un piccolo trucco potevi fare chiamate intercontinentali con un solo gettone, ma lì la fila era ancora più lunga e quindi non ne valeva la pena.

Il mio interrogativo, contemporaneo a quell’esperienza, era perché non ci fosse un qualcosa, un sistema, che potesse ridurre o eliminare quel trasporto di gettoni che seppure usati normalmente come monete, rimanevano pur sempre un pesante fardello. L’idea era diventata quasi una “fissazione” e spesso ne discutevo con qualche compagno di nottate sognando scenari alla “Star Trek”. Avevamo immaginato di tutto, dal telefono senza fili ai tele-trasportatori (altro inciso: ci chiedevamo “come mai Kirk e compagni si teletrasportavano dappertutto ma per muoversi sull’Enterprise andavano a piedi tra corridoi e ascensori…) non avevamo pensato alla semplice soluzione che già girava nelle grandi città. Me ne accorsi nella stazione di Napoli, che frequentavo per l’università, quando rimasi incantato di fronte a un nuovo telefono pubblico nel quale bastava inserire una scheda magnetica del valore di circa 10 gettoni.

Proprio quando ero convinto (come per il famoso “teorema della cacca di cavallo”) che dell’evoluzione del “gettone” era inutile occuparsene perché le future forme di comunicazione avrebbero reso inutile il telefono (“al massimo un video-citofono”, dicevamo ridendo a crepapelle, “tanto ci sarà il tele-trasporto”), invece il suo concetto rimaneva inalterato. Anzi l’oggetto-gettone, completamente trasportato nell’idea di “scatto”, si ampliava e recuperava uno spazio anche maggiore: pensate, per esempio,  allo “scatto alla risposta”.

Insomma, da buon sognatore, non coglievo ancora la differenza tra il sostituire la materia o il valore di un oggetto d’uso.

Rimanendo sempre “fissato” sull’idea di rivoluzione delle cose in generale, ho visto i primi cellulari osservandoli da una “piccolissima” finestra sull’America (il perché fosse piccola la finestra, unita al concetto di rivoluzione, la dicono lunga sulla mia formazione social-anarchica) ed ho subito pensato che quello era il segno concreto dell’iniziale rovesciamento dell’idea di telefono. Ma mentre io pensavo alla riduzione della distanza uomo/uomo in termini metrici, quella che invece si riduceva era la distanza uomo/telefono. “Beh”, pensai, “almeno non sarà più necessario correre a casa o in una cabina e poi se cerchi qualcuno lo trovi subito”.

Più o meno in quello stesso periodo, in una delle mie visite ai cugini di Parigi, rimasi “incerto” di fronte a un nuovo apparecchio messo di fianco al telefono: il “Minitel” (che, tra l’altro proprio questo mese chiude definitivamente i battenti). Loro cercarono di spiegarmi l’utilità di quell’oggetto come qualcosa che univa video e telefono in sorta di un fusione “interattiva” (il termine l’ho aggiunto io adesso, ovviamente) e io continuavo a vederci solo una semplice estensione telefonica. Quella sarebbe diventata internet e io continuavo a prevedere la scomparsa del telefono.

Ma chissà, non è mai detto.

La notizia corre anche su Ustream

Kirill Mikhailov, per la rete Reggamortis, è un citizen journalist russo che qualche tempo fa sul suo blog aveva scritto che il futuro del “reportage” era stare dentro le manifestazioni e trasmetterle in diretta da diversi lati possibili per poi concentrare il tutto in una sola piattaforma.  Così il 9 maggio, durante un’ennesima manifestazione anti Putin, con il proprio smartphone collegato a un notebook nello zaino, ha seguito tutti gli avvenimenti trasmettendoli in streaming su Ustream.tv.

Per capire oggi che peso ha avuto la cosa (niente calcoli e statistiche derivanti dai contatti) basti pensare che la piattaforma usata per lo streaming della manifestazione ha subito un attacco DDoS  da una infinità di indirizzi IP russi, kazaki e iraniani come a Ustream non gli era mai capitato.

L’obiettivo è stato quello di interrompere il flusso di rete verso quel fastidioso reportage anti-presidenziale di Mikhailov. Insomma per tradurla in linguaggio radiotelevisivo nostrano è un po’ come la cacciata di Santoro dalla Rai dopo quel famoso “si contenga“. Ovvio, con le dovute differenze sia perché a Mosca la “repressione” va un po’ meno per il sottile e anche perché la TV è veramente “di stato” come sarebbe piaciuto proprio a Berlusconi.

La russia sarà pure la grande patria di cracker e hacker ma qui la rete ha una logica che supera i pruriti informativi nostrani, qui le TV o le agenzie non seguono Twitter o Youtube per stanare notiziuole e la logica di rete è strettamente legata al proprio valore informativo.

Un risultato? Hunstable, CEO di Ustream, non solo ha rilanciato il video di reggamortis1 sulla homapage di Ustream, ma ha inaugurato una versione in lingua russa della propria piattaforma.

Come ti racconto un terremoto

Alle 4.04 una fortissima scossa di terremoto in Emilia Romagna, al momento cinque morti (tre operai sul posto di lavoro e due donne, una di 37 anni e un’anziana ultra centenaria, morte per lo spavento) e 50 feriti. I danni maggiori si sono verificati nel ferrarese. La scossa è stata di magnitudo 6 e l’ipocentro a 5,1 km di profondità .

 

 

Come tutte le mattine, appena sveglio, lancio uno sguardo veloce a Twitter e immediatamente mi colpisce il tweet del “La Stampa” che parla di una forte scossa di terremoto in Emilia con morti e crolli. Faccio un retweet e salto prima sulle news di Google e poi su Facebook. A un certo punto mi rendo conto di essere ancora a letto e inevitabilmente vado al ricordo della mia esperienza di terremoto, quello del 1980, e di come ce lo raccontavano allora.

La reazione è quella ti spegnere i miei “apparati” e accendere la TV su Rai1 per ascoltare il loro racconto. Sono le 8 passate, quasi 4 ore dopo la prima notizia, e due giornalisti in studio si rimpallano tra un inviato in zona, sempre d’avanti allo stesso fabbricato (la cui foto ho inserito qui nel post) e una non meglio precisata “redazione web” in studio. In aggiunta, telefonicamente, intervistano Red Ronnie il quale  (è originario, più o meno, dell’area colpita ma vive altrove) parla di posti che si ricorda bene e poi del fatto di essersi sentito telefonicamente con Fiorello e Paolo Belli. Poi chiamano un’amministratrice comunale di un paese coinvolto che è in auto e sta raggiungendo Ferrara per un incontro con il capo della Protezione Civile, e che non sa granché dell’accaduto, anzi dalle risposte si capisce subito che ne sa molto di meno del giornalista che la intervista. Come se non bastasse  chiamano al telefono un vescovo il quale riporta una sorta di censimento mappato della propria diocesi ma senza aggiungere assolutamente nulla a quanto lo spettatore già conosce benissimo. A tutto ciò si inframezzano un paio di rimbalzi alla “redazione web” dove una giornalista, davanti a un paio di monitor, ci racconta di qualche tweet del tutto insignificanti, ai fini del racconto, e due mini video di YouTube dai quali si capisce ancora meno e che la giornalista continua a lanciare dicendo “ce ne sono tanti, ce ne sono tanti” mentre fa vedere (in loop) sempre gli stessi per 4 o 5 volte.

Lo so di avere un caratteraccio (e che proprio non riesco a sopportare l’inutilità delle cose) ma di fronte a un racconto giornalistico che non sa aggiungere nulla a quanto già conosco, mi viene in mente la mia esperienza del 1980 e di come le notizie oltre ad essere per lo più inesistenti erano immaginarie. Ricordo ancora con precisione il TG1 del giorno dopo che parlava di una scossa di terremoto “in Basilicata, Lucania e Campania” .

Ma prima di ritornare, sconfortato, al racconto della rete faccio l’ultimo sforzo e passo a Sky TG24. Effettivamente qui la musica cambia e anche se lo stile con “bellimbusti” in studio non mi è mai piaciuto, le notizie e i servizi danno un senso più concreto al racconto. Al telefono c’è il responsabile regionale della Protezione Civile che lascia informazioni pertinenti e concrete, da il numero di telefono a cui chiamare (che la giornalista in studio ripete e scandisce, proprio come un tempo facevano i TG del servizio pubblico) e dispensa qualche consiglio a chi sta ascoltando e vorrebbe andare lì sul posto. Finalmente i filmati non hanno il “quasi” fermo immagine del TG1, ma spaziano così tanto da dare un senso compiuto alla gravità della situazione e oltre a intervistare i genitori e un collega-sindacalista del giovane operaio morto sotto il tetto di una fabbrica in cui lavorava, fanno parlare (anche loro) un prete ma questa volta è il parroco di una chiesa semi distrutta che, molto più sensatamente del suo vescovo, è contento perché il tutto è accaduto quando la chiesa era chiusa perché di lì a poche ore, invece, sarebbe stata stracolma di bambini.

Insomma Sky TG24 sembra fare un racconto molto più corrette e sostanzioso e (anche se forse pesca qualche notizia su Twitter) non mostra nessuna “redazione web” di cui non ne ha alcun bisogno.

Il social verticale (da Fiorello alla Canalis)

Già da un po’ di tempo era stata avvistata la presenza di star (in genere televisive) all’interno del Twitter nostrano e probabilmente la prima grande star  a lanciare i suoi primi tweet  è stata Simona Ventura. Poi pian piano tutti a seguire fino al caso eclatante di Fiorello che, in pochi mesi (o forse giorni), ha portato il fenomeno alla ribalta: se oggi al bar e negli uffici si parla anche della tweettata tra @mehcadbrooks e la @canalis (e si conosce perfino il significato di hashtag ) è sicuramente merito suo.

Il fenomeno è stato analizzato in modo serio da Giovanni Boccia Artieri al quale, ovviamente, rimando per approfondimenti vari e mi fermo, com’è il mio solito, sottolineando interrogativamente alcune questioni: 1) perché le star si infilano sui social network ?  2) Cosa ne viene ai social?

Sulla prima questione sono convinto che la “colpa” (non in senso negativo) stia tutta stipata nelle tecniche di questa nuova leva di esperti in comunicazione i quali consigliano, nelle loro strategie, di stare dentro i fenomeni sociali e di battere il ferro finché è caldo.  Si tratta di una “nuova” cultura (un nuovo vangelo che sulla scia delle vecchie sperimentazioni condotte negli USA, pone in cima alla check list la parola “marketing”) tutta incentrata sulla comunicazione pubblicitaria che, semplicemente, vede il “prodotto” come una volpe che deve abitare il pollaio (“il cliente”) e che, quindi, quando piomba nel social network deve poterne tirare fuori soltanto il succo interessante.

Sulla seconda questione, invece, credo che ai social ne vengano fuori due cose a prima vista antitetiche ma che in definitiva sono strettamente collegate tra loro. La prima è resa benissimo nel finale del post di Giovanni («la forza dirompente della Rete sta nell’aver reso i rapporti orizzontali [e che] pensare a nuove verticalità sarebbe un triste passo indietro»),  ovvero: il social sembra subire una corruzione di natura spaziale, l’orizzontalità che tende alla verticalità. La seconda è che proprio questa tendenza alla verticalità rende più popolari i social rafforzandoli proprio nella loro natura sociale proprio quando da elitari (o semi elitari) divengono popolari. Credo che il caso di Facebook spieghi meglio di mille parole quello che cerco di dire.  Il social ne vien fuori bene e meglio da queste iniezioni di “verticalità” poiché cedendo piccolissime  quote orizzontali ne riguadagna tantissime altre e con una forza propagatrice pari a quella delle onde sonore.