Quel ponte sul fiume Basento

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il back stage (foto di Vito Pace @bituccio)

Lo strutturalismo vede l’opera d’arte (o tecnica) come un insieme complesso di rapporti fra tutti i singoli elementi che la compongono. Chissà se Renato Pedio quando nel 1988 scrisse sulla rivista di Bruno Zevi (Architettura Cronache e Storia), che Musmeci è uno “strutturalista” capace di trasformare le equazioni in architetture, abbia voluto adoperare un sinonimo di “strutturista” proprio per ampliare il campo delle possibilità di indagine intorno all’opera dell’ingegnere romano.
Sergio Musmeci, morto nel 1981 a solo 55 anni, è stato un ingegnere civile che nella sua vita si è dedicato alle sue più grandi passioni che passavano dal calcolo strutturale all’astronomia, all’arte, alla musica e alla filosofia. Fu docente di “Ponti e Grandi strutture” presso la facoltà di Architettura di Roma insegnando ai suoi allievi che anche uno strutturista può e deve dare il suo contributo creativo alla realizzazione delle opere.
Ne suoi studi sulla forma e il minimo strutturale, sviluppò una propria teoria che sarà alla base dei suoi progetti professionali. Nuovo e moderno saranno i corollari di questa visione delle strutture lontane dal modo formale con cui si progettavano le grandi opere dell’epoca.
Sarà proprio la realizzazione del ponte sul fiume Basento a diventare l’opera più esemplare e significativa delle teorie scientifiche di Musmeci.
Siamo alla fine degli anni ‘60 e Potenza non è certo un luogo che ospita grandi interventi architettonici, ma è molto sentita l’esigenza di collegare il polo industriale-artigianale (una discreta area produttiva fatta di piccole e grandi imprese che occupano circa seimila addetti sviluppatasi lungo il fiume) con il resto della città, superando sia la linea ferroviaria delle FS che il fiume Basento.
E’, infatti, il Consorzio Industriale di Potenza, sotto la presidenza di Gino Viggiani a pensare in grande, affidandosi a Sergio Musmeci per la realizzazione non di un semplice ponte ma di una vera e propria opera “nuova” e “sperimentale”.
Le teorie di Musmeci, come ricorda il fratello Alberto, non trovano sempre una corrispondenza pratica nella produzione di opere che sperimentino quelle forme derivanti dal flusso delle forze. Il progetto per Potenza si presenterà, quindi, come una grande occasione per materializzare le teorie in modo definitivo.

primo ciak - Vania Cauzillo con Egidio Comodo, presidente dell'ordine degli Ingegneri di Potenza (foto di Vito Pace @bituccio)
primo ciak – Vania Cauzillo con Egidio Comodo, presidente dell’ordine degli Ingegneri di Potenza (foto di Vito Pace @bituccio)

Qualcosa di simile era già stato realizzato nel mondo anche da altri progettisti, ma solitamente si trattava di coperture che avrebbero dovuto sostenere poco più del proprio peso. Quella del ponte di Potenza, invece, avrebbe dovuto reggere se stesso e ovviamente tutto ciò che ci passava sopra, sempre lasciando in libertà il naturale fluire delle forze e trasferendo tutti i carichi stradali in fondazione.
“Forse è solo un modo non convenzionale, ma legittimo come ogni altro, di pensare un ponte”, dirà più tardi Musmeci.
Il progetto, sottolinea Riccardo Capomolla (negli atti al 1° Convegno di storia dell’ingegneria del 2006), segnerà anche il superamento di un altro limite pratico rappresentato da quell’approccio “empirico-analitico” legato all’uso del regolo calcolatore. Musmeci già dal 1970 utilizzava un calcolatore Toshiba con il quale eseguiva due programmi composti da 16 istruzioni ciascuno (qualche anno dopo passerà a un “HP 9815” dotato di 3 registri e con il quale sviluppò anche dei giochi) senza il quale quella teoria delle forme, basata sul trattamento di un’enorme base di dati, sarebbe stata impraticabile.
L’idea che sta alla base del ponte, e della teoria di Musmeci, è che la forma della struttura debba essere “dedotta da un processo di ottimizzazione statico”, la cui sagoma di superficie obbedisca alle stesse leggi che generano le figure strutturali degli elementi naturali. Così come una pellicola di acqua e sapone si dispone secondo una superficie minimale, il ponte doveva avere una forma possibile che si attenesse al principio del “minimo strutturale”.

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il camminamento pedonale (foto sono di Vito Pace @bituccio)

Non si pensi che fu tutto facile, tutt’altro. All’inizio si dovettero superare le ritrosie e le oscurità politiche locali e, prima della sua realizzazione, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici impose la verifica statica su di un modello. Se ne occupò l’Istituto Sperimentale Modelli e Strutture di Bergamo che, a spese del Consorzio industriale di Potenza, costruì un modello in microcemento lungo 14 metri (scala 1:10) che riuscì a battere le incertezze e ne verificò la resistenza.
Per completare l’opera l’impresa Edilstrade di Forlì, sotto la direzione dello stesso Musmeci, ci impiegò quasi dieci anni e nel 1976 fu possibile attraversare un ponte, costituito da un’unica volta spessa 30 centimetri con 4 campate di 60 metri ciascuna, da sopra, da sotto ma anche all’interno, in quella che ancora oggi resta di una passeggiata pedonale mai completata.
A 40 anni dalla sua realizzazione quel viadotto dell’industria, chiamato semplicemente o affettuosamente “ponte Musmeci”, sarà la prima opera infrastrutturale ad essere vincolata come opera d’arte.
Di questa storia e di come una straordinaria opera di ingegneria abbia rappresentato una vera e propria sfida sia per il progettista che per una piccola città del Sud, si racconta nel documentario intitolato “La ricerca della forma. Il genio di Sergio Musmeci”, che sarà presentato, in anteprima, il 29 gennaio al MAXXI di Roma e il 5 febbraio al Teatro Stabile di Potenza.
La regia è di Vania Cauzillo, il montaggio di Chiara Dainese, la 3D – computer grafica di Michele Scioscia e Marica Berterame, le musiche sono della Scuola di Musica elettronica e Applicata del Conservatorio di Musica “E. R. Duni” di Matera/MaterElettrica, la fotografia di Vito Frangione, il soggetto di Sara Lorusso e Michele Scioscia, la sceneggiatura di Vania Cauzillo e Sara Lorusso, la presa diretta del suono di Angelo Cannarile.
«È stato straordinario affrontare il viaggio all’interno della ricerca di Sergio Musmeci – racconta Michele Scioscia, ingegnere potentino, produttore e fondatore di effenove – lavoro da anni nel campo dei beni culturali e monumentali anche attraverso l’utilizzo della computer grafica, ma con questo documentario l’opera è stata solo il palcoscenico di un racconto che poi ha fatto emergere l’uomo.»
L’opera è prodotta da effenove, una start up della cinematografia nata con l’avviso #bandoallacrisi della Lucana Film Commission, in collaborazione con MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo), Consiglio Nazionale degli Ingegneri, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Potenza, Fondazione degli Ingegneri della Provincia di Potenza e Consorzio Industriale della Provincia di Potenza.
«La sfida – spiega la regista Vania Cauzillo – è stata approcciare a lavoro tecnico di altissimo ingegno e rigore scientifico, individuando però una strada con cui essere estremamente divulgativi. Una sfida che proprio Musmeci ci insegna ancora oggi a cogliere, per divulgare sapere come bene comune.»

[pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno]

Chef – il socialnetwork imperfetto

Ho visto il film  Chef – La ricetta perfetta  e mi verrebbe da dire, di primo acchito, lasciate perdere perché paghereste per intero il biglietto per un film che regge solo il primo quarto d’ora.

E’ la classica  “commedia americana” (con tutto quello che si può indicare negativamente con questo concetto) completamente scontata dall’inizio alla fine e intrisa di tanta banalità  che neanche i fratelli Vanzina sarebbero riusciti a mettere insieme.

L’unica cosa che mi ha fatto rimanere seduto è stato lo show, ovviamente banalizzato, di social network.  Non ho capito bene se Jon Favreau (regista e attore principale) volesse parlare di cucina o invece di Twitter, Vine,  YouTube, Facebook e iPhone….  il risultato è stato comunque un polpettone (o una ciambotta se volete)  i cui ingredienti, se dosati meglio come fa un vero chef, avrebbero reso la storia migliore e più appetitosa.

Daniele Formica

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Basilicata da costa a costa

Ecco riprodotto il percorso compiuto in 10 giorni da Papaleo nel suo film e che google maps sviluppa su circa 188 km (da percorrere a piedi in 1 giorno 14 ore ma che impostandolo “dritto per dritto” diventano 118 Km percorribili in un solo giorno).

Tutti i lucani si sono riversati nelle sale cinematografiche per vedere questo “evento” che parla della loro regione e che ha battutto in incassi, qualsiasi altro film girato in Basilicata, oltre che il campione Avatar.

Perché questo grande afflusso? Oltre al buon battage pubblicitario ho l’impressione che i lucani stessero aspettando di essere raccontati, più che rappresentati, in forma contemporanea e sincronica.  L’ultimo film che aveva fatto qualcosa del genere era stato i basilischi ed è proprio a questo lavoro della Wertmuller che bisogna necessariamente riferirsi.

Nel 1963 la Wertmuller sincronizzò l’immagine di un microcosmo lucano attraverso la storia di piccoli “vitelloni” di paese che raccontavano la propria giornata caratteristica e atipica. Caratteristica perché i giovani studenti di paese si riconobbero in quegli attori e risero del loro stesso dialetto e delle loro stesse battute; atipica perché la cultura accreditata del tempo amava raccontare e mettere in luce una Basilicata diversa, più amara, più drammatica.

Anche “Basilicata coast to coast”  vuol far parlare i lucani ma lo fa con troppa leggerezza, tanto da non riuscire a produrre più di una trama a bozzetti e una storia frivola quasi inconsistente.

Ma forse l’intenzione era quella di fare un un film leggero, turistico e promozionale e allora si, l’obiettivo è stato raggiunto: i personaggi, la storia e gli ambienti sono possibili addirittura probabili.

Ma non cercate di più.

Torno subito

Separa

Simone Damiani è un regista che ha deciso di fare un film e distribuirlo, gratis, via internet.

Credo che la scelta sia stata dettata da motivazioni pratiche e necessarie (il non aver trovato case di produzione che investissero sul film) oltre a qualche piccolo “calcolo da rete”. Tra MySpace, Facebook e un blog su WordPress il film ha avuto più di tremila download in una sola settimana.

Resta il fatto di un progetto ideato e realizzato con poche risorse che si pone prepotentemente all’attenzione degli addetti ai lavori. Damiani e tutta la troupe si dichiarano:

un gruppo di giovani professionisti del settore cinematografico che hanno un solo scopo nella vita: dimostrare che si può fare cinema senza essere “figli di…” e senza “darla a…”.

dunque professionisti che oggi usano internet ma che domani, quando avranno agganciato il produttore giusto, rientreranno nella canonicità dell’esercizio della propria professione.

Ed è giusto anche questo, l’utilizzo di mezzi liberi per raggiungere un risultato di visibilità. Ma questa non è certamente una novità e tanti “blogger” lo sanno molto bene.  Non capisco perché qualcuno parla di “coraggio” e altri di “medioevo”. L’operazione (sia chiaro, per me è meritoria) utilizza a pieno la tecnica di marketing propria della rete ed è sviluppata con estrema cognizione di causa.

A me ricorda il primo film di Moretti girato in Super8 e diffuso garzie a un grande passaparola, ma soprattutto a qualche partito e qualche movimento , d’altronde questo era l’unico marketing dal basso di allora.

Quindi nulla di nuovo sotto il cielo della diffusione attraverso “i nuovi media”, allora guardiamoci il film, discutiamo di quello, recensiamolo e apprezziamolo come opera prima di giovani che non avevano altri mezzi per farsi conoscere. Ma poi il cinema, resta sempre il tempio del film.

Jerichow

Jerichow

Jerichow

Ecco il film che ho visto a Venezia in “esterno notte” i film decentrati della 65° mostra internazionale d’arte cinematografica.

Jerichow è un paese nel nord della Germania. E’ qui ritorna Thomas nella vecchia casa della madre appena defunta.

Il film è un classico melodramma che si ispira a Qualcuno verrà.

Regia: Christian Petzold