Potenza 25 aprile for dummies (o dell'informazione tossica)

La pagina più brutta della storia italiana è stato il ventennio fascista, anche se in realtà fu di qualche anno in più (dal 29 ottobre 1922 al 29 aprile 1945). Il riferimento ai venti anni avviene per uno slittamento al 1925, anno in cui Mussolini dichiarò fuori legge tutti i partiti.

Il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale chiamò all’insurrezione tutti gli italiani contro i fascisti e i nazisti e il 29, a Caserta, venne sancita ufficialmente la fine del fascismo (la fine effettiva della guerra in Italia sarà il 3 maggio).

Ecco perché è importante il 25 aprile: non è il giorno della memoria dei caduti (generici) di una guerra ma è la data di un’insurrezione, di una rivolta, dell’atto culminante, dell’esplosione della rabbia popolare contro la dittatura fascista. E’ la vittoria della resistenza italiana e di tutti i partigiani che diedero vita alla Costituente e alla Costituzione italiana.

Ricordare quella data, festeggiarla – se volete, è fondamentale per non distrarsi troppo, nel quotidiano, di fronte all’abbassarsi dei livelli di democrazia.

E’ importante per i giovani che devono saper mantenere alta la guardia contro gli autoritarismi di ogni tipo, soprattutto a quelli nascosti nelle istituzioni;  devono sapersi opporre alla strafottenza di chi governa solitario; ma anche imparare a decifrare gli algoritmi di una cultura liberista che aumenta la sfera dei bisogni e allunga la strada per il loro soddisfacimento. Saper riconoscere l’informazione fuorviante e ristabilire i giusti livelli di comunicazione attraverso pratiche di controinformazione.

Ed è solo di informazione che voglio parlare in queste poche righe e lo stimolo mi viene dall’idea di Basilicata Antifascista di raccogliere opinioni e contributi su quanto accaduto a Potenza il 25 aprile.
Il tutto parte dalla mancanza (che Giampiero ben descrive nel suo post su FB) di sensibilità e opportunità della politica ufficiale e istituzionale potentina rispetto alla ricorrenza del 25 aprile per finire, paradossalmente, con la condanna a coloro i quali quel giorno erano gli unici in piazza a ricordare quella data, anche se non come ricorrenza.

Come si fa a passare da una denuncia all’altra? Attraverso un’informazione che da carente diventa tossica; con la forma che riempie di contenuti l’assenza di sostanza (la notizia).

Accade che agli addetti all’informazione (quasi tutti) sfugga la notizia di un evento organizzato per la giornata del 25 aprile. Certo forse era poco pubblicizzato, un volantino nelle scuole e su Facebook (l’evento segna 225 “mi interessa” e 161 “partecipo”), ma questi “addetti” neanche approfondiscono più di tanto le ricerche pur in una totale assenza di eventi “ufficiali”.

La primavera potentina aspetta proprio il 25 aprile per dare il meglio di se: piove fin dalla mattina e il freddo rincara la dose con una spennellata di neve. Puntuali e imperterriti, alle 16.30, i giovani antifascisti raggiungono piazza prefettura, montano il loro striscione tra i porticati del Gran Caffé e danno il via all’evento. La cosa dura, tra la distribuzione del volantino qualche canzone e una discussione aperta a tutti, fino a sera quando vanno via tutti. Nessun facinoroso, nessuna lite e niente polizia, neanche un vigile urbano a garantire l’ordine.

Il giorno dopo? Niente, di nuovo nessuna notizia, di nuovo solo l’assenza di manifestazioni ufficiali tranne quella dell’Ansa che con un dispaccio della polizia parla di “alcuni  movimenti antagonisti” e di “una manifestazione non autorizzata”.

Tutto qui, questo è il racconto della giornata, più qualcuno che su Facebook ti dice “io credo all’Ansa”.

Anziché complimentarsi con quei ragazzi, si punta il dito sull’autorizzazione.  Peccato che si scambi la forma per l’in-forma-zione.

Pure durante il fascismo contava la forma, innanzitutto.

Voi come immaginate l’informazione ai tempi del fascismo?  Io me l’immagino tossica, solo ufficiale. Niente verifiche, niente approfondimenti, pensava a tutto l’Agenzia Stefani. E, ovviamente, c’era chi diceva io credo alla Stefani.

“Spiega ai tuoi figli

e ai figli dei tuoi figli

non perché l’odio e la vendetta duri

ma perché sappian quale immenso bene

sia la libertà

e imparino ad amarla 

e la conservino intatta

e la difendano sempre”

25 aprile

 

 

La banda dell'ultralarga

Ha ragione da vendere Massimo Mantellini quando mette il punto interrogativo sulle “competenze” di Enel, aggiungendo che “Solo un burocrate spericolato chiuso nel proprio ufficio può immaginare che l’infrastuttura digitale del Paese sia in fondo un gingillo tecnologico alla portata di chiunque”.

Stiamo parlando della “banda ultralarga”, annunciata da Renzi qualche giorno fa e che riguarda l’accesso a internet attraverso una connessione minima di 30 Mpbs.

Partiamo da un dato sostanziale: l’Italia è al 25° posto nella classifica dei 28 Stati membri dell’UE, con un accesso alla rete, geograficamente, molto divaricato; ovvero c’è una grande separazione tra le grandi aree urbane dove si accede a internet con la fibra ottica e le piccole aree dove a malapena si raggiungono i 10 Mbps. Se prendiamo come esempio la maggioranza dei comuni lucani, con i loro 2 o 4 Mbps, la velocità scende ancora di più.

Dunque aumentare la velocità delle connessioni e, soprattutto, diminuire (se non annullare) il digital divide, è una priorità imprescindibile.

Anche l’attuale governo se n’è occupato ponendo al centro della proprio proposta politica un’agenda digitale come azione programmatica improcrastinabile. Peccato che in realtà è una semplice bandierina per il marketing politico di Renzi.

Perché dico questo?

Perché non riesco a capire il motivo per il quale si cambia azienda di riferimento, scegliendo una semi-pubblica come Enel, ma si approva un progetto (Enel Open Fiber) che non prevede un intervento capillare sul territorio ma solo in zone economicamente più omogenee (cioè più convenienti dal punto di vista dell’investimento) e quindi con un approccio di tipo privatistico-imprenditoriale.

Il cluster A, quello “con il migliore rapporto costi-benefici, dove è più probabile l’interesse degli operatori privati a investire”, raggruppa le 15 principali città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina, Padova e Trieste) e le loro aree industriali, dove risiede il 15% della popolazione  (9,4 milioni di persone).
Il cluster B, diviso ulteriormente in cluster B1  e cluster B2, è formato da 1.120 comuni nei quali risiede il 45% della popolazione (28,2 milioni di persone).
Il cluster C , 2.650 comuni con il 25% della popolazione (15,7 milioni di persone) rappresenta le aree marginali e rurali a “fallimento di mercato” , sulle quali si prevede l’intervento del privato solo a condizione di un adeguato sostegno dello Stato.
Il cluster D con i restanti 4.300 comuni (in maggioranza al Sud) e il 15% della popolazione (9,4 milioni di persone)  è l’area dove è previsto soltanto l’intervento pubblico.

In pratica il progetto prevede di portare la banda direttamente in casa del cliente finale (FTTH) ma principalmente laddove conviene di più,  e accadrà che Enel si occuperà di portare la rete nei cluster denominati A e B (ma nel frattempo soltanto a 244 comuni l’ultralarga),  mentre gli altri due (C e D) dovranno continuare ad aggrapparsi alla rete cellulare (almeno laddove arriva il 4G); infatti il programma governativo prevede la copertura del 100% entro il 2020 ma limitatamente ai 30 megabit.

Se si considera che i comuni italiani sono 8.085 la copertura in fibra, al momento, interesserà soltanto  il 3% del territorio.

In conclusione, quasi tutto il sud resterà al palo e per la Basilicata le cose non sono certo migliori.
Basta andare sul sito Infratel Italia  per scoprire che i 100 megabit sono previsti  soltanto nelle due città capoluogo, che in 64 comuni è in corso di completamento la 30 Mega e che nei restanti 65 comuni si oscillerà tra i 2 e i 20 mega.

L'astensione, la retorica e il centrosinistra

da Polisblog.it

Rocco Albanese dice su Commo che “il governo Renzi sta letteralmente smantellando l’Italia in un contesto di (apparente) unanimismo servile, che fa sembrare mosche bianche le voci critiche.”

Io credo che invece stia smontando, più semplicemente, il PD e il centrosinistra, almeno quello che ne resta.

Giovanna Cosenza scrive un post, nel quale fa una sorta di teoria della mente dei renziani (trascrivendo quasi esattamente quello che i renziani pensano  e, soprattutto, vedono quando guardano il loro leader; perchè a loro piace che gli venga riconosciuta la familiarità con Berlusconi e il successivo processo di superamento. Come in un buon percorso di apprendimento, dove il legame col proprio maestro viene sciolto con la sua uccisione  -se incontri un Buddha per strada uccidilo, diceva Siddharta), dove dice che Renzi “è proprio bravo”  con un “tanto di cappello”.

E’ bravo perché è “più capace di interpretare le emozioni, i pensieri e gli umori dell’italiano e dell’italiana media”, perché “parla a tutti/e in generale” invece di parlare all’elettorato di centrosinistra.

Parlare a tutti, in politica,  significa “parlare per tutti”, ovvero fare gli interessi di tutti quelli per cui si parla, ed è comunque una vecchia favola retorica alla quale nessuno ha mai creduto e che non sta in piedi né logicamente né praticamente.

Per ascoltare/parlare a tutti, un pover’uomo, dovrebbe mettere su un sistema di ascolto tale da non farsi sfuggire assolutamente nulla, neanche i bisbigli in percentuali minori; poi dovrebbe inventarsi un altro sistema per poter instaurare un dialogo uno-a-uno per scambiarsi le opinioni e infine mettere insieme tutti gli interessi, riuscire a rappresentarli senza creare contro-interessi. La storia non ha conosciuto sistemi del genere e il futuro non promette niente di simile. Forse solo qualche capo religioso riesce a parlare a nome di tutti i suoi fedeli ma niente di più.  Una soluzione parziale a questa aporia è stata certamente la democrazia ateniese che si poneva l’obiettivo di amministrare “non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta” (nemmeno la maggioranza).

Ma chi l’ha detto che Renzi volesse ascoltare tutti o un’ampia cerchia di loro? Ha tifato per l’astensione a un referendum proprio per non ascoltare nessuno; si è addirittura vantato e rivendicato come una vittoria personale quella pratica di astensione.

Se avesse voluto ascoltare la maggioranza delle persone, avrebbe invitato tutti a votare; avrebbe insistito, aumentato il tempo dell’informazione, magari intensificato tutte le tecniche comunicative, pur di riuscire ad avere una più ampia cerchia di voci.  Invece si è adoperato affinché quella maggioranza non emergesse, barando poi sull’intercettazione del sentimento dei più che invece non si sono espressi.

E’ vero, c’è una tendente disaffezione al voto, ma è illogico e insensato per un capo di governo (e un ex capo dello Stato) tifare per il non voto.

Ora resta da capire con chi e per chi parla Renzi. Non è interessato ad ascoltare la maggioranza, non parla con e per la sinistra, gli rimane la desta e il solito centro.

Se Renzi parla e ascolta la destra (centro) come capo del governo ma è anche segretario di un partito di (centro) sinistra, la cosa si semplifica e si chiarisce: Renzi sta compiendo un’azione riformatrice non tanto del paese quanto della struttura ideologica del proprio partito. In soldoni, sta ricostruendo, mattone su mattone, il corpo politico della vecchia Democrazia Cristiana scacciando e piegando tutto ciò che resta della vecchia sinistra.

Tutto qui e il resto sarà futuro prossimo.

Le ragioni di un SI

siPartiamo dal fatto che  i partiti, normalmente, si distaccano dai loro programmi elettorali non appena entrano a far parte del governo.

Per alcuni (più di qualcuno) basta anche solo sedersi su una sedia del parlamento.

Io lo ricordo benissimo quando Serracchiani a Monopoli manifestava in piazza contro le trivellazioni, ed era soltanto il 2012. Solo qualche anno prima, per le elezioni del 2008, il PD aveva parlato di “rottamare il petrolio”  e organizzava le “giornate del sole“.

E’ ovvio che poi si prova un certo fastidio nel sopportare  l’idea che tutti gli italiani si esprimano su alcune materie, come quella delle perforazioni per la  ricerca ed estrazione di idrocarburi, per esempio.

Renzi fa addirittura di più e sposa completamente la causa dei petrolieri  concedendo loro la facoltà di avvalersi di un doppio regime legislativo per l’ottenimento dei titoli.

Perchè il referendum di domenica è un voto politico?

Perchè serve per esprimere un parere sulla strategia energetica italiana; serve a bloccare l’arroganza di un governo che si batte sfacciatamente per gli interessi delle lobbies del petrolio anteponendole a quelli dei territori e alla salute delle persone.

Il governo non ha voluto l’election day e ha stabilito, in tutta fretta, la data del referendum (spendendo circa 350 milioni in più) solo per ridurre i tempi dell’informazione e della comunicazione elettorale e, soprattutto, per non tirare la volata contraria al referendum istituzionale su cui Renzi ha dichiarato di giocarsi la poltrona.

Poi non è vero, come sottolinea Roberta Radich del Movimento NoTriv, “che non estraendo petrolio dobbiamo dipendere dall’estero, perché comunque vi dipendiamo lo stesso dal momento che il petrolio e il gas estratti entro le 12 miglia rappresentano rispettivamente l’1 e il 2 per cento del fabbisogno. Solo progredendo con le energie rinnovabili verrà diminuita la dipendenza dall’energia estera.”

Infine c’è anche la questione delle quote annuali (franchigie) sulle quali non si pagano royalty. Ovvero, se una compagnia estrae un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie stabilite per legge (in terra: 20mila tonnellate di petrolio e 25 milioni di metri cubi di gas; in mare: 50mila di petrolio e 80 milioni di gas) non deve versare le royalty allo Stato. Quindi il rallentamento del flusso di estrazione e l’allungamento dei tempi fino a esaurimento dei giacimenti, serve a far risparmiare i soldi delle royalty ma anche quelli per i costi di dismissione, non smantellando le piattaforme ‘zombie’ che restano abbandonate alla ruggine nei nostri mari. Si consideri che la quantità di petrolio e di gas estratti annualmente vengono semplicemente “autocertificate” dai concessionari senza nessun tipo di controllo.

Che aprile aspetti #NuitDebout

elkhomri“La mia utopia è che ognuno ha il diritto di lavorare” è il motto di Myriam El Khomri, 38 anni, socialista e ministro del Lavoro nel Governo Valls, autrice di una legge di riforma del lavoro molto simile al Jobs Act di Poletti.

Certo è uno strano modo di pensare al diritto al lavoro quello di El Khomri che, come Renzi, avvia una liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso la libertà di licenziare (anche solo per una riduzione delle commesse dell’azienda).

In quanto a liberalità la riforma francese fa anche di più: privilegia in assoluto la contrattazione decentrata in modo da favorire accordi particolari sia sull’orario di lavoro (in casi eccezionali potrebbero arrivare anche a 60 ore settimanali – superando di gran lunga il durèe maximale di 35 ore) che sul salario, con una riduzione dell’importo degli straordinari.

Inoltre apre le porte all’approvazione di qualsiasi porcheria contraria ai diritti dei lavoratori, con il semplice avallo di un referendum interno all’azienda, anche laddove sono presenti soltanto i sindacati minori o “gialli” come la CFDT (che, infatti,  è favorevole alla riforma).

In sostanza anche la Francia si allinea a quei paesi europei che hanno adottato misure similari (in Germania la riforma Hartz, in Spagna il “Decretazo” e in Italia il Jobs Act) nel facilitare i licenziamenti e nel rendere autonome le decisioni degli imprenditori rispetto agli accordi collettivi nazionali.

La differenza è che mentre in Italia la protesta si è completamente sgonfiata e i sindacati si sono rassegnati, compresa la CGIL a cui è bastata la sua “Carta del lavoro” che non si capisce bene a cosa dovrà servire, in Francia la mobilitazione continua e non ha nessuna intenzione di acquietarsi.

Il 9 marzo un milione persone hanno detto no alla “Loi Travail” e alla svolta liberista del Governo Valls.  Sono scesi in piazza tutti i settori: dai trasporti al pubblico impiego, dal commercio alla scuola.

Con la scusa dello stato di emergenza, la polizia ha messo in moto misure restrittive e repressive forse mai viste in Francia

foto di outofline photo collective

(numerosi feriti, 130 fermati e 4 arrestati), eppure il movimento non ha arretrato, anzi ha aumentato la sua presenza nelle piazze e quella manifestazione del 31 marzo non è terminata normalmente come tutte le altre, ma ha proseguito fino a Place de la Republique occupandola per tutta la notte.

NuitDebout è lo slogan e l’hashtag che rimbomba in rete.

Una notte in piedi in quella piazza, e poi in altre piazze ancora (così come le esperienze analoghe di Occupy Wall Street e degli indignados), per parlare e per discutere dell’idea di El Khomri di istituzionalizzare il precariato come nuova riforma del mondo del lavoro.

La mattina seguente è aprile e la polizia tenta di sgomberare la piazza da persone e cose, con il chiaro intendo di mettere la parola fine a quella mobilitazione.

Il neonato movimento capisce che quel 31 marzo non può finire così, che non può esserci un primo aprile della polizia e del governo, che è necessario riappropriarsi anche del tempo, che marzo deve continuare con la protesta, con la lotta e che aprile può aspettare.

A Parigi, come a Nantes a Rennes e poi a macchia d’olio in oltre 60 città francesi,  marzo continua con il 32, il 33, il 34… oggi è ancora il 44 marzo.

foto di The GuardianAnna Maria Merlo su il Manifesto, dice che “per il momento, Nuit Debout non è ancora matura per una traduzione politica”, ma il fatto è che quando parliamo di traduzione politica abbiamo spesso il capo rivolto ai partiti istituzionali.

Questo movimento ha iniziato a studiare da solo e, con le sue “commissioni”, legge e affronta i diversi problemi politico-sociali nella società liberista.

Tenta di individuare soluzioni e soprattutto ha ben compreso che il progetto di smantellamento dello stato sociale non è un evento locale, isolato, francese, ma appartiene a tutta l’Europa.

Ecco la necessità di unire tutte le lotte e di praticare una nuova forma di partecipazione, diversa dal “militantismo tradizionale” chiuso nelle sue cerchie, allargata a tutta la società e a tutte le forme di disagio.  Anche la violenza va evitata, non isolata ma incanalata in proposte concrete e operative.

Carl Marx con l’analisi storica del 18 Brumaio ci insegna che il movimento reale pone sempre delle problematiche alla teoria e questa, a sua volta, deve tendere a trovare soluzioni sempre guardando al movimento reale.

Se volete approfondire, seguire, contribuire o anche solo curiosare: qui trovate il programma (e la petizione) e la mappa dei “rassemblements”.

Il movimento c’è anche su Facebook (c’è anche un gruppo italiano) e su Twitter;  ci sono le dirette su Periscope e trovare anche un po’ di materiale su GitHub.

Panama papers e altri numeri

Conto corrente estero e conto offshore

da l’Espresso

Per lo Stato italiano, e per l’Europa, è possibile possedere un conto corrente all’estero a patto che venga dichiarato fiscalmente, inserendolo nella dichiarazione dei redditi (nell’apposito quadro RW della dichiarazione dei redditi a partire da una giacenza o movimentazione annuale pari o superiore a 15 mila euri). La banca estera nella quale si apre il conto è obbligata a comunicare allo stato di residenza del correntista tutte le informazioni relative al conto corrente.
Il correntista, di conseguenza, verserà un’imposta (Ivafe) sul suo valore del deposito pari al 2 per mille, oltre alla normale tassazione sulle plusvalenze realizzate.
Sostanzialmente è come tenere un conto in una banca italiana, l’unica convenienza potrebbe essere rappresentata da migliori condizioni sulla tenuta del conto, da servizi più efficaci ed efficienti o dalla convinzione di aver depositato i propri soldi in una banca più solida e più sicura ma, credo, niente di più.
Chi mira, invece, a risparmiare sul pagamento delle tasse dovrà eludere tutta la procedura ufficiale e seguirne una “offshore”, ovvero aprire un conto estero sul quale le tasse non vengono pagate grazie alla segretezza dell’identità del correntista.

Panama papers

Questo è proprio il punto nodale di un conto offshore: la segretezza. Ma non è cosa semplice da realizzare. Considerato l’obbligo della trasparenza delle aziende e il grande impegno dell’OCSE nella lotta contro i paradisi fiscali, diventano indispensabili almeno due cose: primo rivolgersi a uno dei 14 paesi dove è ancora possibile richiedere segretezza (Belize, Brunei, Isole Cook, Costa Rica, Guatemala, Filippine, Liberia, Isole Marshall, Montserrat, Nauru, Niue, Panama, Uruguay e Vanuatu) e poi affidarsi a società o agenzie specializzate che riescono a far arrivare il denaro sul conto corrente di questa banca estera senza lasciare tracce. Anche tracce come le “ Panama papers”. Quasi dodici milioni di documenti, relativi a transazioni finanziarie segrete, sottratti allo studio Mossack Fonseca da un anonimo whistleblower che, come dice l’Espresso, li ha forniti al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che, a sua volta, si è rivolto al ICIJ (l’International Consortium of Investigative Journalists che ha condiviso il lavoro e la scoperta con le 378 testate partner tra cui l’Espresso).
Siccome stiamo parlando di 2,6 terabyte di dati, c’è chi sostiene che non si tratti di una semplice gola profonda ma crackers che hanno sfruttato la vulnerabilità di un vecchio plugin su WordPress (“Revolution Slider” che in una sua versione non aggiornata fa caricare una shell remota – corretta già da due anni da Wordfence) e di un server di posta, al quale accedevano tutti i clienti dello studio, che risedevano sullo stesso network.
Insomma una grossolana leggerezza che ha permesso di scaricare, per mesi, tutto l’archivio dello studio Mossack Fonseca. Infatti, dopo il 3 aprile, il loro dominio è passato a Incapsula che ha trasferito tutto su server neozelandesi.

Crackers?

Crackers perché l’operazione è stata pagata (non si sa se commissionata o offerta) e la filosofia hacker non collima con questa tipologia di finalità; e poi perché nella rete hacker non c’è stata nessuna eco dell’impresa.
Pagata dagli americani perché l’ICIJ è stato fondato da un giornalista americano (Chuck Lewis) ed è sostenuta da: Adessium Foundation, Open Society Foundations, The Sigrid Rausing Trust, Fritt Ord Foundation, Pulitzer Center on Crisis Reporting, The Ford Foundation, The David and Lucile Packard Foundation, Pew Charitable Trusts and Waterloo Foundation.
Tant’é che, al momento, tra tutti gli americani presenti nei documenti, non è ancora saltato fuori nessun nome eccellente a fronte dei 140 politici e uomini di Stato del resto del mondo.

I numeri

215 mila le società coinvolte, riferite a 204 nazioni diverse e 511 banche (tra cui le italiane Ubi e Unicredit);
378 giornalisti, in un forum chiuso, analizzano un database di 2,6 terabyte lungo 38 anni di registrazioni.
800 sono gli italiani coinvolti e tutto quello che ne verrà fuori continueremo a leggerlo sulle maggiori testate giornalistiche del mondo.

La Cura. Ritrovare la sintonia con l’universo

E’ appena uscito in libreria (da qualche giorno anche in ebook) “La cura”, l’ultimo libro di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico pubblicato da Codice Edizioni.

Un libro straordinario, come dice Biava nella prefazione, per ciò che ci insegna e rappresenta, e  per il coraggio e la volontà mostrati dai due autori nel percorrere una via nuova e completamente ignota in una situazione drammatica e pericolosa, che solitamente si conclude in modo triste e doloroso.

Ne parlo con gli autori per i quali, in rete, c’è una infinità di definizioni, ma a me piace vederli semplicemente come due hackers che di questa filosofia (alcuni direbbero etica) ne hanno fatto l’unico modo di vedere e vivere il mondo.

Salvatore, partiamo dalla scoperta della malattia e dalla ribellione verso lo status di malato.

Un banale incidente in piscina nel 2012 si trasforma in un incubo: facendo lastre e accertamenti mi diagnosticano un cancro al cervello. Da lì nasce una riflessione immediata: appena avuta la diagnosi ed entrato in ospedale sono scomparso. L’essere umano Salvatore Iaconesi svanisce, rimpiazzato da dati medici, immagini, parametri corporei. Il linguaggio cambia, e subentra una separazione netta, sia nei dottori che nelle persone, amici e parenti: divento a tutti gli effetti la mia malattia. Nessuno parla più di te, ma dei tuoi dati, che oltretutto non sono per te. Un giorno, mentre ero in ospedale, ho chiesto una immagine del mio cancro, perché volevo vederlo, parlarci, stabilirci un rapporto. È stato difficilissimo ottenerla. Ma deve pagare un ticket per ottenerla? E la privacy? Ci deve firmare una liberatoria? E cosa succede se gli diamo una immagine del “suo cancro” e poi esce fuori che non si trattava, dopotutto, di un tumore e poi ci denuncia? E tanti altri problemi. L’immagine del mio corpo non era per me. Come tutti gli altri dati. Era un segnale della mia scomparsa: Salvatore Iaconesi messo in attesa, rimpiazzato dal paziente X, entità amministrativo-burocratica destinatario di servizi e protocolli di cura.
Questa sospensione, questa separazione dall’essere umano dal mondo, dalla società, mi sembrava una cosa gravissima.
Per ottenere la mia cartella clinica digitale mi sono dovuto dimettere dall’ospedale. Mi sono dimesso da paziente.
Appena ricevuta la cartella, qualche giorno dopo, ho avuto una sorpresa amara: il paziente X mi aveva seguito fino a casa. Aprendo i file ho scoperto che erano in formato DICOM, un formato che è tecnicamente aperto, ma che non è per persone ordinarie: è per tecnici, radiologi, chirurghi, ricercatori. Non è qualcosa che posso usare in maniera semplice e accessibile dal mio computer, che posso inoltrare in una mail o condividere sui social network. È un file per tecnici: per aprirlo devo installare software differenti, imparare i linguaggi e le pratiche della medicina. Semplicemente, di nuovo, le immagini del mio corpo non erano per me: era il paziente X, destinato ad essere amministrato dai tecnici.
In questi due momenti, la richiesta dell’immagine del mio cancro e l’arrivo della cartella clinica, è iniziata La Cura. Ho aperto i file, li ho tradotti in formati “per esseri umani” e li ho pubblicati online, aprendo la cura a tutti. L’atto di tradurre quei file in formati per “esseri umani”, per le persone comuni, cose che puoi mandare via mail, o condividere sui social network, è corrisposto al riappropriarmi della mia umanità, all’uscire dalla separazione e a far rientrare la malattia nella società.

Chi vi conosce sa che la Cura va oltre la storia personale, anzi è una piccola cassetta degli attrezzi per facilitare la comprensione di un dislivello di potere.

Noi la chiamiamo performance partecipativa aperta, nel senso che il suo scopo è il creare uno spazio sociale interconnesso, usando le tecnologie, le reti, ma anche la prossimità, la solidarietà, le relazioni umane, in cui abbia senso costruire soluzioni collaborative per i problemi del mondo. In questo caso è il mio cancro, ma potrebbe essere applicato a tanti altri, come mostrano ad esempio i nostri altri lavori in questo senso.
Il libro, in questo senso è un elemento fondamentale, perché è non è solo una storia, ma anche uno strumento.
La cura è una piattaforma per l’immaginazione, per aumentare la percezione di ciò che è possibile, per costruire senso, nella società. E le persone hanno compreso perfettamente: è difficile contare quanti sono stati e quanti sono ad oggi i contatti che abbiamo avuto, che sono avvenuti in centinaia di modi differenti, dalla rete, al venirci a bussare a casa e tutto quel che c’è nel mezzo, ma si parla di circa 1 milione di persone.

Continuate a occuparvi di osservazioni delle dinamiche sociali all’interno delle comunità, in che senso è un “ecosistema”?

Per noi diventa sempre più difficile capire cosa sia lavoro e cosa sia “vita”. Certo è che con l’una costruiamo significato per l’altro e viceversa. In tutto questo il concetto di “ecosistema” assume un ruolo fondamentale. L’ecosistema è il luogo della coesistenza. L’ecosistema non è lo spazio/tempo in cui tutti vanno d’accordo, ma il contesto in cui tutti si rappresentano e in cui, attraverso i conflitti e le tensioni tramite cui ci si posiziona nel mondo, si creano le dinamiche per la coesistenza. In qualche modo si può dire che ogni cosa che facciamo, che sia un progetto o un’opera d’arte, sia dedicata allo studio degli ecosistemi. Anche La Cura è un ecosistema: è il contesto in cui la malattia viene tirata fuori dall’ospedale e aperta alla società, in modo che tutti possano rappresentarsi e rappresentare, sviluppando discorsi e interazioni da cui possa essere costruito il senso: la malattia, qui, diventa un ambiente aperto, in cui tutti partecipano alla cura, che siano medici, artisti, ingegneri, hacker o altri tipi di persone. Proprio come non ci si ammala da soli – perché quando ci ammaliamo la vita cambia per i nostri amici e parenti, i datori di lavoro, i commercianti presso cui andiamo a fare la spesa, la previdenza sociale e, quindi tutta una nazione – non ha senso cercare la cura solo all’interno dell’ospedale. Sarebbe ingenuo e incompleto. Ha molto senso, invece, cercarla nell’ecosistema, nella società, con la partecipazione di tutti. Non solo ha senso, crea senso, con la possibilità di scoprire nuove forme di solidarietà e collaborazione, trasformando la cura da qualcosa che compri in qualcosa che fai, con gli altri.

Foucault parla di biopolitica riferendosi al potere del capitale sulla vita, sul corpo umano (come specie) e sul suo controllo, voi parlate di biopolitica dei dati.

I dati sono una cosa complessa. Abbiamo, ormai, imparato a parlarne con toni e atteggiamenti che in altre epoche si dedicavano agli argomenti religiosi. Stiamo diventando molto ingenui quando si parla di dati, presupponendo che valga in qualche modo una equivalenza tra dati e la realtà. Ovviamente, non è così. I dati sono tra le cose meno obiettive che conosco. In sociologia si dice che il dato è “costruito”, indicando il fatto che raccogliere dati corrisponde ad effettuare delle scelte: quali sensori scegliere, dove posizionarli, quali domande fare, quali dati catturare, quali scartare, come interpretarli, come visualizzarli. Sono scelte, non verità di qualche genere. Operando su questi parametri è possibile, in linea di principio, osservare lo stesso fenomeno e generare dati anche diametralmente opposti, in contrasto. E qui interviene la biopolitica, ovvero l’insieme di modi in cui i poteri operano per esercitare il controllo e per determinare corpi e soggetti. Il controllo avviene per classificazioni: classificando determino la realtà. Decido se stai bene o male, se puoi guidare o meno, se puoi fare un certo lavoro o no, se sei a rischio o meno, quanto paghi l’assicurazione, se puoi avere un conto in banca o acquistare una casa. Tutte queste cose hanno a che fare con i dati: pochi soggetti, dotati di potere, scelgono parametri e soglie e, in questo modo, definiscono la realtà. La cosa incredibile è che nulla di tutto ciò ha a che vedere con le persone, con le relazioni umane, con la società. La salute è particolarmente evidente in questo: qualcuno stabilisce dei protocolli e delle soglie per i parametri corporei in modo da determinare se sei malato o no. Io magari ho un valore di 1.4 per un certo parametro di misurazione del mio corpo, e la soglia della malattia è a 1.5. Se, domani, dovessero cambiare la soglia e impostarla a 1.3, io, senza che sia intervenuto alcun cambiamento nel mio corpo, diverrei ufficialmente malato. Sarei la stessa persona di ieri. Non mi farebbe male una spalla, un braccio o il fegato. Non sarebbe cambiato nulla in me. Ma, per i dati, io sarei malato. Sperando oltretutto che chi varia la soglia non lo faccia solo per “generare” potenzialmente milioni di “malati” aggiuntivi, per poter piazzare prodotti e servizi.
Questo è un potere enorme. E questi processi avvengono di continuo: nella scuola, nel lavoro, nella salute, nella finanza, nelle banche, nelle assicurazioni, con i prezzi di cibo, acqua, medicine, energia, su Facebook e Google, dovunque.
Il dato diventa uno strumento di controllo, di definizione della realtà per poterla controllare, in modo algoritmico. Questa è la biopolitica del dato.

Qual è il racconto di Oriana?

Nel libro la storia (della performance) è raccontata da due punti di vista, come vedere la stessa stanza ma da due inquadrature differenti, naturalmente tutto cambia anche se la stanza è la stessa. Non racconto una storia differente, è la mia “posizione” a essere diversa.
Nel corso della scrittura siamo arrivati a definire mano mano la struttura: il libro della Cura è diviso in sezioni (7 a voler essere precisi). Ogni sezione è divisa in tre tipologie di capitoli, contrassegnati da tre icone. Quelli “S” sono la storia dal punto di vista di Salvatore, quelli “O” di Oriana, gli “R” sono la ricerca: attraversando discipline e argomenti molto differenti fra loro, affrontano i temi che emergono attraverso la storia. Infine ci sono le parti “W”, come workshop: non dei capitoli, piuttosto dei box, degli inserti che contengono una sintetica descrizione dei workshop che completano la sezione. Ogni workshop è collegato a un link che rimanda su Github, dove è possibile trovare i materiali di approfondimento, discutere e creare nuovi workshop o versioni diverse dello stesso workshop: tutto questo è accessibile dal sito alla sezione “Conoscenza“.
Tornando alla tua domanda, nel libro abbiamo moltiplicato i punti di vista per due (“S”+”O”). In realtà gli “autori” del racconto della Cura, come ogni storia o ogni evento, potrebbe essere moltiplicati all’infinito, almeno per quanti sono stati i partecipanti: nel nostro caso partiamo da una base di 1.000.000 di autori.
Nella forma libro (sequenziale e basata su una economia della scarsità) questo tipo di moltiplicazione è impossibile (e tutto sommato indesiderabile). E’ vero il contrario quando la narrazione può esplodere nella forma rizomatica, ubiqua, polifonica ed emergente della rete: non siamo più tecnicamente di fronte al “libro” della galassia Gutenberg, ma senz’altro a forme narrative e di pubblicazione. Già nel 2012 il sito della Cura conteneva visualizzazioni in tempo reale sulla vita della performance: stiamo lavorando ad una nuova e più articolata versione che sarà presto visibile.
In sintesi, Salvatore e Oriana non sono e non saranno i soli autori di questa storia, come non lo sono mai stati.

Quale sarà il futuro dell’informazione nelle nostre comunità?

Non mi piace fare previsioni, o pensare al “futuro” al singolare: preferisco “futuri”, plurale.
Certo è che, ora e a breve, ci troveremo costretti a cercare e implementare modi per costruire senso. Siamo invasi dall’informazione e dalle opportunità di informazione, tanto che il “contenuto” sta perdendo senso (se non l’ha già perso) e l’unica cosa che diventa importante è capire come costruire senso, possibilmente insieme a comunità di persone, se non insieme a tutta la società.
Questa ricerca potrebbe andare a finire in tanti modi differenti, lungo due direzioni principali. Da un lato l’algoritmo. Dall’altro la fiducia e la relazione. Da un lato l’intelligenza artificiale e la possibilità di comprendere algoritmicamente le informazioni e le persone e, di conseguenza, di suggerire alle persone cosa potrebbe essere rilevante per loro, cosa avrebbe senso. Dall’altra parte la possibilità di conoscersi, fidarsi, stabilire relazioni significative e, di conseguenza, poter stabilire processi in cui la costruzione del senso possa avvenire nella società delle relazioni, costruendo capitale sociale oltre che servizi.
A me interessa più questa seconda interpretazione. Oltretutto la prima direzione potrebbe molto convenientemente essere messa al servizio della seconda. Questo è, per me, lo scenario più desiderabile.

Ci sono una serie di iniziative, spesso messe in campo dai governi istituzionali, che scimmiottano la cultura hacker. E’ come se volessero dimostrare che il senso del “buono” è stato già recuperato e ciò che resta è cattivo o controproducente. Penso a esperienze consumate intorno a idee di produzione e industrializzazione collegate a startup e a fablab che ripropongono, in definitiva, nuovi modelli di capitale.

Nel mondo del digitale, dell’immateriale, della globalizzazione ogni industria diventa per forza di cose una industria culturale. Quando il focus non è più sulla produzione di prodotti, ma nella costruzione di idee, l’industria ha un solo prodotto: la creazione della percezione del futuro, di che forma avrà il mondo, del senso. In questo la “trasgressione”, intesa come l’oltrepassare i confini del “normale”, gioca un ruolo importantissimo: sono i “trasgressori” gli unici a essere capaci di innovazione radicale. Per questo l’industria deve imparare ad avere a che fare con i “troublemakers”, come li chiamava Enzensberger, e con l’”Excess Space”, come lo definisce Elizabeth Grosz. I modi sono tanti, inclusa la cooptazione, l’assunzione, il mettere hacker e “rivoluzionari” (secondo la narrativa di “cambieremo il mondo”) sul palco o in esposizione, o l’appropriazione di linguaggi e immaginari (come è avvenuto e sta avvenendo per gli hacker).
Noi, per esempio, puntiamo a modelli differenti per assicurare un ruolo alla “trasgressione” negli ecosistemi dell’innovazione. Prendendo in prestito un fraseggio da Massimo Canevacci Ribeiro la potremmo chiamare “indisciplina metodologica”, e la attuiamo con la metafora del “giardino”, alludendo al Terzo Paesaggio di Gilles Clément.

A proposito di Clément, a Potenza qualche tempo fa, sono state sperimentate forme di “giardino in movimento” come spazio possibilistico.

In tutta quest’ottica Clément cerca risposta a una domanda fondamentale: “com’è fatto il giardiniere di un giardino senza forma?”
È una domanda difficile e richiede non solo di trovare strumenti e saperi adatti (com’è fatto un giardiniere che invece di usare il rastrello usa il vento? che mestiere fa?), ma anche e soprattutto nuove sensibilità e nuove estetiche: occorre imparare a riconoscere il “bello” in ciò che interconnette e in ciò che crea la “differenza”, come diceva Bateson.
In questo senso può essere di aiuto Marco Casagrande che, quando descrive la sua città di Terza Generazione parla delle “rovine” come di qualcosa da riscoprire: la città di Terza Generazione è la “rovina organica” della città industriale, e diventa “vera” quando la città riconosce la propria conoscenza locale e permette a sé stessa di essere parte alla natura. È una idea nuova di architettura e di pianificazione urbana, in cui l’architetto e l’urban planner assomigliano al giardiniere di Clément: non decisori, normatori o progettisti, ma soggetti capaci di “farsi piattaforma” perché emergano i desideri, l’immaginazione e le visioni delle persone, che diventano a tutti gli effetti co-progettisti.
Questo è anche un parallelo incredibilmente potente con La Cura: la cura è un prodotto sociale, che emerge dalla capacità dei membri della società di autorappresentarsi, osservare sé stessi, e di costruire significato interconnettendosi, che si sia medici, ragionieri, artisti, ingegneri, ricercatori, politici o commessi al supermercato.

Ritornando a “La Cura”, possiamo dire che la condivisione e l’open source, funzionano anche e soprattutto con la medicina?

Nel libro ci siamo trovati a dover avere a che fare con tante discipline differenti per rispondere a questo tipo di domanda. È questo il senso delle sezioni di ricerca del volume. È interessante come l’”apertura”, l’”interconnessione” e la “differenza” siano concetti fondanti in questo genere di processo. Sono le porte che aprono la via ad una innovazione differente, capace di tanti tipi di tempo (non solo la ipervelocità che, ingenuamente, pensiamo di dover assumere per essere competitivi), di pensiero, di atteggiamento, e di orientare verso la possibilità per la coesistenza di tutti questi approcci differenti, di trasformarli in opportunità, in una nuova sensibilità, in una nuova estetica, capace di riconoscere la bellezza dell’interconnessione e della relazione, dell’alterità, della differenza (e, quindi, anche del conflitto).
Occorre rivoluzionare l’immaginario.
Questo è funzionale a tutti i settori, inclusa la medicina.
La “crisi” è innanzitutto una crisi di immaginario, della progressiva impossibilità di immaginare e desiderare modi radicalmente diversi di operare.

Che ne è stato di quel progetto di legge che si ispirava al vostro progetto artisopensource?

Quello che era originato dall’interrogazione parlamentare sulla Cura e sui formati aperti per i dati medici? Non se ne è saputo più nulla nel dettaglio, ma sono anche cambiate tante cose. Ad esempio La Cura costituirà un caso rilevante nel position paper presentato dagli Stati Generali dell’Innovazione alla Commissione Interparlamentare sull’Innovazione. Ed è solo l’inizio.

Laura Gelmini ha scritto che la vostra iniziativa “è un esempio importante del rapporto fra un sistema sociale, la medicina, e un altro: l’arte.” Qual è il legame?

Come dicevamo nell’altra domanda, il ruolo dell’arte è fondamentale e forte. E non siamo i primi a immaginarlo. Già Marshall McLuhan vedeva l’artista come la persona capace di creare ponti tra l’eredità biologica e gli ambienti creati dall’innovazione tecnologica. O come Derrick de Kerckhove, che attribuisce agli artisti la capacità di predire il presente. Roy Ascott che descrive l’artista come IL soggetto capace di confrontarsi con un mondo in cui significati e contenuti sono progressivamente creati tramite relazioni e interazioni, in modo instabile, mobile e fluttuante. O come Gregory Bateson, che vede nell’arte il solo modo possibile per soddisfare la necessità di trovare soluzioni attraverso cambiamenti radicali nel nostro modo di pensare e di conoscere.
Ma anche rimanendo nel business: già Pine e Gilmore nel loro libro in cui introducevano per la prima volta il concetto di Experience Economy, descrivevano l’arte come una necessità.
Nell’arte scienza, tecnologie, ambiente e società trovano il sensore e l’attuatore per introdurre nuovi immaginari, nuovi modi di leggere il mondo, di costruire significati e di agire, insieme.

Ultima domanda. Se dovessi proporre un tema o un warmup per l’Hackmeeting che si terra a Pisa dal 3 al 5 giugno?

“Trasgressione e Innovazione!”